STRATEGIA, ricorrenze e attuali scenari. A trent’anni dalla fine del Patto di Varsavia dove va l’Europa?

Nella quasi totale assenza di copertura mediatica, il primo luglio è stato il giorno del trentesimo anniversario della fine dell’organizzazione militare dell’Est comunista, ma permangono irrisolte le attuali problematiche

di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano e membro del direttorio della NATO Defence College Foundation – Il Patto venne firmato da otto Stati: Unione sovietica, Ungheria, Romania, Polonia, Repubblica democratica tedesca (DDR), Cecoslovacchia, Bulgaria, Albania (che ne sarebbe uscita, di fatto, nel 1961 e ufficialmente nel 1968 con la crisi tra l’Urss e la Cina maoista, quando Tirana si schierò con Pechino).

UN’ALLEANZA A GUIDA SOVIETICA

Quel primo luglio segnò la fine dell’esistenza dell’alleanza politico-militare guidata dall’Unione sovietica, che per trentacinque anni fu il contraltare della NATO, nonché la  spada di Damocle sul capo delle democrazie occidentali.

Si trattò di un passo che mutò il corso della storia: finiva impietosamente la  lunga stagione dell’impero sovietico e del «comunismo a ogni costo», che era stato il motivo della Guerra fredda.

Le avvisaglie di quell’evento non furono poche. La principale di esse, di immenso valore simbolico, fu l’unificazione tedesca avvenuta all’inizio degli anni Novanta dopo la caduta del Muro di Berlino.

Infatti, il Patto di Varsavia aveva fino a quel momento costituito la risposta sovietica al riarmo della Repubblica federale tedesca, reso possibile dalla protezione della NATO. Ma non solo, perché con questo accordo l’Unione sovietica trovò il modo di controllare i suoi satelliti dell’Europa orientale.

NUOVI AVVERSARI, «SISTEMICI» E NON, IN UN MONDO GLOBALE

Gli eserciti dei paesi del Patto di Varsavia e della NATO si fronteggiarono per decenni sulla cortina di ferro senza mai affrontarsi in battaglia. Si sfidarono nella corsa agli armamenti, con tutti i rischi che comportò. Poi, come scritto, arrivò il primo luglio 1991 che cancellò definitivamente la dottrina sovietica.

Alla fine dello scorso mese, sia durante il vertice del G7 che in quello della NATO, nelle discussioni è emerso un tema centrale: la necessità per le democrazie di restare unite di fronte alle grandi sfide mondiali poste da potenze autocratiche quali la Repubblica Popolare cinese e la federazione russa. Trent’anni dopo la fine del Patto di Varsavia le democrazie occidentali attraversano una fase storica nella quale, a titolo di esempio, il presidente Xi Jinping si mostra in pubblico indossando la casacca che fu di Mao Zedong quaranta anni fa.

L’ultima volta che egli indossò l’uniforme maoista fu il primo ottobre del 2019, quando pronunciò il discorso dagli spalti della Città Proibita in occasione dei settanta anni dalla fondazione della Repubblica Popolare cinese.

CONDIVIDERE GLI ONERI

Per poter efficacemente affrontare le grandi sfide di oggi le democrazie dovranno raggiungere l’unità di intenti. In effetti, l’unità del mondo libero dovrebbe essere implicita, ma il comunicato del vertice NATO ha tuttavia evidenziato la vitale necessità per i principali paesi europei di guidare l’intero continente verso un livello molto più alto di difesa strategica. Tale ambizione sarà vitale se si vorrà davvero alleviare la decrescente capacità di deterrenza dell’Alleanza atlantica, processo che rinviene le sue cause nella crisi economica, che ha portato a una riduzione dell’impegno economico nel settore Difesa e al conseguente passaggio del «sovraccarico in eccesso» alle forze armate statunitensi.

Attualmente gli europei devono guardare al mondo attraverso un punto di vista comune e non lacerandosi a vicenda dall’interno, ricordando che l’Unione europea permane ancora troppo importante per la Gran Bretagna malgrado la Brexit, perché Londra abbandoni l’idea di rimanerle in qualche modo legata in prospettiva futura.

Le potenze nucleari europee (Regno Unito e Francia), se animate da buona volontà, potrebbero trovare effettive soluzioni informate al pragmatismo, che possano  ridurre gli attriti. In questo senso un ruolo importante lo rivestono Berlino e Roma.

«ATTENZIONARE» LA CINA

La Russia e le repubbliche un tempo sovietiche hanno preso atto che lo Stato trattato con maggiore severità dall’Occidente è la Cina Popolare. Pechino viene chiamata al rispetto dei diritti umani della minoranza etnica degli Uiguri nello Xinjiang, oltreché dell’autonomia di Hong Kong e di Taiwan. I leader del G7 hanno inoltre auspicato l’avvio di una nuova indagine sulle origini della pandemia di sarsCov-2, ritenuta da non pochi «Virus di Wuhan», soprattutto a seguito delle recenti conclusioni tratte dall’intelligence statunitense.

Nel comunicato si sottolinea più volte la necessità di aiutare i paesi meno ricchi a uscire dalla pandemia e a prevenire i rischi del cambiamento climatico. Gli osservatori ci hanno visto un accenno alla possibile iniziativa, della quale si è molto parlato nei giorni scorsi, tesa a bilanciare l’influenza della Nuova Via della seta cinese (Belt and Road Initiative, BRI). Soltanto in Africa la Cina Popolare  ha erogato 145 miliardi di dollari di prestiti, in gran parte legati a progetti della BRI, creando in questo modo un’area di consenso intorno alla sua politica di espansione mondiale.

Poche ore dopo la pubblicazione del comunicato finale, l’ambasciata cinese a Londra ha rimandato al mittente le accuse rivolte al gigante comunista asiatico dai partecipanti al summit, asserendo che si tratterebbe «di bugie, voci non confermate e accuse infondate».

LE NUOVE SPINE NEL FIANCO

Ad alimentare le incertezze dell’attuale situazione geopolitica hanno poi contribuito le elezioni che hanno avuto luogo lo scorso mese in Iran, dove la vittoria dei conservatori ha evidenziato l’importanza della prossima possibile sfida per gli Stati Uniti d’America. Teheran è la spina nel fianco di Washington, del suo presidente Joe Biden e, conseguentemente, del mondo democratico.

La prossima edizione del G7 si terrà nell’estate del 2022 in Germania e sarà il primo importante impegno internazionale del successore di Angela Merkel alla cancelleria. Berlino lavora per continuare a essere il motore economico e politico dell’Europa, ma dovrà fare qualcosa di importante e non limitarsi ad aspettare che gli eventi si verifichino. Ma, forse non dovrà attendere un anno per vedere dove andrà l’Europa.

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