di Giuseppe Morabito, generale dell’Esercito italiano e membro della NATO Defence College Foundation – Da una settimana il Libano è senza elettricità, al buio e preda di una grave crisi economica.
Fonti governative hanno reso noto che le due maggiori centrali elettriche, quelle di Deir Ammar e Zahrani, sono inattive a causa della mancanza di carburante. La conseguenza è che la rete elettrica ha smesso di funzionare ed è improbabile che venga riavviata a breve, atteso che negli ultimi diciotto mesi il paese ha patito una crisi economica che ha reso povera metà della popolazione, paralizzato la sua moneta e scatenato grandi manifestazioni di protesta contro il governo, che in carenza di valuta estera compensare con estrema difficoltà i fornitori di energia elettrica esterni al paese.
UNA CRISI «DAVVERO AL BUIO»
Molti libanesi hanno provveduto a fornirsi già da generatori diesel privati che, tuttavia, sono diventati sempre più costosi da gestire a causa della mancanza del carburante stesso e non possono comunque coprire le carenze della rete elettrica nazionale soprattutto nella considerazione che, prima della recente sospensione totale, già era successo che venissero erogate solo due ore di elettricità al giorno.
In una dichiarazione, la compagnia elettrica statale libanese ha, per ora, confermato la chiusura delle due centrali, che insieme forniscono circa il 40% dell’elettricità del paese.
Il mese scorso il gruppo militante terroristico di Hezbollah ha portato carburante iraniano nel paese per alleviare la carenza. I suoi oppositori affermano che il gruppo stia usando la fornitura di carburante, favorita dal governo siriano, per espandere la sua influenza interna.
ALEGGIA LO SPETTRO DELLA GUERRA CIVILE
Il Libano è, purtroppo, anche alle prese con le conseguenze dell’esplosione di Beirut il 4 agosto 2020, che ha causato la morte di 219 persone e ne ha ferite circa altre 7.000.
Dopo l’esplosione il governo si era dimesso, lasciando la paralisi politica. Najib Mikati è diventato primo ministro a settembre scorso, più di un anno dopo l’uscita dalla precedente amministrazione.
In queste ore lo spettro della guerra civile aleggia su Beirut. Ci sono stati scontri a fuoco, che hanno provocato sei morti e oltre trenta feriti. I conflitti a fuoco sono avvenuti in un noto settore della vecchia “linea verd” che divideva Beirut in due parti, rievocando i terribili scenari di trent’anni fa: cecchini posizionati sui tetti, miliziani incappucciati che sparano, famiglie bloccate nelle case, genitori che si precipitano nelle scuole per recuperare gli studenti. L’esercito libanese ha, comunque e velocemente, effettuato un imponente dispiegamento di forze e ha chiesto ai civili di abbandonare l’area degli scontri.
VIOLENZE A BEIRUT
L’epicentro delle violenze è a un chilometro dal palazzo di giustizia, dove era programmato un sit-in indetto dai cittadini sciiti di Amal e Hezbollah per chiedere la rimozione di Tarek Bitar, il giudice titolare dell’inchiesta sull’ esplosione che è accusato dal segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, di politicizzare l’indagine per conto del governo Usa. A oggi non è definibile come si asia arrivati a tale livello di conflittualità. I due partiti sciiti affermano che alcuni cecchini hanno aperto il fuoco per primi contro i manifestanti affermano che l’attacco sia opera di gruppi armati organizzati allo scopo di portare il paese ad un confronto interno a base religiosa.
La ricostruzione degli scontri armati fornita dai media, e ripresa dal ministro dell’Interno libanese, punta il dito sulla presenza di franchi tiratori appostati sui palazzi che sono la roccaforte del partito cristiano delle Forze Libanesi di Samir Geagea, rivale dei movimenti sciiti.
MIKATI IN BILICO
Preoccupazione per gli episodi di violenza e appelli alla moderazione sono stati espressi sia dai rappresentanti sia Unione europea che Onu in Libano. Le tensioni stanno mettendo a dura prova il governo di Najib Mikati, nato solo un mese fa dopo vuoto di più di un anno. Martedì, scorso in una riunione di governo, i due partiti sciiti hanno anche minacciato di ritirare i propri cinque ministri (su un totale di ventiquattro) se il giudice Bitar non fosse stato rimosso dall’incarico. A scatenare quindi le proteste è stata l’ulteriore bocciatura dell’istanza per la ricusazione del giudice.
Atteso questo focolaio di contrapposizione religiosa e politica interna, è tutto il Medio Oriente che rimane un’area di confronto tra grandi poteri e regione dalle crisi profonde.
Come ogni anno la NATO Defence College Foundation propone una qualificata discussione e un aperto confronto sulle problematiche della regione ai confini del nostro paese. La fondazione è consapevole che sia necessario uno sguardo nuovo su tutto il Medio Oriente.
FRAMMENTAZIONI IN CORSO
Le frammentazioni sono in corso, mentre persistono i governi tradizionali e una bassa cooperazione regionale. Allo stesso tempo, l’ondata di accordi di normalizzazione e la ricomposizione del Consiglio di cooperazione del Golfo, insieme a un nuovo governo israeliano, sono segnali di cambiamento.
Inoltre, le grandi potenze europee mostrano diverse modalità nel confrontarsi alla nuova politica Usa proposta dal Presidente Biden, riducendo l’impegno diretto e cercando di avvalersi maggiormente della NATO, mentre la Repubblica Popolare cinese continua la sua espansione economica e la Russia gioca un ruolo strategico più attivo e dirompente.
Produttori di energia (petrolio e gas) e consumatori locali sono impegnati in una corsa contro il tempo verso economie diversificate, miscele energetiche sostenibili e una gestione attenta dell’acqua. Alcuni esperti già propongono, ad esempio, un intervento massiccio della Siria nel supporto energetico del Libano con conseguenze tutte da definire.
MEDITERRANEO, MAGHREB E SAHEL
In aggiunta, il profondo Maghreb rappresenta lo spazio geopolitico che collega il Mediterraneo a tutto il Sahel dove il traffico illegale e la criminalità organizzata stanno alimentando, spesso dietro etichette terroristiche, la grande instabilità regionale.
Infine, la crescente frammentazione e disordini, insieme alle catastrofi umanitarie dovute al clima, rappresentano una chiara minaccia per la pace e il benessere di quest’area, come dimostrano i pericolosi collegamenti tra la Libia e il suo più ampio entroterra africano.
La discussione cercherà di chiarire quali strategie, risorse e forze dovrebbero essere impiegate per evitare un grave collasso regionale e soprattutto se il Sahel è un Afghanistan in divenire!
La conferenza dal titolo “Arab Geopolitics 2021” “sarà sia in presenza a Roma sia trasmessa in streaming sulla piattaforma zoom ed è già possibile registrarsi per seguirla accedendo al sito della Fondazione. (https://platform.eventboost.com/e/arab-geopolitics-2021/28493)