IRAN, nucleare. Il programma militare e gli esiti del prossimo voto nella Repubblica Islamica

È stato dimostrato, sia nel corso dell'amministrazione Trump sia in precedenza di quella di Obama, che le rigide regole di ingaggio dell’embargo contro l'Iran sono state violate più volte

di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano e membro del direttorio della NATO Defence College Foundation – Le contrapposizioni in corso, a Vienna, nell’ambito delle discussioni sull’Accordo internazionale per il nucleare iraniano (JCPOA) hanno già avuto un effetto non positivo sui mercati globali del petrolio e del gas e la situazione nella citata contesa, ora solamente diplomatica, non cambia in meglio. Come è stato dimostrato, non solo durante l’amministrazione Trump, ma anche prima con quella di Obama, le rigide regole di ingaggio dell’embargo contro l’Iran sono state violate più volte.

TEHERAN ALLA RICERCA DELLA TECNOLOGIA

I rapporti degli organismi di controllo hanno indicato che l’Iran non è stato disposto a tener fede all’accordo e, nonostante gli sforzi in corso su base internazionale, continua a  cercare di acquisire la tecnologia necessaria per sviluppare armamenti nucleari. In merito i servizi segreti di alcuni paesi europei avrebbero più volte riferito di aver bloccato l’acquisizione di tecnologia da parte dell’Iran, con un focus specifico sulla tecnologia nucleare e missilistica che Teheran starebbe cercando in Europa.

Come pubblicato dal quotidiano “Jerusalem Post”, paesi come Siria, Pakistan, Iran e Corea del Nord avrebbero cercato di acquisire tali tecnologie in Europa e  l’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) più volte si è lamentata del fatto che l’Iran ha negato l’accesso, per oltre quattro mesi, a due dei suoi siti da controllare. Questo è di per sé già molto preoccupante, ma le mosse della Repubblica islamica  parrebbero ancora più aggressive. In aprile Teheran ha annunciato che avrebbe iniziato ad arricchire parte delle sue scorte di uranio a un livello del 60%, ben al di sopra del limite fissato dal JCPOA del 3,67%, e conseguentemente i membri europei del JCPOA (Francia, Germania e Regno Unito) hanno rilasciato una dichiarazione congiunta esprimendo preoccupazione. Nonostante quanto precede, la posizione ufficiale assunta dai citati paesi europei, in combinazione con Russia e Cina, è quella di  cercare di ristabilire il quadro degli accordi JCPOA nella forma che esisteva al tempo dell’approvazione degli accordi da parte dell’amministrazione democratica presieduta da Barack Obama.

ALLEATI E «PROXI» DI TEHERAN NELLA REGIONE

Non va comunque dimenticato che ancora oggi l’Iran darebbe sostegno attivo, o per procura, a milizie e organizzazioni terroristiche quali gli Houthi in Yemen, Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza e sciiti iracheni. Inoltre, va ricordato il ruolo iraniano in Siria, dove continua la guerra contro le minoranze siriane che si oppongono al governo di Bashar al-Assad. Al momento, l’attenzione va rivolta al possibile esito delle elezioni iraniane del prossimo 18 giugno, che contrariamente alle aspettative e alle speranze  occidentali, potrebbero non portare un cambio di rotta nella politica interna ed estera del Paese. Infatti, anche se il panorama politico iraniano è cambiato, soprattutto guardando alle ultime elezioni presidenziali del 2017, le riforme non sono state migliorative e, a riprova, c’è stata una dura reazione governativa alle proteste di piazza e alle richieste di cambiamento. Il regime iraniano ha mostrato la volontà di reprimere le proteste antigovernative, arrestare attivisti politici e sociali e aumentare la pena capitale per i prigionieri politici. Quest’ultimo aspetto è diventato ancora più negativo dopo che il presidente statunitense Trump nel mantenere la sua promessa elettorale ha lasciato il JCPOA.

EFFETTI ECONOMICI DELLE SANZIONI

L’aumento delle sanzioni, mirato ufficialmente a un possibile cambio di regime, ha portato a una grave crisi economica e a un forte calo delle esportazioni e delle entrate di petrolio e gas. L’opposizione nel Paese pur crescendo non riesce a prevalere e alcuni analisti prevedono che una bassa affluenza alle prossime elezioni potrebbe, da una parte, essere un duro colpo per il regime, ma, dall’ altra, potrebbe essere inutile e il potere rimanere all’élite degli ayatollah guidata da Khamenei. Infatti, chi conosce l’Iran pensa che al momento non è possibile ipotizzare un cambio in un regime nazionalista estremista religioso senza l’ausilio o la possibilità di attivare  importanti pressioni esterne. L’opposizione iraniana è frazionata o addirittura non filo-occidentale e quindi, in realtà, le  possibilità di un cambiamento sono scarse. Nei giorni scorsi è stata , come tradizione, approvata una lista di sette candidati tra cui gli elettori sono obbligati a scegliere il presidente. Solo due dei sette candidati sono cosiddetti riformisti e centristi, ma entrambi sono considerati di basso profilo.

Gli esperti dell’ area scrivono che l’analisi dell’attuale elenco di candidati è complessa ma l’inserimento nella lista del capo della magistratura iraniana, Ebrahim Raisi, noto per la sua partecipazione alle elezioni del 2017 dove si è classificato secondo, ne fa il favorito nonostante che dal 2019 sia soggetto a sanzioni personali da parte degli Usa. Se Raisi sarà il nuovo presidente iraniano, data la sua vicinanza a Khamenei e ai conservatori, gli attuali colloqui del JCPOA, a volte descritti come positivi, potrebbero diventare infruttuosi perché Raisi e Khamenei non pare abbiano la flessibilità oggi mostrata dall’attuale presidente Rouhani e dal suo staff.

UNO SCENARIO DIFFICILE

L’amministrazione Biden e i partner europei potrebbero quindi trovarsi di fronte a uno scenario privo di flessibilità, nel quale Teheran cercherebbe di ottenere un accordo che non includa la riduzione dello sviluppo missilistico, un controllo più rigoroso sulla tecnologia nucleare, l’arricchimento dell’uranio e , certamente, alcuna limitazione al sostegno delle guerre «per procura».

In conclusione, se le elezioni dovessero andare come ipotizzato, dalla prossima estate, tenendo conto anche dei giustificati timori delle potenze arabe regionali sunnite e di Israele, non si vede come si possano porre nuovamente le basi per un successo dei colloqui.

Il 18 giugno non è lontano, si capirà presto quale sia il pericoloso deserto da attraversare per pacificare l’area del Golfo Arabico (o Persico, che dir si voglia…).

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