di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano e membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation – Firmati il 15 settembre 2020 a Washington, celebrando un grande successo diplomatico della presidenza Trump, gli Accordi di Abramo sanciscono la normalizzazione dei rapporti bilaterali tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain e, poi, Sudan e Marocco .
Il processo indica un cambio di rotta di portata storica ed è stato reso possibile dal cambiamento radicale delle priorità geopolitiche degli Stati del mondo arabo. Infatti, i trattati di normalizzazione ufficializzano la perduta centralità della questione israelo-palestinese anche all’interno del mondo arabo stesso. Il credo dell’estremismo di Hamas non è più al centro delle politiche estere e domestiche dei tradizionali alleati regionali. A partire dalle cosiddette primavere arabe del 2011 i governi in Medio Oriente e Nord Africa hanno volto la propria attenzione alle problematiche interne, principalmente di ordine economico.
NUOVI «FOCUS» SUL MEDIO ORIENTE
Le guerre in Libia, Siria e Yemen e la minaccia terroristica jihadista hanno tolto la contesa israelo-palestinese dal centro dell’attenzione, a meno dell’opera dell’Egitto, potenza emergente e attore chiave a livello regionale, che sta svolgendo il ruolo di mediatore tra le due parti.
Come scritto da alcuni esperti contrari alla precedente presidenza americana, gli Accordi di Abramo non sarebbero degli accordi di pace. La questione della definizione della contrapposizione in argomento non è compresa in quanto firmato a Washington, che, invece, spiana la strada a futuri trattati di cooperazione tra le parti nei settori economico, di sicurezza, tecnologico e commerciale. In conseguenza oggi si vede l’Autorità palestinese (ANP) uscire indebolita dopo gli Accordi soprattutto a causa dagli scontri ideologici con Hamas a Gaza e dallo scontento della popolazione palestinese in Cisgiordania.
In particolare, il cessate il fuoco ha forse sia impedito una terza intifada sia riportato la contesa israelo-palestinese per qualche giorno al centro dell’attenzione. Rimane sicuro che gli Stati arabi che hanno normalizzato i rapporti bilaterali con Israele e sono stati in grado di fornire assistenza ai palestinesi (oltre agli aiuti umanitari già inviati) , forse con qualche imbarazzo, saranno in grado di mantenere la tregua in virtù degli Accordi.
EFFETTI DELL’ULTIMO CONFLITTO
Non va mai dimenticato che l’America ha iniziato a supervisionare i colloqui tra israeliani e palestinesi tre decenni fa e la Terra Santa resta comunque contesa da due popoli che non riescono a vivere insieme. I combattimenti di questo mese hanno causato la morte di circa duecento palestinesi e almeno dieci israeliani e non hanno portato a nulla se non a sgombrare il campo per il prossimo round di combattimenti. Infatti, durante l’attuale tregua è possibile solo aspettarsi che Hamas riprenda a produrre ed ammassare razzi, da lanciare su Israele alla prossima occasione, con la complicità sia iraniana sia turca. Logico che la tregua accettata con immediatezza da Hamas sia anche figlia dell’esaurirsi della «riserva» di razzi e non della preoccupazione per i crescenti danni collaterali alla popolazione di Gaza.
Il processo di pace avviato negli Accordi di Oslo nel 1993 voleva creare due stati che «concordano di non essere d’accordo», utilizzando scambi di terre, garanzie di sicurezza, un accordo per convivere nella Città Santa di Gerusalemme e un limitato diritto al ritorno per i palestinesi. Il vantaggio per Israele doveva essere una fiorente democrazia e uno stato libero da problemi per gli ebrei, in cambio per i palestinesi c’era la promessa dell’autogoverno. A volte, con il passare degli anni, gli accordi di pace sono stati molto vicini, solo per retrocedere poi in mezzo a reciproche recriminazioni.
L’America che è il più importante alleato di Israele e stato il motore continuativo post Oslo vedrebbe oggi i suoi tentativi di definire due stati, congelati al momento dalla nuova visione palestinese tesa a rivendicare i diritti individuali in un singolo stato.
QUALE SOLUZIONE PER LA QUESTIONE PALESTINESE?
Chi vive a Gaza e in Cisgiordania nutre del risentimento contro Israele per il fatto di aver bisogno del permesso per viaggiare per vedere le loro famiglie nella parte diversa dei territori (Gaza e Cisgiordania distano circa cinquanta chilometri). I recenti combattimenti sono stati alimentati da una disputa sulla proprietà a Gerusalemme Est, dove la maggior parte dei palestinesi sono semplici residenti. Anche gli arabi israeliani si lamentano dello stato dei fatti e hanno protestato durante i combattimenti a Gaza.
La situazione attuale vede il Pil israeliano pro capite cresciuto di oltre la metà negli ultimi trenta anni e il sistema di difesa missilistica Iron Dome proteggere quasi soddisfacentemente Israele dagli attacchi di Hamas. Inoltre, il conflitto non è stato al centro del dibattito in nessuna delle quattro elezioni che Israele ha tenuto dal 2019.
Senza speranza di un accordo, i critici di Israele hanno iniziato a parlare di una “realtà a uno stato” ma la Terra Santa che ha tanti ebrei quanto palestinesi, non può rimanere nell’indeterminatezza e gli stessi critici ad oltranza della politica israeliana ora paragonerebbero il controllo dei territori e il trattamento dei palestinesi all’apartheid.
RECIPROCA SFIDUCIA
Inoltre, il muro che isola per motivi di sicurezza Israele dalla Cisgiordania ha portato a una sfiducia più profonda tra arabi ed ebrei. Gli insediamenti, una volta ritenuti negoziabili, sono diventati ostacoli permanenti alla pace e ora c’è chi chiede al presidente Biden che il principio guida della soluzione dei problemi sia quello di concentrarsi sui diritti umani e civili dei palestinesi.
È logico pensare che Israele non concederà ai palestinesi pieni diritti con immediatezza ma può rendere i suoi cittadini arabi “più uguali” dedicando risorse alle loro comunità e potrebbe anche rendere l’amministrazione di Gerusalemme più inclusiva, in modo che i litigi non si trasformino in poche ore in una guerra. Forse Tel Aviv dovrebbe assumersi maggiori responsabilità per le problematiche in Cisgiordania e Gaza e lavorare di più per alleviarle.
Al contempo in presenza di una leadership palestinese divisa e debole, gli stessi leader palestinesi più responsabili non dovrebbero esigere da Israele diritti che negano al loro stesso popolo riconoscendo che Mahmoud Abbas è al diciassettesimo anno di un mandato iniziale di quattro anni come presidente e che Hamas, al momento riconosciuta come organizzazione terroristica in Europa, calpesta i diritti della sua gente, comprese le donne e le minoranze.
LO STATUS QUO NON PUÒ PIÙ DURARE
«La posizione dell’Unione europea non è cambiata a riguardo in questo mese e dunque la politica di assenza di contatti continua ad applicarsi». Quanto precede lo ha affermato Peter Stano, portavoce del servizio di azione esterna dell’Unione europea rispondendo ad una domanda sulla conferenza organizzata al Cairo alla presenza di rappresentanti di Hamas e del governo di Tel Aviv.
Stano ha aggiunto che: «Lo status quo non può più durare, la pace e la sicurezza per i palestinesi e israeliani non può che arrivare attraverso una soluzione pacifica negoziata di lunga durata con la soluzione che preveda due stati».
La pace inizia sempre riconoscendo la realtà e leader palestinesi migliori ne sono un prerequisito. La pace stessa si radica migliorando la vita e rinnovando la politica che può fiorire quindi in qualcosa di nuovo. Poi, un giorno, le parti potranno ricominciare a parlare di un accordo, che sia di uno o, preferibilmente, di due stati.