A Kabul è scoccata l’ora zero. I talebani sono rientrati nella capitale afghana e con loro sono tornati anche il terrore e la totale incertezza sul futuro. La differenza rispetto al passato, a quegli anni Novanta durante i quali un Occidente ebbro di sicumere sui «dividendi della pace» dopo l’implosione dell’Unione sovietica, assistette all’ingresso dei miliziani del mullah Omar a Kabul, giunti a bordo di scingolanti blindati russi. Era l’inizio dell’Emirato islamico di Afghanistan, l’apertura di quel buco nero che trasformò il Paese in rifugio per i jihadisti di al-Qaeda, una terra prolifica in grado di generare produzioni di oppio come in nessun’altra zona del mondo, una compagine di miliziani divenuti governanti che ricevette il riconoscimento diplomatico da parte di due soli Stati: l’Arabia Saudita e il Pakistan.
LA RESTAURAZIONE DELL’EMIRATO ISLAMICO
Oggi i tempi sono diversi, seppure le dinamiche possano apparire simili, con la repentina avanzata talebana, il crollo dello Stato afghano, le trattative tra warlords, funzionari e miliziani e i passaggi da un campo all’altro.
Oggi è diverso perché sono mutati gli equilibri globali o, forse sarebbe meglio dire, siamo nel pieno di uno squilibrio globale, che vede l’emersione di una superpotenza (la Repubblica Popolare cinese) che in Afghanistan sta cercando di colmare vuoti che si sono pericolosamente aperti, un’altra superpotenza invece in difficoltà (gli Stati Uniti d’America), che si ritirano dopo venti anni di un conflitto che ha assorbito vite umane e risorse sia dei militari statunitensi che di quelli loro alleati (NATO) e, ovviamente, di cittadini afghani.
Poi ci sono gli altri attori, non meno importanti: pakistani, turchi e qatarini, che in diversa misura tra loro hanno guadagnato ulteriori margini di influenza nel Paese centroasiatico, questo mentre i russi lavorano per una riunione di emergenza dell’Onu.
LO STATO AFGHANO SI È SCIOLTO COME NEVE AL SOLE
Un film già visto realizzato sulla base di un copione del tutto prevedibile, infatti lo Stato afghano messo su venti anni fa dagli americani con il sostegno del resto dell’Occidente, si è sciolto come neve al sole. I talebani sono entrati nella capitale e nel frattempo sono cadute tutte le principali città del paese, incluse Jalalabad e Bamiyan. Ora si attendo solo la reimposizione della sharia.
Una volta conquistate queste due strategiche località e accerchiata Kabul, le milizie talebane si sono trovate nelle condizioni di farvi ingresso da varie direttrici. Ora, ciò che resta dello squalificato governo Ghani sta negoziando all’interno del palazzo presidenziale una possibile «transizione pacifica». Secondo quanto riferisce l’emittente “Al Arabiya, «nelle prossime ore il potere verrà lasciato a un esecutivo ad interim guidato dai talebani», mentre fonti diplomatiche hanno fatto filtrare la notizia che sarà l’ex ministro dell’Interno ed ex ambasciatore in Germania, Ali Ahmad Jalali, a presiedere questo governo di transizione.
A guidare la delegazione dei rappresentanti delle varie formazioni che compongono la galassia degli “studenti islamici” in trattativa con gli esponenti del Governo figura anche Anas Haqqani, fratello del leader talebano Sirajuddin Haqqani.
NELLA CAPITALE SI SPARA
Nelle strade di Kabul sarebbero in ogni caso in atto alcuni focolai di combattimenti, poiché si registrano scambi di colpi nei pressi dell’università e nei settori occidentali della città. In una nota emessa in precedenza i talebani avevano reso noto di non voler prendere la capitale con la forza allo scopo di ridurre al minimo le conseguenze del conflitto per la popolazione civile, aggiungendo che le proprietà private non sarebbero colpite. Ai miliziani islamisti è stato inoltre ordinato di evitare violenze e consentire un transito sicuro a chiunque decida di lasciare la città. Al momento numerose persone stanno fuggendo a piedi o servendosi di automezzi verso l’aeroporto, causando lunghe code di traffico in uscita dalla capitale.
Nel frattempo gli Stati Uniti hanno avviato l’evacuazione della loro sede diplomatica, seguiti da Italia, Germania e Francia, a differenza della Russia, che ha mantenuto il proprio personale diplomatico nell’ambasciata di Kabul e sta lavorando assieme ad altri paesi al fine di ottenere la convocazione di una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
L’IMBARAZZO DELLA CASA BIANCA
Il presidente statunitense Joe Biden, dopo aver ribadito che non intende «passare questa guerra a un quinto presidente americano», ha aggiunto che «un anno o cinque in più di presenza militare statunitense in Afghanistan non avrebbe fatto la differenza se l’esercito di Kabul non può o non vuole tenere il suo paese», aggiungendo che: «una presenza americana senza fine nel mezzo del conflitto civile di un altro paese non è accettabile per me».
«Trump ha lasciato i talebani nella posizione più forte dal 2001 – ha rimarcato Biden -, poiché da allora essi si trovano in una posizione militare più forte. Trump ha imposto la scadenza del primo maggio 2021 per il ritiro, riducendo le forze americane al minimo, soltanto 2.500 uomini, quindi, quando sono diventato presidente ho dovuto scegliere se proseguire l’accordo, con una breve estensione per l’uscita sicura delle forze nostre e di quelle alleate, oppure rafforzare la nostra presenza e mandare altre truppe americane a combattere ancora una volta in un conflitto civile all’estero».
In venti anni di impegno nel Paese centroasiatico i costi per gli Usa ammontano a circa mille miliardi di dollari, che sono stati spesi, tra l’altro, per l’addestramento di oltre 300.000 militari e poliziotti afghani, personale che è stato equipaggiato con materiali e sistemi d’arma moderni.
IL RITIRO ITALIANO
Ieri sera sono iniziate anche le evacuazioni del personale italiano ancora presente in Afghanistan e attualmente viene mantenuto un presidio dell’ambasciata all’aeroporto della capitale afgana. In serata la Farnesina aveva invitato tutti gli italiani ancora presenti nel paese centrasiatico a partire con il volo dell’Aereonautica militare il cui decollo era previsto alle ore 21:30 di domenica, questo – si affermava nella nota – «alla luce del grave deterioramento delle condizioni di sicurezza».
Dal canto suo, il ministro degli Affari esteri Luigi Di Maio ha reso noto che l’ambasciata presso lo Stato afghano rimarrà operativa da Roma, mentre i fondi destinati al sostegno delle forze di sicurezza afghane potranno «essere riorientati verso la tutela dei collaboratori delle nostre componenti diplomatiche, militari e civili», egli ha quindi ribadito che, anche in assenza di un nuovo impegno di natura militare «dopo venti anni non possiamo pensare di abbandonare il popolo afghano, perché venti anni di presenza internazionale e di cooperazione con le autorità locali hanno restituito alla popolazione tutele e diritti, a partire da donne e bambini. Adesso dovremo lavorare con tutte le forze affinché i talebani forniscano le dovute garanzie sul rispetto dei diritti acquisiti».
ACCORATO APPELLO DEL PONTEFICE
«Cessi il frastuono della armi: la via è il dialogo», queste le parole pronunciate stamani dal Papa nel corso dell’Angelus domenicale. Bergoglio è intervenuto nel merito della questione afghana unendosi «all’unanime preoccupazione» e chiedendo «di pregare con me il Dio della pace affinché cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del dialogo. Solo così la martoriata popolazione di quel Paese, uomini, donne, anziani, bambini, potrà ritornare alle proprie case, vivere in pace e sicurezza nel pieno rispetto reciproco».
Contributi audio tratti dall’archivio insidertrend.it
A045 – AFGHANISTAN. VERSO UN NUOVO AFGHANISTAN: diritti umani, donne, stato di diritto, minoranze, ricostruzione.
Evento organizzato dall’Ambasciata del Canada presso la Repubblica italiana in collaborazione con le Ambasciate presso la Repubblica italiana di Afghanistan, Australia e Paesi Bassi e con il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica italiana. Roma, Ambasciata del Canada, 16 marzo 2009.