STRATEGIA, Golfo Persico. The Saudi Connection: attentati terroristici, gas naturale e armamenti

Il generale Giuseppe Morabito, analista della NATO Defence College Foundation, concentra il «focus» sulle responsabilità di Riyadh in ordine agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, evidenziando le coperture di Washington allora fornite alla petromonarchia del Golfo Persico, oggi emerse da un rapporto dell’FBI. Egli parte da questi aspetti per affrontare, con un più ampio respiro, le tematiche relative al futuro economico ed energetico del Regno degli al-Saud

di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano e attualmente membro della NATO Defence College Foundation – Nei giorni scorsi l’amministrazione Biden ha declassificato e reso pubblico un rapporto dell’FBI (Federal Bureau of Investigation)  di sedici pagine che collega i dirottatori dell’11 settembre a cittadini sauditi negli Stati Uniti d’America. Il documento, redatto nel 2016, riassumeva un’indagine dell’agenzia federale statunitense su quei specifici legami, chiamata in codice «Operazione Encore».

THE SAUDI CONNECTION

Il rapporto, seppure divulgato solo in parte, mostra una relazione più stretta di quanto si conoscesse in precedenza tra due sauditi, dei quali uno con status diplomatico, e alcuni dei terroristi che dirottarono i jet sugli edifici. Le famiglie delle vittime dell’11 settembre hanno sempre chiesto accesso al rapporto, che delinea uno scenario del tutto differente da quello descritto nel 2004 dalla Commissione sull’11 settembre. Infatti, mentre quest’ultima non ha collegato i sauditi ai terroristi, l’FBI ha invece elencato una serie di connessioni e contatti telefonici.

Anni fa, la commissione aveva concluso che riguardo al diplomatico saudita Fahad al-Thumairy non erano state trovate prove che avesse fornito assistenza ai dirottatori. In seguito gli agenti dell’FBI sono però giunti a una conclusione diversa, poiché nel loro rapporto hanno riferito che un anno prima degli attacchi dell’11 settembre Thumairy «incaricò un suo socio di aiutare i dirottatori quando questi arrivarono a Los Angeles», confidandogli inoltre che essi erano «due persone di rilievo».

LE AMBIGUITÀ DI RIYADH

Il medesimo rapporto getta nuova luce anche sull’incontro di un impiegato del governo saudita con il gruppo dei dirottatori e, quello che in precedenza era stato ufficialmente descritto come «un incontro casuale», ora assume invece i contorni di un evento programmato.

Non solo, la commissione sull’11 settembre aveva definito l’impiegato saudita, Omar al-Bayoumi un «gregario, improbabile candidato per un coinvolgimento clandestino con estremisti islamisti». Al contrario, Encore ha portato alla luce il fatto che un testimone dell’incontro vide Bayoumi attendere alla finestra l’arrivo dei dirottatori, che dunque non li incontrò casualmente e con i quali si intrattenne a lungo a parlare. Bayoumi era in «contatto quasi quotidianamente» con un uomo legato alla «mente» dell’attacco del 1993 al World Trade Center «e nel 1999 trascorse una notte nello stesso hotel con un altro uomo collegato a Osama bin Laden».

Bayoumi e Thumairy hanno affermato di non avere nulla a che fare con gli attacchi terroristici e, sebbene il rapporto non evidenzi alcun collegamento diretto tra i dirottatori e il governo saudita, Jim Kreindler, legale rappresentante di numerose famiglie che hanno intentato causa alla monarchia saudita, ritiene che il rapporto convalidi le argomentazioni a suo tempo addotte. Il governo di Riyadh ha a lungo sostenuto che qualsiasi collegamento tra cittadini sauditi e i dirottatori fosse casuale, rivendicando dal canto suo anni di attività contrasto all’organizzazione terroristica di bin Laden, attività svolte in collaborazione con Washington.

LO SCRIGNO ENERGETICO DEGLI AL-SAUD

Encore costituisce soltanto il primo di numerosi documenti che l’amministrazione Biden ha promesso di divulgare nei prossimi mesi.

Nel frattempo, l’Arabia Saudita prosegue nel suo sforzo di divenire il player principale nel settore del gas naturale (GN), questo dopo anni di ricerca di collaborazioni internazionali e nella consapevolezza che si tratta di un obiettivo che potrebbe conseguire solo grazie all’indefettibile supporto degli Usa o, quanto meno, la loro non opposizione.

La scorsa settimana la compagnia petrolifera di Stato saudita Aramco ha reso noto di aver discusso con referenti interessati l’apertura a potenziali investitori stranieri dei suoi maggiori giacimenti di GN, per i quali stime recenti indicano in 110 miliardi di dollari la somma necessaria a finanziare le operazioni di sviluppo del sito di Al Jafurah, che si ritiene contenga 200 Tcf (trilion cubic feet) di gas.

Il rinnovato interesse per le proprie riserve di GN non deriva esclusivamente dalla volontà di diversificare le strategie del Regno relative alle materie prime energetiche, ma anche alle prospettive dei consumi energetici interni e alle potenzialità di future opzioni per l’idrogeno.

Negli ambienti del settore dell’Oil & Gas di Riyadh circola voce che Aramco abbia nominato un advisor per esplorare meglio l’ipotesi della cessione di quote azionarie a operatori o investitori internazionali allo scopo di rastrellare i 110 miliardi di dollari necessari.

DIVERSIFICAZIONE ECONOMICA, MA ALLA BASE C’È SEMPRE L’OIL & GAS

Allo specifico riguardo va ricordato che già negli anni Novanta erano state intraprese iniziative simili, che avevano visto il coinvolgimento dei giganti del settore, come la Shell, ai quali si pensava di consentire lo sfruttamento  delle riserve di gas, una operazione che però si concluse in un totale fallimento.

Ora ai sauditi il momento per riorganizzare completamente il settore dell’Oil & Gas parrebbe dunque propizio, anche sull’onda della diversificazione economica avviata dal principe ereditario Mohammed bin Salman, dalla quale petrolio e gas, pur mantenendo un ruolo di «motore» e «carburante» nel futuro, tuttavia non costituirà più l’unica fonte di ricchezza per il Regno.

Mentre il mondo si concentra principalmente sul greggio e sul petrolchimico, Aramco, che col giacimento di Al Jafurah detiene la seconda più grande riserva di GN nel mondo arabo dopo quella del  Qatar, ha fissato al 2024 l’obiettivo del raggiungimento dei 2,2 miliardi di piedi cubi prodotti al giorno.

Riyadh intende monetizzare al massimo le risorse e accreditarsi quale centro di gravità nella futura produzione di idrogeno. L’idea è quella di utilizzare al meglio il GN a beneficio dell’economia locale e, nel medio-lungo termine, come materia prima di approvvigionamento per la produzione di idrogeno blu. Questo non soltanto per ragioni ambientali e climatiche, ma anche per sostituire il petrolio, che attualmente viene consumato nella misura di oltre un milione di barili al giorno nelle centrali di elettrogenerazione.

MUTARE AL PIÙ PRESTO IMMAGINE E SPENDERE ANCORA IN ARMI

Atteso quanto precede, Riyadh deve al più presto mutare la sua immagine, resa oggi ancora più negativa dalla divulgazione del rapporto dell’Fbi, cercando al contempo la credibilità e le risorse necessarie ai suoi progetti di investimento, raccogliendole all’estero, in primo luogo a Wall Street.

Su questo potrà contare ancora sul suo ruolo strategico di antagonista regionale dell’Iran, potenza della quale da sempre Riyadh ne ricerca un contenimento pacifico dell’influenza militare, inoltre, pesano a suo vantaggio anche le spese in armamenti, effettuate principalmente negli Usa.

Nel piano di sviluppo saudita per il 2030 si enfatizzano le sfide che il Regno è chiamato ad affrontare, tra le quali figurano appunto quelle di natura militare, prioritarie e fonte di assorbimento di notevoli risorse, stimate in almeno cento miliardi di dollari.

La corsa al riarmo, causata dalla mancata riduzione dell’instabilità regionale si inquadrerà in un perdurante impegno militare dell’Arabia Saudita e, in misura minore, degli Emirati Arabi Uniti, con un incremento delle spese nel settore Difesa nel prossimo anno che potrebbe portare al raggiungimento di una cifra pari a 117 miliardi di dollari complessivi. Questa potrà venire resa possibile dal previsto significativo rialzo dei prezzi delle materie prime energetiche, indotto dalla ripresa dell’economia mondiale dopo la pandemia.

L’INDUSTRIA BELLICA DI MBS E IL FUTURO ATTEGGIAMENTO DI BIDEN

L’erede al trono entro il 2030 vorrebbe mantenere il 50% delle spese militari all’interno del Regno, ma per ottenere questo risultato dovrà realizzare un’industria bellica saudita, impresa che comporterà l’acquisizione di competenze e il ricorso a risorse umane dall’estero.

Naturalmente, gli obiettivi perseguiti nei settori energetico e militari richiederanno tempi ragionevolmente lunghi e il fondamentale sostegno dell’alleato «chiave» di Riyadh, cioè gli Stati Uniti d’America, che però ora sono guidati da Joe Biden. Ora come mai in passato, Washington dovrebbe incoraggiare i sauditi a investire nella stabilità civile, nella dissuasione e nel contrasto del terrorismo islamista, nonché nello sviluppo economico, mantenendo ovviamente un contestuale interesse agli affari militari.

La questione geopolitica del momento è quella relativa alle capacità esprimibili dall’anziano (e forse già stanco) presidente americano e dalla sua amministrazione, fiaccati nella credibilità internazionale e interna dal fallimento in Afghanistan. Essi saranno in grado di gestire adeguatamente gli sviluppi nella regione del Golfo Persico mantenendo buone relazioni con il Regno degli al-Saud?

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