di Ugo Spezia, ingegnere nucleare, progettista, docente e attualmente membro della European Academy of Sciences and Arts di Salisburgo e della Società Italiana per il Progresso delle Scienze (https://drive.google.com/file/d/1Mt94W2RqJtfIQQ4KzWP3fS8tdiaddwwM/view) – Qualche anno dopo il varo del costosissimo piano l’Islanda venne colpita da una crisi finanziaria che distrusse l’economia e i cui effetti perdurano tuttora. Ma i Verdi non demordono…
IL SOGNO ISLANDESE
Nel 2000 l’Islanda è un paese economicamente florido e con un sistema energetico sostanzialmente ottimizzato. L’energia prodotta nell’isola proviene per due terzi da fonti rinnovabili (idroelettrica e geotermica) e il paese ha addirittura un surplus di produzione elettrica. Nella capitale Reykjavík il 90% delle case è riscaldato con la geotermia. Le sole fonti energetiche importate sono la benzina e il gasolio che servono per alimentare il parco autoveicoli, limitato a sole 180.000 unità in tutta l’isola. Una situazione per la quale qualunque paese industriale farebbe carte false.
Tuttavia, il governo islandese guidato da David Oddsson, stimolato dall’onda montante ambientalista, non è soddisfatto. Decide quindi di utilizzare il surplus elettrico per generare idrogeno mediante elettrolisi dell’acqua. L’idrogeno dovrà essere utilizzato in sostituzione di benzina e gasolio (le sole fonti energetiche importate dall’Islanda) prima per alimentare gli autobus del servizio pubblico della capitale Reykjavík e subito dopo per la flotta dei pescherecci, che generano con la pesca circa il 70% del prodotto interno lordo nazionale.
IL PROGRAMMA DI ODDSSON
I programmi energetici elaborati dal governo prevedono che l’Islanda diventi in prospettiva totalmente indipendente dai combustibili fossili e che i mezzi di trasporto terrestri e navali siano alimentati esclusivamente a idrogeno. I primi autobus a idrogeno dovranno entrare in servizio nel 2003. Poi toccherà ai veicoli privati e alla flotta da pesca. Il primo obiettivo è dunque quello relativo agli autobus a idrogeno in esercizio, che già nel 2005 dovranno essere trenta.
Il secondo obiettivo è quello di creare entro il 2007 un mercato di automobili alimentate a idrogeno, che dovranno sostituire progressivamente l’intero parco automobilistico in circolazione nel paese.
Il terzo obiettivo, da conseguire entro il 2015, è quello di alimentare con l’idrogeno l’intera flotta dei pescherecci.
Il quarto obiettivo, da conseguire entro il 2030, è vendere all’Europa l’idrogeno prodotto in Islanda e utilizzare l’idrogeno anche per produrre energia per il complesso dei servizi cittadini.
UN PIANO VELLEITARIO
A chi capisce un po’ di sistemi energetici il piano islandese suona subito velleitario. L’Islanda è un piccolo paese di trecentomila abitanti (più o meno la stessa popolazione del quartiere Appio-Latino di Roma) sperduto in mezzo all’Atlantico del Nord, funestato da terremoti ed eruzioni vulcaniche e che vive essenzialmente di pesca e di turismo (20%del Pil). Se si eccettuano la benzina e il gasolio per autotrazione, importati dall’estero, è praticamente indipendente sul piano energetico.
Invece l’idrogeno, che allo stato gassoso non esiste in natura, dovrà essere prodotto a prezzo di ingenti investimenti e trasportato non si sa come.
L’Islanda non è neppure membro dell’Unione Europea, ma intende ugualmente partecipare come partner esterno ai progetti finanziati dall’UE nell’ambito del Sesto Programma quadro relativi all’uso dell’idrogeno. Perciò il 14 ottobre 2002 arriva l’annuncio lungamente atteso dagli ambientalisti di tutto il mondo: finalmente un paese decide di investire nell’economia dell’idrogeno. L’annuncio è dato a Bruxelles nel corso della “Giornata dell’energia”, organizzata dalla missione islandese presso l’UE.
ECONOMIA DELL’IDROGENO
Una scena organizzata apposta per consentire a politici, ricercatori e industriali islandesi di dichiarare con forza a tutto il mondo la ferma volontà del loro paese di svolgere un ruolo chiave nello sviluppo delle tecnologie che renderanno l’Islanda il faro mondiale dell’economia dell’idrogeno.
Il progetto comunitario che coinvolge l’Islanda si chiama ECTOS (Ecological City Transport System, sistema di trasporto urbano ecologico) ed è finalizzato ad equipaggiare con celle a combustibile alimentate a idrogeno tre autobus che presteranno servizio nella capitale Reykjavík, dove abitano circa 120.000 islandesi e dove autobus e taxi sono i soli mezzi di trasporto pubblico. Il costo dei tre autobus è di sette milioni di euro. Ad esso l’Unione Europea parteciperà con un finanziamento di 2,7 milioni di euro.
Jón Skúlason, direttore generale di Icelandic New Energy Ltd. (INE), partner del progetto comunitario, dichiara che a Reykjavík «sarà possibile creare la prima vera società dell’idrogeno a livello mondiale».
LE CELLE A COMBUSTIBILE
I tre autobus all’idrogeno dovrebbero entrare in servizio a partire dalla seconda metà del 2003 e rappresenteranno il 4% del parco autobus in servizio nella capitale. Però, i responsabili del governo islandese affermano apertamente che gli obiettivi finali sono ben più ambiziosi. La ministra islandese dell’energia e del commercio, Valgerdur Sverrisdóttir, del Partito progressista, relatrice principale della conferenza di Bruxelles, dipinge un quadro che prevede un’ampia diffusione di autoveicoli equipaggiati con celle a combustibile e alimentati a idrogeno per il trasporto privato nell’arco dei prossimi 10-20 anni.
Nel frattempo INE, insieme ai partner industriali Shell e Norse Hydro, sta studiando la realizzazione in Islanda di un impianto per la produzione di idrogeno su scala industriale. Sono inoltre già in fase di attuazione un progetto finanziato dall’UE e denominato “Fuel Cell Ship”, che studia l’utilizzo delle celle a combustibile su imbarcazioni di grandi dimensioni, e l’ambizioso progetto NAVIGEN, che mira a sviluppare un peschereccio con celle a combustibile a idrogeno, con l’obiettivo di creare la prima flotta al mondo di pescherecci a emissioni zero.
HYDROGEN ECONOMIC PLAN
La responsabilità politica dell’intero piano, chiamato “Hydrogen economic plan”, è affidata a Hjalmar Arnason, presidente della commissione parlamentare competente. Sul fronte dell’Unione Europea a credere davvero nel piano islandese è il Commissario per l’energia e i trasporti, nonché vicepresidente della Commissione europea, Ignacia Loyola de Palacio. Pochi giorni prima, il 10 ottobre, ha costituito un nuovo gruppo di alto livello sull’idrogeno e le celle a combustibile.
Formato da rappresentanti dell’industria, della ricerca e dei governi nazionali, il gruppo si occuperà di valutare i potenziali benefici derivanti dall’utilizzo dell’idrogeno e delle pile a combustibile nei trasporti, nella produzione energetica e in altri settori, per aprire finalmente all’Europa l’accesso all’economia dell’idrogeno. La chiave di volta del progetto è il programma CUTE (Clean urban transport for Europe, trasporto urbano pulito per l’Europa) finanziato dall’UE con oltre cinquanta milioni di euro. Di esso fa parte ECTOS, affidato all’Islanda.
ADDIO ALLA BENZINA?
I giornali progressisti di tutta Europa amplificano la notizia: l’impegno dell’Islanda sull’idrogeno è così convinto che sono già in corso gli studi di fattibilità sull’esportazione dell’idrogeno in eccedenza: a breve la domanda di energia “verde” dell’UE potrebbe essere soddisfatta proprio grazie all’idrogeno prove- niente dall’isola del Nord- Atlantico. Nessuno si sofferma a riflettere sulle difficoltà associate al trasporto.
Il 20 febbraio 2003 “la Repubblica” manda un inviato ad assistere all’inaugurazione della prima stazione di servizio che eroga idrogeno, realizzata dalla Shell. Il titolo enfatico dell’articolo è: «Islanda, addio alla benzina. L’energia arriverà dall’acqua». Il testo, manco a dirlo, è entusiastico: «Il primo distributore pubblico di idrogeno d’Europa sta sulla Vesturlandsvegur (…) Gli islandesi ci passano davanti incuriositi solo dal fatto che nessuna auto ancora si ferma e fa carburante. Per ora è una stazione di servizio come un’altra, con un piccolo bar che vende sigarette e caffè, qualche dolce e poco altro. Ma il prossimo 24 aprile (…) la Fuel Hydrogen Station erogherà il primo pieno di idrogeno. Saranno tre autobus pubblici a nutrirsi del gas del futuro».
3 BUS A REYKJAVIK
Una costosa trasferta e un servizio giornalistico al solo fine di illustrare ai lettori una stazione di servizio che non funziona. Poi gli islandesi cominciano a fare i conti con la dura realtà.
Nel 2009 il progetto idrogeno è affidato al consorzio New Energy, guidato da Jon Bjorn Skulason, che riunisce aziende, università e istituzioni. Ma i veicoli elettrici disponibili nell’isola sono solo i tre autobus a idrogeno cofinanziati dall’Unione Europea e alcune autovetture elettriche noleggiate dalla filiale locale della Hertz. Nessuna casa automobilistica sta producendo veicoli a idrogeno per il mercato islandese; nessuno dei pescherecci islandesi è alimentato a idrogeno. E nel frattempo la realizzazione del sogno ad occhi aperti degli Islandesi si va allontanando per ragioni economiche contingenti.
Mentre il governo pensa all’economia dell’idrogeno, tra il 2008 e il 2011 l’economia islandese, quella vera, va in frantumi. Il processo di liberalizzazione avviato negli anni Ottanta è sfociato nel 1998 nella privatizzazione delle tre banche e dei relativi fondi di investimento sino a quel momento in mano allo Sta-to. Dopo una discussione politica che porta all’esclusione dei gruppi bancari stranieri, le tre banche di Stato sono cedute da esso a investitori privati islandesi vicini ai partiti di governo.
IL CROLLO FINANZIARIO
Divenuti proprietari delle banche, i privati inaugurano una stagione di finanziamenti facili a Progetti senza futuro, con al centro quelli sull’economia dell’idrogeno. Il credito interno del sistema bancario, che già nel 2000 è pari al 100% del Pil del paese, si impenna fino a raggiungere nel 2007 il 450 per cento.
L’economia islandese si fonda sulla periodica svalutazione competitiva della corona e sugli alti tassi di remunerazione dei capitali esteri, con tassi di interesse che toccano il 6% contro il 2-4% dell’area euro-Usa e l’1% del Giappone. I correntisti che aderiscono al conto corrente islandese Icesave di Landesbanki, interamente gestito via Internet e che corrisponde interessi del 6% sui depositi, crescono in tutta Europa.
Anche grazie a queste soluzioni, speculative quanto avventuristiche, nel 2007 i debiti a breve termine del sistema bancario islandese verso l’estero hanno superato di quindici volte le riserve in valuta estera della banca centrale. Finché nell’estate del 2008 il filo teso su cui cammina l’economia islandese si spezza di colpo, quando le tre banche del paese sono costrette a dichiarare fallimento.
LA PIAZZA ESPLODE
In quel momento, a fronte di un Pil di 8,5 miliardi annui, l’Islanda ha un debito estero di cinquanta miliardi di euro, rappresentato per l’80% dal debito delle banche. Il governo di Reykjavik è costretto a nazionalizzare nuovamente le banche fallite. La corona islandese è svalutata del 35% rispetto all’euro e l’inflazione si impenna al 14 per cento. Più di mezzo milione di correntisti esteri di Icesave si ritrovano con il conto bloccato e non riescono a recuperare i loro soldi.
In cambio del finanziamento dell’ingente debito accumulato dalle banche e dallo Stato, il Fondo Monetario Internazionale, cui si è rivolto il governo, impone all’Islanda un severo programma di ristrutturazione dell’economia interna. Contemporaneamente molti paesi dell’UE, tra i quali Regno Unito e Olanda, risarciscono i propri cittadini correntisti di Icesave chiedendo alla banca centrale islandese di rimborsare il debito. Nei primi mesi del 2009 il governo islandese non trova di meglio che girare la richiesta ai cittadini, chiedendo a ciascuno di loro di pagare più di cento euro al mese per quindici anni.
Divampano le manifestazioni di piazza. Il primo ministro Geir Hilmar Haarde è costretto a dimettersi. Il presidente della repubblica, non sapendo cosa fare, blocca il rimborso del debito Icesave verso Olanda e Regno Unito.
UNA LEZIONE INUTILE
A fronte delle vibrate proteste dei due paesi, le trattative con il Fmi si riaprono e si delinea un nuovo piano di rientro. Fra tagli della spesa pubblica e aumenti delle imposte, l’Islanda finisce di pagare i debiti verso il Fmi e alle banche europee nel 2014, uscendo finalmente dal dissesto finanziario.
Ma la lezione subita a quanto pare non è servita. Il cortocircuito mentale di stampo ambientalista che da vent’anni ottenebra i governanti islandesi continua a mietere vittime. Assorbita, come abbiamo visto, la crisi finanziaria del 2008-2014, il Paese diviene quello più caro del mondo. Le forti fluttuazioni della valuta nazionale nel 2016 e 2017 hanno portato a un aumento generalizzato dei prezzi. Nella seconda metà del 2018 la corona ha subito un deprezzamento di circa l’11 per cento. Secondo gli ultimi dati Eurostat, nell’isola subartica nel 2018 i prezzi al consumo sono stati in media superiori del 56% rispetto al resto d’Europa, facendone il paese più caro davanti a Svizzera (52%), Norvegia (48%) e Danimarca (38%).
LA «NUOVA» TRANSIZIONE ENERGETICA
Nel 2019 il Pil islandese ha subito una contrazione dello 0,4%, ma, pur a fronte di una situazione economica problematica, il governo verde eletto nel 2017 non demorde. Nel giugno 2020 la prima ministra verde Katrín Jakobsdóttir, in carica dal 2017, laureata in letteratura islandese, ha presentato il nuovo piano d’azione per il clima: dopo i risultati raggiunti con le energie rinnovabili al posto di quelle fossili (obiettivo già conseguito da tempo), ora l’Islanda si prepara a una nuova transizione energetica basata su cosa? Sull’idrogeno!
Grazie a questa scelta, nel 2030 le emissioni di anidride carbonica saranno inferiori del 35% a quelle del 2005 e con altre azioni non ancora definite si ipotizza di arrivare a un taglio del 40-46 per cento. Seguendo i piani del governo, la compagnia energetica pubblica Landsvirkjun sottoscrive un accordo con il porto olandese di Rotterdam per uno studio sull’esportazione di idrogeno dall’Islanda all’Olanda. L’impianto di produzione di idrogeno dovrebbe essere realizzato presso la stazione idroelettrica di Ljósifoss, a circa settanta chilometri da Reykjavík.
QUALCOSA NON VA
Dal canto suo, il ministro dell’ambiente, il verde Gumundur Ingi Gubrandsson, mette a punto un piano che segna una svolta nelle politiche per il clima del paese. Gli interventi spaziano dall’aumento della produzione di ortaggi domestici in serre tecnologiche alla promozione del noleggio di automobili green; riguardano la transizione energetica per il trasporto pesante e progetti per la cattura del carbonio dagli impianti industriali, fino a interventi negli allevamenti di bestiame e all’efficientamento energetico degli edifici.
Tutto ciò in un paese in cui:
1 – l’energia non manca,
2 – è già quasi tutta rinnovabile
3 – esiste un surplus elettrico
4 – esistono ancora notevoli risorse geotermiche e idroelettriche da sfruttare
5 – oltre 130 vulcani scaricano ogni anno in atmosfera l’equivalente della produzione antropica di CO₂ dell’intera Europa.
Nella politica energetica islandese c’è decisamente qualcosa che non va: forse gli effetti delle eruzioni vulcaniche sulla razionalità non sono stati studiati a fondo.
IL DIBATTITO IN ITALIA
Tuttavia, mentre per gli Islandesi si profila un nuovo salasso economico, mi sembra che la vicenda islandese possa contribuire positivamente a dirimere l’annosa questione, dibattuta in Italia, se sia da perseguire l’idrogeno azzurro (prodotto con le tecnologie convenzionali note) o l’idrogeno verde (prodotto con solare ed eolico). A giudicare dagli effetti sulle finanze degli islandesi, l’idrogeno sarà verde, senza alcun dubbio.