Egli si è espresso in questi termini dalle colonne del sito web “Opinion” il 17 agosto scorso, affermando che dopo venti anni di battaglie quotidiane e ingenti investimenti nell’esercito di Kabul, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Afghanistan militarmente e politicamente sconfitti, in un modo certamente «non consono» all’unica superpotenza mondiale.
DUBBI SULL’AMERICA
Infatti, argomenta Abdullah, a seguito di due decenni di attacchi mordi e fuggi assestati partendo dai loro nascondigli nelle grotte di Tora Bora, infiltrandosi nei quartieri abitati da civili e ricorrendo spesso a efferati atti terroristici, i talebani sono tornati a controllare la capitale, estasiati da una vittoria del tutto simile a quella che molti dei loro predecessori più anziani ebbero negli anni Ottanta sull’Unione Sovietica.
Il ritiro americano è stato «frettoloso, goffo e catastrofico nelle sue implicazioni per l’immagine e la reputazione della superpotenza», questo in una fase nella quale si ingenerano dubbi sulla sua concreta capacità di guidare il mondo nel XXI secolo.
Si interroga l’analista emiratino: «La decisione sul ritiro è stata pianificata con attenzione e deliberatamente, oppure si è trattato di un disastroso errore strategico che il presidente Biden pagherà alle prossime elezioni se deciderà di ricandidarsi alla Casa Bianca nel 2024?», e inoltre: quali sono le proporzioni della sconfitta subita per mano delle milizie terroristiche fondamentaliste?
INQUIETANTI INTERROGATIVI PER IL MOMENTO PRIVI DI RISPOSTE
Quesiti che con ogni probabilità per il momento sono destinati a permanere senza risposta, anzi, ad avviso di Abdullah esse lo permarranno per molto tempo. Tuttavia, quello più importante per gli Stati del Golfo Persico – o Golfo Arabo, come egualmente correttamente lo denomina l’analista emiratino -, che si trovano a soli duemila chilometri di distanza dall’Afghanistan, è quello relativo alle implicazioni derivanti dal ritiro americano dal paese centroasiatico sulla sicurezza del Golfo.
È il preludio dell’attuazione di un piano a lungo termine che prevede il graduale ritiro militare anche dal Golfo? Se così fosse, quali potrebbero essere allora le possibili scelte dei Paesi della regione?
Nel Golfo si cerca di non farsi cogliere impreparati, anche in ragione del fatto che si è compreso da tempo quali siano i sentimenti che pervadono gli animi dei decisori politici a Washington, soprattutto quelli non espressi pubblicamente, ma perfettamente intellegibili, che confermano brutalmente una verità dolorosa: per gli Usa il Golfo non costituisce più una regione così vitale come nel passato.
CHE FARE?
Che fare? Avrebbe a questo punto affermato con sicumera Vladimìr Ilić Uljanov fornendo anche la risposta all’esiziale interrogativo: «La Difesa è la prima cosa…», avrebbe certamente detto la guida dei bolscevichi. Ma Dubai o Kuwait City non sono la Mosca del 1917, seppure anche in Russia i rivoluzionari comunisti faticarono non poco per strutturare l’Armata rossa.
Ebbene, secondo Abdullah i Paesi del Golfo dispongono di molte opzioni, «la prima e più importante delle quali è quella dello sviluppo di proprie capacità di autodifesa», ma, aggiunge accortamente l’analista emiratino, «evitando però l’errore di costruire un esercito disfunzionale come quello afghano», letteralmente evaporato al suo primo vero confronto con i talebani senza il sostegno del massiccio contingente militare statunitense.
Prosegue l’analista arabo: «L’esperienza degli Emirati Arabi Uniti nella costruzione di un esercito capace sia di combattere che di deterrere i potenziali nemici è importante in questo contesto, poiché gli Emirati si trovano in prima linea nella regione. In questo senso l’accordo sugli aerei F-35 con gli Usa rappresenta solo un primo passo in questo futuro progetto di difesa nazionale».
L’ESPERIENZA MATURATA DAGLI EAU
Oltre a sviluppare capacità di autodifesa è importante che gli Stati del Golfo diano priorità al rafforzamento della cooperazione militare regionale, collegando gli strumenti militari dei vari paesi tra loro, sia a livello operativo che istituzionale. È opinione di Abdullah che «un esercito unificato del Golfo sia qualcosa di più urgente che mai, ma non vi è dubbio che il coordinamento della Difesa necessita di una guida strategica e politica che migliori e acceleri i percorsi di riconciliazione, permettendo così il rafforzamento della cooperazione regionale nel campo della sicurezza».
L’analista, nella sua esposizione su “Opinion” passa poi a ricordare come la sicurezza del Golfo non è solo responsabilità degli Stati che vi insistono, perché essa ha da sempre rivestito una dimensione internazionale, questo per la sua posizione strategica e per le risorse energetiche del suo sottosuolo.
«Nell’equazione della sicurezza del Golfo la presenza internazionale si rende ancor più necessaria alla luce dei recenti sviluppi in Afghanistan, oltre che – aggiunge Abdullah – per l’accondiscendenza di Washington nei confronti delle violazioni dell’Iran e l’escalation delle attività di sabotaggio nello stretto di Hormuz».
COMPENSARE LE DEFICIENZE STATUNITENSI
«Ogni assenza americana – rimarca l’analista emiratino – deve essere compensata da una presenza militare britannica, francese ed europea, nonché da quella cinese, indiana e sudcoreana, in virtù del valore che riveste la regione per l’Oriente, poiché l’internazionalizzazione della sicurezza del Golfo è un’opzione per l’era post-americana».
Al riguardo Abdullah non usa mezzi termini per descrivere il risultato delle politiche di Washington: «Il costo fatale degli errori americani – egli afferma – non è pagato dagli Stati Uniti, ma dai suoi amici e partner come l’Afghanistan e, in ogni caso, il precipitoso ritiro degli Usa, che ha consentito il rapido ritorno dei talebani a Kabul e l’escalation della minaccia iraniana, indicano che l’equazione della sicurezza del Golfo sarà assai diversa rispetto al recente passato. Il Golfo è sull’orlo di enormi trasformazioni sul piano della sicurezza, forse maggiori di quelle del 1971, quando gli Stati Uniti si assunsero la responsabilità della propria sicurezza trasformandolo in un “Golfo Americano” in senso strategico. Ma potrebbe non essere lo stesso nei prossimi decenni».
È INIZIATA L’ERA POST-AMERICANA
L’analista rileva mestamente che: «Oggi, a seguito del precipitoso disimpegno dall’Afghanistan, anche il progetto americano in Iraq vacilla. Gli Usa conserveranno ciò che resta del loro potere militare, politico e finanziario, ma è certo che l’opinione pubblica interna manifesterà sempre più forte contrarietà agli impegni di natura militare all’estero».
Il mondo è entrato nell’era post-americana, nella quale Washington non potrà e non vorrà gestire da sola le dinamiche globali. È un’eredità di Trump, tuttavia Biden si muove sulla falsariga di quest’ultimo, informato dalla logica secondo cui «le vicende interne rivestono maggiore importanza di quelle internazionali».
«È necessario che gli Stati del Golfo traggano lezioni dai catastrofici errori commessi da Washington – conclude Abdullah -, è dunque tempo di ridurre la dipendenza dagli Usa sul piano strategico. Ma anche la fiducia in quell’alleato deve venire rivista attraverso una profonda e fondamentale riconsiderazione, perché ciò che si adattava alle circostanze del XX secolo potrebbe non adattarsi a quelle del XXI, né a quelle di un Golfo Arabo emergente che si affermi quale forza in ascesa nella regione».