Se letta in retrospettiva, l’importante lezione impartita dalla fuga dei sei detenuti dalla prigione israeliana di Gilboa non è l’evasione in sé, quanto le conseguenze di essa, che induce alla riflessione sul fatto che in questo caso gli Arabi di Israele hanno difeso lo Stato ebraico e non la causa del terrorismo palestinese, con disappunto delle organizzazioni terroristiche che avevano preparato il campo profughi di Jenin per la battaglia con le forze di sicurezza israeliane, tuttavia, essi in seguito non si sono recati lì, ma dalle loro famiglie.
FUGA DAL CARCERE ISRAELIANO
Secondo l’analista del Jerusalem Center for Public Affairs la cooperazione tra i cittadini arabi di Israele e lo Stato ebraico starebbe frustrando le leadership dei settori islamisti più estremisti palestinesi. A suo avviso, la vicenda degli evasi dal carcere rivestirebbe un particolare interesse, poiché, in ultima analisi la decisione presa da questi due palestinesi andrebbe ricondotta a una serie di profondi processi che stanno interessando la società palestinese in Cisgiordania, dove si registra una graduale disintegrazione del sistema amministrativo statale, una dinamica che favorisce il consolidamento del preesistente tessuto clanico.
Inbari cita ad esempio l’affaire Nizar Banat verificatosi nel governatorato di Hebron, che ha assunto i connotati di una vera e propria guerra tra clan, culminata di recente nell’attacco dei membri della famiglia Nizar agli agenti della sicurezza dell’Amministrazione palestinese nel villaggio di Dura. L’accelerazione di tale processo di disintegrazione rinverrebbe una delle sue cause primarie nella cessazione degli aiuti internazionali in precedenza erogati all’Amministrazione palestinese, fatto che ha reso difficile per quest’ultima retribuire i propri dipendenti, notevole massa di persone che ne costituiscono la spina dorsale anche in termini di consenso.
LE PETROMONARCHIE NON STACCANO PIÙ L’ASSEGNO
Le petromonarchie del Golfo Persico e l’Arabia Saudita hanno da tempo interrotto gli aiuti ai palestinesi dopo aver riscontrato il disimpegno della leadership di Ramallah dalle loro attività di contenimento e contrasto dell’Iran nella regione mediorientale. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non è stato più invitato in visita ufficiale in quei paesi e ciò che adesso gli è rimasto sono gli aiuti finanziari europei, quella Unione europea con la quale, però, gli uomini del Fatah attualmente hanno qualche problema a causa delle attività delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa (la milizia armata riconducibile al Fatah, spesso protagonista di azioni anti-israeliane) e per il rinvio delle elezioni palestinesi. Aiuti, quelli europei, che potrebbero riprendere addirittura il prossimo anno.
Per compiacere Bruxelles, Ramallah ha annunciato che si sarebbero svolte elezioni a livello municipale ma non politiche, infatti, immediatamente dopo questo annuncio, le altre organizzazioni estremiste palestinesi hanno annunciato che avrebbero boicottato le elezioni nei comuni, al pari degli esponenti delle liste che hanno presentato candidati alle elezioni parlamentari che poi non hanno avuto luogo.
IL RISCHIO TERRORISMO E LA GIORDANIA
A questo punto, la conclusione di Inbari è quella che ci si sta pericolosamente avvicinando a una ennesima fase terroristica, per la semplice ragione che le organizzazioni palestinesi in crisi non accetteranno il declino e la perdita della loro centralità, ma – afferma l’analista del Jerusalem Center for Public Affairs – questo potrebbe portare a una loro reazione violenta, che si concretizzerebbe negli attacchi contro Israele o contro gli insediamenti ebraici, seppure non sarebbe certamente semplice, dato che non godono più di un ampio sostegno popolare e, inoltre, la confinante Giordania non gli permetterebbe certo di costituire nel proprio territorio dei santuari del terrorismo, cioè di base arretrate come quelle possedute in passato. Tuttavia, potrebbero tentare di farlo.