MEDIO ORIENTE, jihadisti contro. Chi ha portato all’ultimo rifugio del leader dell’ISIS Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi? Gli americani si sono avvalsi degli islamisti Hay’at Tahrir al-Sham?

A pochi giorni dall’eliminazione del successore di al-Baghdadi è possibile esplorare alcune ipotesi sul tracciamento e la dinamica dell’operazione delle forze speciali Usa nel villaggio siriano della provincia di Idlib. Questi controversi aspetti, unitamente ai possibili effetti del raid di Atmeh su scala regionale e globale, sono stati analizzati dettagliatamente dal professor Ely Karmon, Senior Research Scholar presso l’International Institute for Counter-Terrorism (ICT), Interdisciplinary Center (IDC) di Herzliya, Israele

A pochi giorni dall’eliminazione del successore di al-Baghdadi è possibile esplorare alcune ipotesi sul tracciamento e la dinamica dell’operazione delle forze speciali Usa nel villaggio siriano della provincia di Idlib. Questi controversi aspetti, unitamente ai possibili effetti del raid di Atmeh su scala regionale e globale, sono stati analizzati dettagliatamente dal professor Ely Karmon, Senior Research Scholar presso l’International Institute for Counter-Terrorism (ICT), Interdisciplinary Center (IDC) di Herzliya, Israele.

L’OPERAZIONE MILITARE STATUNITENSE

Il presidente Joe Biden è stato informato dai funzionari di Washington dell’operazione in corso avente a oggetto il leader dell’ISIS Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi più di un mese fa, mentre il tracciamento del leader jihadista  che ha poi portato all’ultimo suo rifugio era noto agli analisti dell’intelligence militare americana da diversi mesi. Il 1 febbraio Biden ha ordinato al Pentagono di procedere con un’operazione di terra piuttosto che mediante un attacco aereo, questo allo scopo di proteggere i civili che vivevano nello stesso edificio di al-Qurayshi, persone che non avevano alcuna affiliazione all’ISIS.

Le forze statunitensi sono entrate nell’edificio nella città di confine siro-turca di Atmeh, nell’enclave ribelle siriana di Idlib, dopo la mezzanotte del 3 febbraio. Nelle prime fasi dell’operazione esse hanno evacuato dal primo piano un uomo, una donna e diversi bambini, tuttavia, i funzionari americani non avevano contezza di chi si trovasse al terzo piano dell’edificio. Le forze speciali americane hanno anche avvisato i residenti che era in corso un’operazione quando già il raid era iniziato, per garantire che non interferissero involontariamente.

Quando i militari hanno affrontato al-Qurayshi, al secondo piano, questi si è fatto esplodere uccidendo anche la moglie e i propri figli. La deflagrazione ha distrutto gran parte del terzo piano scaraventando i corpi dai presenti fuori dall’edificio.

Secondo i Caschi bianchi della protezione civile siriana, il bilancio del raid ammonterebbe ad ameno tredici vittime, tra le quali figurano sei bambini e quattro donne.

Altre fonti riferiscono che gli elicotteri della coalizione che hanno preso parte all’operazione presso Atmeh sono decollati dall’ex base americana di Kharab Ishik, a est della città di confine curda di Kobane. È la prima volta che gli americani tornano in missione operativa utilizzando una base abbandonata nel 2019 quale parte di un’azione di disimpegno dal nord-est della Siria. Nessun militare statunitense è rimasto ucciso o ferito nel raid, un elicottero ha avuto un problema meccanico ed è stato distrutto lontano dalla zona di operazioni. Al riguardo, va rilevato che nell’ottobre del 2019 anche Abu Bakr al-Baghdadi, l’ex califfo dell’ISIS, fece esplodere un giubbotto esplosivo suicidandosi quando si trovò messo alle strette dalle truppe americane nella medesima area della provincia di Idlib.

ASPETTI REGIONALI DELLA VICENDA

HAY’AT TAHRIR AL-SHAM

Nell’area di Atmeh si registra una forte presenza di formazioni di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), precedentemente affiliate ad al Qaeda., mentre combattenti sostenuti dalla Turchia controllano anche parte della provincia. Alcuni rapporti indicano che HTS abbia bloccato le strade che conducono al luogo dove è stato effettuato il raid dagli americani, sollevando dubbi sul fatto se il gruppo fosse a conoscenza dell’operazione in anticipo o, addirittura, avesse fornito informazioni hanno consentito alle forze speciali Usa di portare a termine con successo l’operazione. Neppure nel 2019 HTS interferì nell’azione statunitense contro al-Baghdadi, sebbene non sia emersa alcuna prova che il gruppo islamista fosse a conoscenza di dove questi si trovasse.

Secondo un interessante rapporto redatto da Aaron Y. Zelin, membro del Washington Institute for Near East Policy, HTS e il suo leader, Abu Muhammad al-Jawlani, ngll’ultimo anno (o forse due) hanno cercato di ottenere il sostegno di Washington nel tentativo di farsi rimuovere dalla lista delle organizzazioni terroristiche. In un’intervista rilasciata nella primavera del 2021, l’ex rappresentante speciale degli Stati Uniti James Jeffrey ha dichiarato di essersi impegnato con il gruppo tramite canali secondari mentre prestava servizio nel Dipartimento di Stato durante la presidenza Trump. Egli ha altresì sottolineato come Washington aveva smesso di prendere di mira Jawlani a partire dall’agosto del 2018. Ad avviso di Jeffrey, HTS era «l’opzione meno praticabile tra quelle possibili a Idlib, che al momento è uno dei luoghi che rivestono maggiore importanza sia in Siria che nell’intero Medio Oriente».

Dunque, l’amministrazione Biden è stata relativamente tranquilla nei confronti di HTS, ma – raccomanda sempre Zelin -, a questo punto sarebbe utile per il governo degli Stati Uniti chiarire i suoi rapporti con HTS e rendere noto se ritiene questo gruppo un partner nel contrasto del terrorismo.

LA RUSSIA

Fonti della Difesa statunitense hanno rivelato che Washington si sarebbe coordinata con Mosca allo scopo di decongestionare lo spazio aereo nella Siria nordoccidentale per effettuare il raid contro al-Qurayshi. Al medesimo riguardo la CNN in seguito ha riferito che: «Gli Usa hanno informato i russi che avrebbero operato in un’ampia area generale del nord-ovest della Siria e in un dato lasso di tempo, chiedendo loro di rimanere fuori da quell’area».

ISRAELE

Secondo l’emittente pubblica israeliana “Kan”, Gerusalemme (che conosceva al-Qurayshi poiché egli in passato nell’ISIS era stato investito della competenza relativa al «fascicolo Israele») sarebbe stata informata anticipatamente del raid, oltreché richiesta dell’aiuto per rintracciarne la posizione.

Alla luce del fatto che le aviazioni militari russa e israeliana sono molto coinvolte nelle attività operative nei cieli siriani, si sarebbe dunque trattato di uno sforzo di coordinamento naturale e necessario al fine di evitare incidenti in un periodo di tensione elevata, che il 24 gennaio scorso per la prima volta ha visto i jet militari di Damasco e Mosca pattugliare congiuntamente lo spazio aereo siriano lungo i confini, mentre le forze aeree dello Stato ebraico conducevano attacchi sistematici contro le milizie sciite iraniane, di Hezbollah e filo-iraniane.

L’IRAQ

Il portavoce militare del primo ministro iracheno ha reso noto che l’intelligence di Baghdad ha fornito agli Stati Uniti informazioni «accurate» sull’operazione contro il leader dell’ISIS in Siria, portando gli americani a identificare la sua posizione e quindi a eliminarlo, mentre Yehia Rasool, portavoce militare del premier iracheno Mustafa al-Kadhimi (che riveste anche la carica di comandante in capo delle forze armate) ha tweettato il seguente messaggio: «L’operazione (…) è stata portata a termine dopo che il servizio di intelligence nazionale iracheno ha fornito alla coalizione globale informazioni accurate che hanno permesso di risalire al suo rifugio e alla sua uccisione».

Anche nella regione del Kurdistan la notizia dell’eliminazione del leader dell’ISIS è stata accolto con favore. Il primo ministro Masrour Barzani ha esortato la coalizione globale a continuare ad addestrare ed equipaggiare i peshmerga e l’esercito iracheno. In risposta, il presidente Biden ha dichiarato che gli Usa «continueranno a lavorare con i loro stretti alleati e partner, cioè le forze democratiche siriane, le forze di sicurezza irachene, inclusi i peshmerga curdi, e più di ottanta membri della coalizione globale».

LA TURCHIA

Dato che l’area di operazioni si trovava in prossimità della provincia turca di Iskendron, il raid ha probabilmente richiesto un coordinamento con l’intelligence di Ankara. Va notato che al-Qurayshi viveva così vicino al confine turco, un’area nella quale sono presenti oltre 10.000 militari turchi e, non è da escludere, che egli abbia personalmente preso parte agli eventi che hanno portato all’attacco della prigione di Sina’a ad Hasakah. Si tratta di un’area densamente popolata, con campi che possono facilitare gli  occultamenti e che si prestano allo svolgimento di attività da parte delle formazioni jihadiste, inoltre, decine di migliaia di sfollati a causa del perdurante conflitto vivono nei campi che costellano la zona.

Ankara ha approfittato dell’evento per criticare la presenza americana nella regione, che offre un ombrello strategico alle forze curde, notoriamente aborrite dal regime di Erdoğan. Il portavoce del ministero degli esteri turco, Tanju Bilgiç, ha diffuso un comunicato nel quale si osserva come la Turchia svolga un ruolo attivo nella lotta contro Daesh e «la mentalità deviante che rappresenta». Egli ha quindi sottolineato che tutti i gruppi terroristici «dovrebbero essere combattuti senza discriminazioni, inclusi Daesh, PKK e Gülenist Terror Group (FETÖ), che ha orchestrato il colpo di stato sconfitto del 15 luglio 2016 in Turchia».

LE PROSPETTIVE FUTURE: VERSO UN RISCHIERAMENTO DI ISIS?

Il raid americano ha avuto luogo mentre parti della Siria e dell’Iraq registravano una rinascita dell’ISIS. Il 10 gennaio scorso più di cento suoi combattenti hanno attaccato la prigione di Sina’a, situata nella città siriana nord-orientale di Hasakah, tentando di liberare 3.500 membri del gruppo che vi erano incarcerati, almeno duecento detenuti e trenta agenti delle forze di sicurezza sono rimasti uccisi negli scontri armati. Da 11.000 a 12.000 combattenti dell’ISIS sono attualmente detenuti nelle carceri e nei campi di detenzione nel nord della Siria controllati dalle Forze democratiche siriane (SDF), la forza dominante nella regione a guida curda che è un partner chiave degli Stati Uniti nella lotta contro l’ISIS. Questo attacco ha dunque alimentato le preoccupazioni relative a una possibile risorgenza del gruppo terroristico. La battaglia per la liberazione degli jihadisti incarcerati è durata più di due settimane, configurandosi come quella di maggiori dimensione nonché mortifera dalla sconfitta del «Califfato» avvenuta quasi tre anni fa.

Quando i combattimenti sono entrati nel loro terzo giorno, le forze di terra americane e britanniche si sono unite alla mischia, schierando veicoli corazzati da combattimento Bradley per supportare le SDF e isolare l’area di conflitto. La coalizione guidata dagli Stati Uniti ha condotto una serie di attacchi aerei, mentre le forze delle SDF combattevano all’interno della prigione per riprenderne il controllo. Esse, però, hanno incontrato la dura resistenza dei miliziani che tenevano in ostaggio il personale carcerario.

L’evasione di massa dei prigionieri a seguito dell’attacco a sorpresa avrebbe dovuto replicare le gesta di Abu-Bakar al-Baghdadi del periodo 2012-13, mettendo in seguito al-Qurayshi nelle condizioni di impiegare queste migliaia di persone allo scopo di rafforzare le capacità militari dell’ISIS e portare a termine quindi azioni più sofisticate, operazioni su larga scala e di riconquista di parte del territorio ceduto nel 2018 a seguito della ritirata, questo sulla base della valutazione che gli americani e i curdi si fossero indeboliti.

BREAKING THE WALLS: LA STRATEGIA «JAILBREAK»

La campagna dello Stato Islamico dell’Iraq denominata “Breaking the Walls”, portata a termine dal 2012 al 2013, ha consentito l’ascesa del Califfato, essa è stata resa possibile anche dalla liberazione di centinaia di combattenti allora detenuti nelle prigioni di tutto il Paese arabo: a Kirkuk, Tikrit, Taji, Abu Ghraib e in altre strutture. Alla fine di questa campagna lo Stato Islamico dell’Iraq ripristinò i propri ranghi con centinaia di ex detenuti divenuti elementi operativi, ponendo così le basi per la sua rinascita e la transizione nello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Per il suo successo e per la sua innegabile importanza, la strategia jailbreak di Islamic State può essere considerata parte del tessuto organizzativo del gruppo.

Al-Qurayshi è stato nominato leader dell’ISIS più di due anni fa a seguito della morte di Abu Bakr al-Baghdadi. Egli è stato definito come un religioso esperto di politica, tuttavia, non avrebbe comunque ottenuto la stima di tutti i membri della sua organizzazione, poiché poco tempo dopo aver ricoperto questo ruolo apicale, alcuni jihadisti attivi nella regione lo avrebbero sarcasticamente definito come un «califfo di carta», un «uomo appartato» e «un signor nessuno».

«Riteniamo che l’impatto della morte di al-Quarayshi sarà un duro colpo per l’ISIS», ha dichiarato dopo il raid di Atmeh un alto funzionario americano, aggiungendo come il terrorista sia stato coinvolto nella gestione di molte azioni, inclusa quella in Afghanistan che ha provocato la morte di alcuni marines americani l’anno scorso, inoltre aveva delle pesanti responsabilità in al genocidio della minoranza etnica yazida».

UNA GRAVE BATTUTA D’ARRESTO

L’eliminazione di al-Qurayshi, così addentro all’attacco parzialmente riuscito alla prigione di Sana’a, unitamente alla morte di molti dei combattenti e alle importanti informazioni rese dei miliziani dell’ISIS che hanno partecipato all’assalto ma che poi sono stati catturati, con ogni probabilità mitigheranno l’azione futura dell’organizzazione.

Il mandato di Al-Qurayshi quale «capo dei terroristi» ha avuto corso interamente in clandestinità, poiché l’area centrale dello Stato Islamico in Iraq e Siria è stata ridotta a una polverizzazione dispersa di cellule clandestine che hanno condotto attacchi occasionali contro le forze di sicurezza per poi ritirarsi immediatamente. Più recentemente, il gruppo sembrava essere in ripresa, con la sua rete di affiliati regionali in Africa che è andata costantemente rafforzandosi, mentre i combattenti in Iraq e Siria iniziavano a organizzare attacchi sempre più elaborati e ambiziosi, come il massiccio assalto del mese scorso alla prigione di Hasakah, inoltre, l’ISIS-Khorasan ha persino sfidato il nuovo governo dei talebani in Afghanistan.

Non è chiaro se al-Qurayshi abbia diretto o meno personalmente l’assalto ad Hasakah, tuttavia la sua morte costituisce in ogni caso una grave battuta d’arresto sul piano psicologica in una fase nella quale il gruppo terroristico stava tentando di riprendere piede, un duro colpo per il morale dopo l’evasione dalla prigione di Hasakah, sono convinti i funzionari dell’antiterrorismo e gli esperti indipendenti della materia.

IN ATTESA DI UNA EVENTUALE RISPOSTA JIHADISTA

Non ci sono state conferme o commenti immediati da parte Di Islamic State riguardo alla morte di al-Qurayshi e neppure alcun suggerimento pubblico sulla sua possibile sostituzione. Gli analisti affermano che probabilmente ci vorranno mesi prima che venga annunciato un nuovo califfo, si pensi alle prime speculazioni sul potenziale successore di al-Baghdadi che nel 2019 si rivelarono in seguito imprecise. Michael Barak, senior researcher presso l’Istituto internazionale per l’antiterrorismo (ICT) della Reichman University di Herzliya, ha valutato che ci si debba aspettare che gli islamisti sunniti cerchino di contrattaccare: «Dobbiamo attendere – ha egli affermato al riguardo – e vedere se l’ISIS confermerà questo assassinio e, successivamente, deciderà di lanciare una serie di attacchi contro obiettivi occidentali in Medio Oriente».

Ora – conclude la sua analisi Karmon -, malgrado i possibili prevedibili attacchi contro obiettivi statunitensi e occidentali, l’effetto degli ultimi eventi nel breve termine dipenderà dalla volontà della coalizione di impegnare un maggior numero di unità di forze d’élite sul campo, incrementare le attività di intelligence e fornire sostegno politico ed economico agli elementi moderati sia in Siria che in Iraq, ovvero le forze curde e, sperabilmente, a un governo filo-occidentale più moderato a Baghdad. Probabilmente l’ISIS assumerà le forme di un’organizzazione più decentralizzata, combattendo in Africa occidentale e centrale in competizione con le fazioni di al-Qaeda lì presenti e attive, nonché in Afghanistan, stavolta in contrasto con i talebani e ciò che resta di al-Qaeda Central.

IMPLICAZIONI REGIONALI E GLOBALI DELL’EVENTO

Sebbene l’eliminazione del leader dell’ISIS appaia soltanto come un’operazione locale commando portata a termine con successo, seppure significativa a livello politico e mediatico, essa offre però al presidente americano Biden l’opportunità di migliorare la sua immagine nelle arene regionali e globali dopo la débâcle subita in Afghanistan. In Siria, il successo di questa operazione ha evidenziato come che gli Usa siano pronti a mantenere la loro presenza militare, continuare a fornire il loro sostegno agli alleati curdi, a sfidare le pressioni esercitate dal regime turco e da quello siriano, le presenze iraniane e di Hezbollah e, ​​se necessario, anche l’avventurismo russo.

Assieme alla sua decisione di schierare più di tremila militari per rafforzare la difesa degli alleati europei, Biden può anche accennare a una nuova determinazione nell’esplosiva crisi ucraina. Infine, al pari del caso dell’uccisione del leader di al-Qaeda Osama bin Laden durante il mandato del presidente Obama, o del leader dell’ISIS Abu Bakar al-Baghdadi durante quella di Trump, la posizione politica interna di Biden potrà rinvigorirsi solo grazie al successo dell’operazione da lui ordinata.

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