a cura di Ely Karmon, articolo pubblicato il 4 aprile 2022 da “fathom” (https://fathomjournal.org/understanding-the-recent-terror-attacks-in-israel/) – È possibile rinvenire un’interessante e articolata analisi dei recenti attacchi terroristici compiuti in Israele nell’intervento del professor Ely Karmon sul periodico online “fathom”. In esso, conversando con il vicedirettore della testata, il dottor Samuel Nurding, l’autorevole ricercatore israeliano ha affrontato il tema e i suoi diversi addentellati partendo dagli ultimi episodi terroristici, per poi esaminare l’attuale livello di sostegno di cui gode l’ISIS nella società palestinese e il motivo per il quale Jenin è – «ancora una volta», egli afferma – la capitale del terrore in Cisgiordania.
RECENTI ATTACCHI TERRORISTICI
I primi due attacchi terroristici sono stati i primi in Israele ispirati dall’ISIS, mentre la responsabilità in ordine al terzo, compiuto nel cuore della zona ortodossa di Bnei Brak, andrebbe ascritta a un militante di Fatah (per i dettagli su di esso è possibile approfondire nell’ultimo paragrafo dei questo articolo. L’ISIS non ha affiliati riconosciuti in Israele. In passato diversi jihadisti della Striscia di Gaza avevano chiesto un riconoscimento del loro status di combattenti al Califfo, che tuttavia da questi gli è stato rifiutato. Un caso analogo a quello dei due jihadisti della Striscia che si sono presentati come membri di una fazione di al-Qa’eda, ma che non sono stati riconosciuti come tali dalla dirigenza dell’organizzazione.
IL CONTESTO: ISIS IN ISRAELE
È importante capire il contesto nel quale sono stati compiuti gli attacchi. Al momento si registra una presenza dell’ISIS all’interno della comunità araba israeliana (e palestinese), seppure soltanto duecento palestinesi (provenienti sia da Gaza che dalla Cisgiordania, nonché da Israele) hanno cercato di andare a combattere nei ranghi del califfato, ma soltanto alcuni di loro ci sono riusciti, mentre la maggior parte di essi no. Ad esempio, il terrorista responsabile dell’attacco perpetrato a Beer Sheva era un influente predicatore dell’ISIS che nove anni fa era stato arrestato e successivamente processato per aver tentato di recarsi in Siria a combattere con gli islamisti. Anche uno dei terroristi dell’attacco di Hadera in passato aveva cercato di entrare in Siria dalla Turchia, ma era stato arrestato dalle autorità di Ankara ed espulso in Israele, dove poi ha trascorso diversi anni in carcere. La politica del governo dello Stato ebraico nei confronti dei foreign fighters tornati in Israele prevede la detenzione per un periodo massimo di tre anni qualora essi non venissero ritenuti responsabili di gravi crimini contro l’umanità. In totale in Israele sono stati incarcerati 86 sostenitori dell’ISIS.
INTELLIGENCE SOTTO STRESS
I servizi di intelligence israeliani sono oberati da un’enorme quantità di impegni, derivanti dalla molteplicità delle potenziali attività terroristiche nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e nello stesso territorio dello Stato ebraico, oltreché, naturalmente, dal fronte settentrionale (confini con il Libano e la Siria meridionali). Negli ultimi mesi i responsabili della sicurezza ritenevano, a ragione, che nel paese le tensioni avrebbero con ogni probabilità conosciuto una fase incrementale, in particolare in occasione del mese di Ramadan e nella città di Gerusalemme e nelle aree circostanti, poiché Hamas e la Jihad islamica palestinese (PIJ) avrebbero tentato di destabilizzare la situazione prendendo a pretesto la questione del Monte del Tempio, questo allo scopo di mantenere la loro immagine di «difensori» della moschea di al-Aqsa. Tuttavia, negli ultimi mesi è stata registrata una ripresa delle attività dell’ISIS in Siria, culminate nel tentativo di fare evadere 3.500 dei suoi combattenti detenuti dalle forze curde. Una operazione rispondente alla strategia elaborata inizialmente già nel 2009 e denominata «Breaking of the Walls», consistente in una serie di attacchi finalizzati alla liberazione delle centinaia di prigionieri jihadisti detenuti in Iraq, divenuti in seguito la massa critica della forza combattente di Islamic State in Siria.
OPERAZIONE SINAA: L’EVASIONE DI MASSA
La prigione di Sinaa, dove sono stati astretti a detenzione 3.500 militanti dell’ISIS fatti prigionieri insieme a settecento minorenni, i cosiddetti «cuccioli del califfato», venne attaccata nel gennaio del 2022 da gruppi affiliati a Islamic State. Contestualmente all’azione militare, all’interno del carcere migliaia di prigionieri iniziarono una rivolta e inseguito centinaia di loro riuscirono alla fine a fuggire nel quartiere vicino. Alle forze curde, appoggiate dagli americani e dai velivoli della Raf britannica, occorsero dieci giorni per ricatturare seicento degli evasi. Il bilancio dell’attacco fu di decine di militanti jihadisti e di detenuti uccisi all’interno della prigione, oltre a centoquaranta appartenenti alle Forze democratiche siriane (SDF) e guardie carcerarie. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio 2022, Abu Ibrahim al-Hashimi al Qurayshi, il «califfo» di Islamic State, che aveva trovato rifugio nei pressi della prigione, venne eliminato in un’operazione americana, fatto che rappresentò una significativa battuta d’arresto per l’organizzazione jihadista. Si ritiene che al-Qurayshi si trovasse in quel luogo allo scopo di assumere il comando dei prigionieri liberati e proseguire la lotta per la riconquista del territorio all’interno dell’enclave curda.
MORTE DEL CALIFFO
Il 10 marzo Islamic State annunciava ufficialmente la morte del califfo e la nomina del suo successore, Abu Hasan al-Hashemi al-Qurayshi. L’apparato mediatico del califfato avviò una campagna globale di raccolta di fedeli al nuovo califfo, chiedendo ai seguaci di vendicare la morte di Abu Ibrahim al-Hashimi al Qurayshi prendendo di mira i suoi nemici, inclusi gli Stati arabi della regione e l’Occidente. Ciò che poi si è esattamente verificato in Israele con l’attentato di Hadera, dove uno dei terroristi che compì l’attacco indossava un giubbotto recante un’immagine tratta dalla serie Netflix Avengers, per mostrare che quell’azione seguiva la direttiva impartita da ISIS per vendicare la morte del califfo. Sebbene i terroristi abbiano effettuato l’attacco in suo nome, non è stato loro spiegato in che modo questo fosse correlato all’organizzazione.
L’articolo principale pubblicato da “a-Naba”, media ufficiale di Islamic State, trattò l’attacco ad Hadera presentandolo nelle forme di un «giuramento di fedeltà al leader dell’organizzazione», senza tuttavia aggiungere ulteriori dettagli riguardo ai terroristi, ad esempio se essi avessero in precedenza avuto collegamenti con l’organizzazione. Nell’articolo si esprimeva risentimento per i palestinesi che condannavano l’attacco, affermando che «i loro obiettivi e interessi si intersecavano con quelli degli ebrei». Gli attacchi sono stati un fallimento dei servizi di intelligence israeliani, che non hanno prestato sufficiente attenzione alle dinamiche in atto in Siria e neppure al messaggio di vendetta seguito alla morte del califfo. Nel caso di Beer Sheva è chiaro come l’attentatore fosse un simpatizzante dell’ISIS, persona che i servizi di sicurezza avrebbero dovuto arrestare o, comunque, monitorare immediatamente dopo la diffusione del messaggio-minaccia, assieme a tutti i sostenitori di Islamic State noti. Ma ciò è stato fatto dopo, a seguito dell’attacco terroristico di Hadera.
JENIN CAPITALE DEL TERRORE
Il terrorista responsabile del terzo attacco compiuto in Israele a Bnei Brak, sobborgo orientale di Tel Aviv, proveniva da Jenin ed era un membro di Fatah. L’aspetto preoccupante è che, nonostante la condanna degli attacchi del presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, di per sé rara, il capo del movimento Fatah a Jenin ha elogiato il terrorista ucciso descrivendolo come un martire. Questa è la situazione all’interno dell’Amministrazione Palestinese (AP) e nel Fatah, movimento che gestisce il potere in Cisgiordania, che evidenzia quanto si sia ridotta l’autorevolezza e la legittimazione di Abbas nel territorio.
Sin dalla Seconda intifada, esplosa nel 2000, Jenin ha costituito una roccaforte della Jihad islamica palestinese, organizzazione che ha sede a Gaza. In effetti, l’inizio dell’operazione “Scudo difensivo” alla fine del marzo 2002 (lanciata dalle Forze di Difesa israeliane (IDF) a seguito di una serie di attacchi terroristici compiuti nello Stato ebraico che avevano provocato la morte di centotrenta civili israeliani in un mese) iniziò proprio con l’ingresso dei soldati a Jenin. Nel corso dei combattimenti all’interno dei campi profughi perirono cinquantadue palestinesi, per lo più uomini armati, e ventitré militari israeliani. Per le Forze armate di Israele la battaglia di Jenin è divenuta il simbolo della lotta al terrorismo in Cisgiordania, tuttavia, l’infrastruttura terroristica nella città è stata poi ricostruita e oggi le forze di sicurezza dell’AP non ne hanno il controllo, incontrando enormi difficoltà nel farvi ingresso allo scopo di contrastare gli estremisti locali. Il PIJ mantiene la sua roccaforte a Jenin, dove è noto il fatto che i suoi militanti collaborino strettamente con quelli di Fatah. Ora, il quesito da porsi è se i due attacchi individuali compiuti da presunti militanti di Fatah fossero un’operazione congiunta dei due gruppi oppure siano indice di un transito di essi da Fatah a PIJ.
ABBAS E LA COOPERAZIONE CON ISRAELE NELLA SICUREZZA
Le forze di sicurezza dell’AP (PASF) cooperano sostanzialmente con quelle dello Stato ebraico nella lotta contro Hamas e la PIJ. Un aspetto estremamente importante, poiché consente alle forze israeliane di entrare nell’Area A della Cisgiordania quando necessario, al fine di evitare che potenziali attacchi vengano portati a compimento. Centinaia di militanti di Hamas e PIJ sono stati arrestati dalle PASF ma non processati, infatti essi vengono imprigionati senza processo per mesi o anni, allo stesso modo di quanto accade nella Striscia di Gaza quando a essere arrestati (stavolta da Hamas) sono invece gli attivisti di Fatah. In un suo recente discorso, Mahmud Abbas ha sottolineato come la cooperazione in materia di sicurezza con Israele sia un «must», una «santa missione» ma, allo stesso tempo, l’incitamento agli attacchi permane frequente all’interno del movimento Fatah, mentre l’AP continua a versare denaro ai terroristi incarcerati e alle loro famiglie, anche quelli appartenenti ad Hamas e alla PIJ.
È difficile comprendere esattamente cosa pensi l’uomo della strada palestinese della Cisgiordania riguardo agli attacchi terroristici, sappiamo che durante l’intifada del coltello (2015-2016) molti giovani sostennero Hamas. In alcuni luoghi, come a Jenin e a Nablus, si registra un maggiore sostegno alla resistenza armata contro Israele, così come alle famiglie numerose che storicamente appoggiano Hamas. È importante ricordare che quando nel 2006 quest’ultima organizzazione islamista assunse il controllo del parlamento palestinese, Fatah aveva effettivamente ricevuto 700.000 voti in più, perdendo però le elezioni soltanto perché la lista di Abbas era divisa tra la corrente di Marwan Barghouti e altri di settantacinque candidati del movimento. Ed è per lo stesso motivo che Abbas ha rinviato le elezioni previste per il maggio 2021, poiché il voto del suo partito sarebbe stato diviso in tre diverse liste.
Hamas è oggi concentrato sulla necessaria ricostruzione della Striscia di Gaza, ma si è però indebolito a livello regionale, perché il Qatar sta cercando di migliorare le proprie relazioni con l’Occidente e gli Usa, mentre la Turchia cerca di ricucire i legami con Israele e gli stati nemici della Fratellanza Musulmana, come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. In questo contesto Hamas ha impedito al PIJ di lanciare razzi contro il territorio di Israele, almeno secondo quanto riferito di recente dall’emittente “Kan”. Una notizia diffusa poco dopo che tre militanti del PIJ erano stati uccisi in Cisgiordania nel corso di una conflitto a fuoco con le forze di sicurezza israeliane, intercettati mentre si stavano spostando per compiere un attentato nel territorio dello Stato ebraico. Al riguardo, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, sarebbe riuscito a persuadere il segretario generale del PIJ, Ziyad al-Nakhalah, ad annullare i piani di lancio dei razzi su Israele quale rappresaglia per la morte dei tre militanti armati.
PROBLEMI DELLA BARRIERA DI SICUREZZA
Un altro problema che si pone a Israele è come difendere la barriera di sicurezza (gheder hafrada) con la Cisgiordania. Si tratta di un continuo fallimento dei governi negli ultimi dieci anni, poiché il 40% dei palestinesi che lavorano in Israele entra illegalmente attraverso i varchi illegali aperti nel muro che corre lungo la linea di separazione con la Cisgiordania. Dopo l’attacco terroristico di Bnei Brak, il gabinetto di sicurezza ha approvato all’unanimità un piano dell’ammontare pari a 360 milioni di shekel (NIS), equivalente di 112 milioni di dollari, stanziamento a copertura delle spese di riparazione e ricostituzione della recinzione, opera che potrebbe richiedere un anno di tempo per il suo completamento.
La questione relativa alla barriera di sicurezza riveste anche una natura politica. Infatti, il muro di separazione venne edificato dall’allora primo ministro Ariel Sharon in funzione di confine tra Israele e un futuro Stato palestinese, seppure l’idea alla base fosse stata concepita al tempo del governo presieduto da Yitzhak Rabin. Personalmente, considero la recinzione un «elefante bianco a lungo termine». L’esempio di cosa accade quando si costruisce un muro lo abbiamo avuto dalla Striscia di Gaza: poi ti tocca rivedere e ampliare il perimetro, dato che i tuoi nemici si inventeranno sempre nuovi modi per aggirarlo, usando tunnel, droni e altri strumenti. La ragione per la quale la barriera di sicurezza si è rivelata porosa per tutto questo tempo è perché c’è stato un interesse politico a che i palestinesi lavorino in Israele, sia legalmente che illegalmente, allo scopo di rendere disponibile un incentivo economico che contribuisca a mantenere la calma e, allo stesso tempo, porre a disposizione degli israeliani mano d’opera in economia.
LE FORZE DI POLIZIA
Poi c’è il capitolo delle forze di polizia israeliane, che non sono sufficientemente forti per affrontare missioni critiche per il mantenimento della sicurezza interna, quali il contrasto delle attività criminali e della dilagante violenza nella comunità araba di Israele, oltreché in quello della minaccia terroristica, sia interna che proveniente dalla Cisgiordania. I sorprendenti violenti tumulti esplosi nelle città miste israeliane durante l’operazione militare “Guardian of the Walls” del maggio 2021 hanno confermato la cronica mancanza di controllo delle comunità beduine del sud e di alcune comunità del nord. Nel 1974 venne approvata una legge che attribuì la competenza del contrasto del fenomeno terroristico alla polizia, sottraendola all’esercito. Contrariamente alle grandi città europee come Londra, Parigi o Roma, in quelle israeliane non si vede l’esercito pattugliare le strade. Quella legge previde anche la creazione di una forza civile formata da volontari che avrebbe dovuto inquadrare 130.000 uomini sotto il controllo della polizia, fornendo a quest’ultima un deciso sostegno nell’assolvimento dei nuovi compiti che a essa venivano demandati.
Durante la Seconda Intifada (2000-2005) gli organici di questa unità civile scesero a 70.000 agenti, ma oggi Israele ha nuovamente bisogno di un tale strumento di sicurezza, poiché la polizia soffre a causa della grave carenza di personale in servizio. Tuttavia, occorrerà del tempo prima di riuscire a reclutare, addestrare e schierare in strada i nuovi agenti. Un’altra opzione esplorata da alcuni esperti è quella di costituire una Guardia nazionale sul modello americano. Resta il fatto che al momento Israele si trova di fronte a una serie di sfide importanti nel miglioramento delle sue capacità la sua lotta contro la crescente minaccia terroristica. Un’altra opzione proposta da alcuni esperti è quella di costruire una Guardia Nazionale sull’esempio americano. Ma per il momento Israele si trova a dover affrontare una serie di sfide significative nel contrasto della crescente minaccia terroristica.
POSSIBILI COINVOLGIMENTI ESTERNI
Secondo Anna Ahronheim, corrispondente militare e della Difesa del quotidiano “Jerusalem Post”, Hamas potrebbe cercare di avvicinarsi all’Iran e alle cellule di quest’ultimo attive in Cisgiordania. La giornalista ventila anche l’ipotesi che, forse, Teheran li stia spingendo a compiere un maggior numero di attacchi durante il periodo delle festività. Hezbollah, come sempre, permane una preoccupazione, ma ritengo improbabile che attacchi Israele nel breve termine. Analisti dello Stato ebraico indicano che stia pilotando scientemente le tensioni in atto servendosi di Hamas, con l’obiettivo di incrementare il clima di violenza nel periodo di coincidenza del Ramadan, della Pasqua cristiana e di quella ebraica (Pèsach), sfruttando la simbolica data dell’anniversario del conflitto di Gaza dello scorso anno.
Il maggior generale della riserva Aharon Ze’evi-Farkash, in una recente intervista a Radio Kan ha ventilato la possibilità che, come accadde durante la Seconda intifada, Hezbollah possa istigare degli attentati. Infatti, in quell’occasione l’organizzazione sciita libanese finanziò gli attentati suicidi compiuti in Israele versando 9.000 dollari alle famiglie dei terrorista deceduti, molte delle quali erano di Fatah.
ASPETTI CRITICI NELL’IMMEDIATEZZA DELL’ATTACCO A TEL AVIV
Occorre esaminare attentamente il caos seguito all’attentato di Tel Aviv, la situazione che ha visto la presenza di numerosi operativi di diverse organizzazioni di sicurezza, durante la quale si è avvertita una mancanza di controllo sull’ambiente e i civili. Non è chiaro il motivo per cui la polizia non abbia chiuso immediatamente al traffico Dizengoff Street in tutta la sua lunghezza, consentito conseguentemente la presenza di curiosi e civili armati che «cercavano l’azione».
I giornalisti delle emittenti israeliane inviate sul luogo dell’attentato e i conduttori delle trasmissioni che invece si trovavano negli studi televisivi con i loro comportamenti hanno superato ogni «linea rossa» etica e deontologica. Gli operatori dei media hanno infatti deciso di accompagnare in modo aggressivo le squadre della Sicurezza, mettendo a volte in pericolo gli stessi agenti di polizia e i militari, oltreché, naturalmente, sé stessi. Non solo: la competizione tra i giornalisti sul campo, alla ricerca delle immagini più sensazionali e spaventose possibili, ha portato a rivelare dettagli operativi, strumenti tecnologici in dotazione agli operanti e persino l’identità dei membri delle forze speciali intervenute, tutti fattori che avrebbero potuto mettere il terrorista o i suoi eventuali complici nelle condizioni di trarne un vantaggio.
Il professor Boaz Ganor, direttore generale dell’Institute for Counter-Terrorism (ICT) della Reichman University, ha definito la copertura mediatica fornita a questo evento come «un risultato strategico in favore del terrorismo palestinese». La protesta pubblica dopo questa notte di caos e di mancanza di responsabilità ha indotto a una certa autocritica nei media. Si tratta di una questione di estrema importanza, molto delicata, che dovrebbe venire discussa nei forum professionali e dal pubblico, in generale, al fine di ridurre al minimo in futuro i pericoli che i media possono cagionare nella battaglia per la conquista delle menti e dei cuori contro i terroristi.
ANCORA SULLA STRAGE DI DIZENGOFF STREET
La sera di giovedì 7 aprile, un terrorista ha aperto il fuoco contro pedoni e clienti dell’Ilka Bar, in Dizengoff Street, nel centro di Tel Aviv, ed è poi riuscito a fuggire dalla scena del crimine. Tre giovani dell’età tra i venti e i trenta anni sono stati assassinati, mentre altri quindici sono rimasti feriti. Quattro delle vittime si versano in condizioni gravi o addirittura critiche. Dopo una intensa caccia all’uomo, all’alba l’aggressore è stato rintracciato a Jaffa dove è rimasto ucciso a seguito di uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza.
Come nel caso dell’attentato di Bnei Brak, il terrorista ventottenne, Ra’ad Hazem, proveniva da Jenin. Il servizio di sicurezza interno israeliano Shin Bet ha in seguito reso noto che il giovane «non aveva una chiara affiliazione organizzativa, nessun background di sicurezza e nessun precedente arresto», inoltre si trovava nel territorio dello Stato ebraico privo di permesso di ingresso. Egli era noto alle forze di sicurezza come hacker. Gli investigatori ritengono che stesse progettando di effettuare un secondo attacco la notte di Pasqua e, allo scopo, avesse risparmiato munizioni per poterlo portare a compimento. Avrebbe tentato di trovare rifugio nella stessa moschea di Giaffa dove si era nascosto prima di compiere l’attacco mortale a Dizengoff Street. Suo padre, Fathi Hazem, è un ex alto ufficiale dei servizi di sicurezza dell’AP di Jenin. La mattina stessa, l’uomo ha elogiato le azioni violente del proprio figlio morto davanti a una folla raccoltasi presso la casa di famiglia: «I tuoi occhi vedranno presto la vittoria – ha esclamato -, vedrai il cambiamento. Otterrai la tua libertà… Dio, libera la Moschea di Al-Aqsa dalla profanazione degli occupanti».
Nonostante il presidente Abbas abbia condannato l’attacco di Tel Aviv, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa (ala militare di Fatah) si sono attribuiti la paternità dell’azione terroristica. Ma, fatto ancora più preoccupante è che il governatore di Jenin, Akram Rajoub, recatosi successivamente nella tenda a lutto allestita dalla famiglia di Ra’ad Hazem, abbia dichiarato che lo stragista di Dizengoff Street «non era un terrorista». Il movimento della Jihad islamica palestinese è dal canto intervenuta sottolineando come l’operazione di Tel Aviv sia stata «un chiaro messaggio all’occupante, che deve cessare le sue incursioni nella Moschea di al-Aqsa». L’organizzazione filo-iraniana ha altresì avvertito che «ulteriori incursioni ad al-Aqsa condurrebbero a una maggiore resistenza e a operazioni in ritorsione».