di seguito viene pubblicata una sintesi dell’analisi effettuata dal Dottor Oded Brosh, esperto israeliano di questioni nucleari, realizzata nel mese di novembre del 2021 – Esistono quattro possibili spiegazioni in grado di chiarire sia le cause dell’evidente impasse nei negoziati in atto tra gli Stati Uniti d’America e l’Iran sulla questione nucleare, che l’attivismo in campo nucleare da parte di Teheran registrato negli ultimi mesi, cioè, di fatto, dal momento dell’insediamento alla Casa Bianca dell’amministrazione Biden e da quello successivo dell’uscita di scena del presidente Hassan Rouhani nella Repubblica Islamica. Alcuni elementi propri di queste quattro spiegazioni possono sovrapporsi tra loro, mentre un ragionamento complessivo può comportare una combinazione di essi.
CATTIVE NOTIZIE DALL’AIEA
L’autore di questa articolata analisi – che è ricercatore associato presso il Begin-Sadat Center for Strategic Studies e Senior Research Fellow presso l’Institute for Policy and Strategy, IDC Herzliya – si era già espresso di recente sull’argomento lamentando la negatività dei rapporti fino ad allora redatti dagli ispettori dell’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica).
Infatti, in un suo articolo pubblicato l’8 luglio scorso sul BESA Center Perspectives Paper n. 2.091 (https://besacenter.org/iaea-inspection-reports-mostly-bad-news/), egli aveva asserito che i report mostravano una continua escalation in una vasta gamma di attività nucleari vietate dal JCPOA, incluso l’accumulo di uranio arricchito in quantità che superavano i limiti fissati nell’accordo, nonché livelli crescenti di arricchimento.
Inoltre, veniva denunciato come Teheran avesse costantemente ostacolato le attività di verifica dell’agenzia Onu, costringendola a una condizione di declino sempre più marcato delle sue capacità di accertamento dei dettagli relativi alle attività nucleari poste in essere dalla Repubblica Islamica. Un accesso ai siti del programma nucleare che in seguito sarebbe stato ulteriormente limitato il giorno 24 giugno, allo scadere degli accordi temporanei che erano stati raggiunti in precedenza. Sullo sfondo si poneva poi la vittoria di Ebrahim Raisi alle elezioni presidenziali e il conseguente insediamento a Teheran di un governo più oltranzista di quello di Rouhani.
UNA PRIMA POSSIBILE SPIEGAZIONE
La prima possibile spiegazione risiede nel passaggio dalla politica dell’amministrazione Trump all’intenzione dichiarata del nuovo presidente statunitense Joe Biden di avviare negoziati con la leadership iraniana allo scopo di ridare vita al JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action o Piano d’azione congiunto globale, PACG). Ciò riflette semplicisticamente, se non addirittura in maniera infantile, la speranza che tutte le parti in causa riportino indietro l’orologio al 2017, quando in realtà le restrizioni imposte agli iraniani dal JCPOA nel 2015 quale contropartita erano state il congelamento e la riduzione del loro programma nucleare. (¹)
Nell’ottobre 2020 la revoca dell’embargo sulle armi venne ancorato alla Risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu n.2231, che in aggiunta a quanto stabilito dal JCPOA prevedeva che tutte le sanzioni – tra le quali quelle relative ai patrimoni del regime iraniano, all’IRGC, ai missili e alle altre armi del programma nucleare, nonché alle entità correlate – avrebbero potuto cessare otto anni dopo l’accordo o, eventualmente, restare soggette alla cosiddetta «Broader Conclusion» dell’AIEA in un periodo di tempo minore. (²)
TEHERAN APPROFITTA DI BIDEN
Ad avviso di Brosh, il risultato ottenuto dall’iniziativa intrapresa dall’amministrazione Biden, cioè dell’ingresso di Washington in una rinnovata fase negoziale con il governo di Teheran, sarebbe quello di «essere portati in giro» dagli iraniani, che avrebbero per altro rilanciato dichiarando di essere pronti a ulteriori passi in cambio di concessioni americane, tuttavia, passando al contempo a un arricchimento al 20% dell’uranio nel gennaio 2021, alla sospensione della cooperazione con l’AIEA (risoluzione votata dal Parlamento della Repubblica Islamica in febbraio, entrata in vigore nel maggio seguente ma poi rinviata a giugno), e all’arricchimento al 60% in aprile.
Da allora, Teheran ha proceduto all’installazione di ulteriori centrifughe ma di tecnologia più avanzata, all’accumulazione di crescenti scorte di uranio arricchito a i livelli (LEU 20% e 60%, seppure si tratti di quantità minori rispetto a quelle possedute nel 2013, quando venne eliminata la riserva del 20% di uranio arricchito, e del 2015, quando il JCPOA portò alla riduzione di quasi una dozzina di tonnellate di LEU a fronte di un’autorizzazione precedentemente concessa per 300 chilogrammi).
Secondo l’analista israeliano del BESA Center e dell’IDC di Herzliya, questa seconda ipotesi avrebbe un’attendibilità da bassa a media.
IL CROLLO DELLA DETERRENZA AMERICANA
La seconda possibile spiegazione dell’atteggiamento iraniano Brosh la rinviene nella convinzione maturata nella leadership di Teheran che vorrebbe, a seguito dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca, gli americani non più intenzionati a esplorare l’opzione militare, con un conseguente crollo della loro deterrenza. Ma – sottolinea l’analista israeliano – questo era già chiaro in precedenza.
Tuttavia, alla luce della mancata vendetta iraniana dopo l’assassinio del generale Qasem Soleimani il quadro assume una chiarezza maggiore, anche in virtù della motivazione datane dal comandante dell’aeronautica militare della Repubblica Islamica, che ha affermato che un’azione contro gli americani avrebbe comportato il rischio di una pesante ritorsione di Washington, che – testuali parole dell’ufficiale a capo dell’IRIAF – «avrebbe riportato l’Iran indietro di vent’anni».
Gli iraniani, con ogni probabilità a ragione, si attendevano una forte pressione esercitata da Trump mediante l’aggressione alle risorse del regime, in particolare dell’IRGC, mentre dall’amministrazione Biden non avrebbero nulla da temere. Anche questa ipotesi viene ritenuta plausibile e Brosh ne stima l’attendibilità a un livello medio-basso o medio.
LE ASPETTIVE TRADITE
La terza possibile spiegazione dello stallo in atto nei negoziati per l’accordo sul nucleare iraniano viene invece ricondotto alla delusione della leadership teocratica (in primis della Guida suprema l’ayatollah Ali Hoseyni Khamenei, ma anche dei Guardiani della Rivoluzione) per la mancata attuazione della citata Broader Conclusion nonché nell’AIEA nel suo complesso, poiché trascorsi cinque anni di regime sanzionatorio l’accordo sarebbe rimasto imperfetto, facendo così precipitare il Transiction Day e la derivante rimozione di tutte le sanzioni.
Infatti, sulla base del JCPOA esse attengono soltanto per il loro il 17% al nucleare (complessivamente inteso), mentre per il restante 83% colpiscono altri settori, come quello dell’economia. Risulta dunque oltremodo evidente come questo aspetto «premiale» possa avere a suo tempo indotto Khamenei e l’IRGC ad accettare le condizioni dell’accordo, a cominciare dal congelamento e dalla riduzione del loro programma nucleare.
LA DELUSIONE DELLA GUIDA SUPREMA
A questo punto diviene anche concepibile il fatto che il presidente statunitense Barack Obama possa avere implicitamente autorizzato Rouhani e il suo ministro degli esteri e negoziatore Mohammad Javad Zarif, a ingenerare nella Guida suprema e nei vertici dei Pasdaran l’impressione secondo la quale, sebbene sulla base del JCPOA il complesso delle sanzioni sarebbero durate al più tardi fino al 2023, qualora gli iraniani avessero rispettato gli impegni si sarebbe addivenuti a una revoca molto prima, magari entro il 2020 in virtù della Broader Conclusion.
A questo punto – argomenta l’analista -, una volta compreso che nella realtà la revoca delle sanzioni non ci sarebbe stata, la Guida suprema e l’IRGC potrebbero aver deciso di dare nuovamente avvio con determinazione e vigore al programma nucleare, nel tentativo di riportarlo rapidamente al livello di sviluppo che era stato raggiunto prima del JCPOA. Questa ipotesi viene ritenuta probabile con una percentuale medio-alta.
DINAMICHE INTERNE ALLA REPUBBLICA ISLAMICA
La quarta ipotesi viene spiegata attraverso una relazione con le dinamiche intestine in corso negli ultimi mesi nel regime iraniano, aspetti dunque non necessariamente collegabili in maniera diretta né a eventuali influenze esercitate dall’esterno della Repubblica Islamica e neppure alle differenze di approccio alla questione iraniana delle amministrazioni che si sono succedute alla guida degli Stati Uniti d’America, quella presiedute da Donald Trump prima e quella di Joe Biden ora.
Quello che si sta verificando negli ultimi tempi è la sostanziale avocazione del programma nucleare da parte della Guida suprema Khamenei e della ristretta cerchia dell’IRGC che nel passato è stata vicina a Mohsen Fakhrizadeh, scienziato considerato il «padre» dell’atomica iraniana che si presume sia stato eliminato dagli israeliani nel novembre dello scorso anno.
GLI «AGENTI AMERICANI»
Tra questi elementi di vertice della Repubblica Islamica figura anche il nuovo capo dell’organizzazione per l’energia atomica nazionale (AEOI), Mohammad Eslami, tra i fautori della estromissione dal potere di coloro i quali vengono indicati quali «agenti americani», cioè di quelle personalità del precedente corso politico a Teheran che si sono spese al fine di favorire delle migliori relazioni con Washington. Si tratta di uomini come Rouhani, Zarif, Salehi e Araghchi, che presentano la comune caratteristica di avere dei trascorsi negli Usa, nel Regno Unito o, comunque in Occidente, questo per via della loro formazione accademica oppure per le mansioni svolte, Paesi dove hanno trascorso molti anni, per i loro detrattori e avversari «troppi anni».
L’AYATOLLAH KHAMENEI LOTTA CONTRO IL TEMPO
Gli sviluppi della situazione dipenderebbero dunque dal risultato di queste dinamiche interne al regime teocratico, che hanno luogo in un contesto influenzato dalle incognite relative alla possibile fine anticipata della guida finora mantenuta dall’ayatollah Khamenei, o a causa di un suo decesso ovvero nel caso non fosse più in grado di proseguire nell’esercizio della sua suprema funzione perché inabilitato da condizioni di salute precarie.
In questo caso la conclusione potrebbe essere quella che lo stesso Khamenei abbia voluto dirigere il programma nucleare iraniano allo scopo di portarne a compimento lo sviluppo prima di essere costretto a cessare di guidare l’Iran, prima di morire o che le sue condizioni di salute si aggravino. Ovviamente, si è parlato molto anche di una relazione tra le sue scelte e le manovre attualmente in atto a opera di varie fazioni e individui in vista della sua successione al ruolo di Guida suprema, in questo senso egli starebbe cercando di determinare le condizioni che più ritiene opportune prima della nomina del suo successore, favorendo il proprio entourage.
E questa, conclude Brosh, tra le quattro illustrate potrebbe essere la spiegazione maggiormente plausibile allo stallo dei negoziati sul nucleare di Teheran, una ipotesi ritenuta dagli analisti della materia mediamente o molto probabile.
(¹) In base all’accordo, l’Iran ha accettato di eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre di due terzi le sue centrifughe a gas per tredici anni. Per i successivi quindici anni l’Iran avrebbe potuto arricchire l’uranio soltanto a un livello pari al 3,67%, inoltre, Teheran si era impegnata a non realizzare alcun nuovo reattore nucleare ad acqua pesante per lo stesso periodo. Le attività di arricchimento dell’uranio si sarebbero dovute limitare a un singolo impianto utilizzando centrifughe di prima generazione per dieci anni, mentre si sarebbe dovuto procedere alla conversione di altri impianti al fine di evitare il rischio di proliferazione nucleare. Per monitorare e verificare il rispetto dell’accordo da parte della Repubblica Islamica, l’AIEA avrebbe dovuto aveva regolare accesso a tutti gli impianti nucleari iraniani. L’accordo prevedeva poi che, in cambio del suo rispetto, Teheran ottenesse la cessazione delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, emanate a causa del suo programma nucleare con la Risoluzione 1747.
(²) La Broader Conclusion costituisce l’elemento centrale del JCPOA, in quanto stabilisce l’eventuale conformità del comportamento dell’Iran rispetto agli impegni assunti in materia di nucleare nelle sedi internazionali. Un giudizio al quale viene subordinato il «Transiction Day», giorno in cui tutte le sanzioni finora irrogate alla Repubblica Islamica verranno revocate. Esse, come è noto, colpiscono singole personalità, enti e società del regime iraniano, l’IRGC in tutti i suoi rami (Qods Force, comandanti militari, forze missilistiche, personalità politiche, le Bonyads, eccetera), industrie e sviluppatori delle tecnologie collegate al programma di Teheran, così come stabilito negli allegati del JCPOA. Seppure nel PACG il Transition Day sia stato fissato a una data di otto anni successiva alla stipulazione dell’Accordo, vale a dire nel 2023, il suo termine temporale può venire mutato a condizione che la Broader Conclusion venga emessa dall’AIEA in qualsiasi momento prima di tale data (allora si presumeva nel 2019-2020), qualora l’Agenzia avesse appurato il rispetto da parte dell’Iran dei suoi impegni assunti in campo nucleare.