TAIWAN, tensioni. Venti di guerra nello Stretto di Formosa

L'ammiraglio Phil Davidson, che guida il comando Usa dell’Indo-Pacifico, lo scorso marzo ha dichiarato al Congresso di essere preoccupato riguardo alla possibilità che Pechino attacchi Taiwan nel 2027. Sull'isola c’è il cuore dell'industria dei semiconduttori e Taiwan è il produttore di chip più importante al mondo, con una capacità di immetterne sul mercato mondiale l'84% del totale

Di seguito viene pubblicato l’intervento del generale Giuseppe Morabito, membro della NATO Defence College Foundation – Un recente articolo del quotidiano britannico “The Guardian” ha riportato in evidenza la questione dell’isola di Taiwan, definendola la «zona più pericolosa della terra». La ragione principale è che Taiwan oggi è un’area geografica dove si configura chiaramente la rivalità tra la Repubblica popolare cinese e gli Stati Uniti d’America.

Il Paese, in passato chiamato Formosa, conta ventiquattro milioni di abitanti e viene  governato da un esecutivo democraticamente eletto, ma si trova a 160  chilometri dalla costa continentale cinese e Pechino insiste da sempre nel ritenere che c’è solo una Cina, la loro, mentre Taiwan ne è una parte «ribelle».

Dopo la Seconda guerra mondiale gli Usa hanno garantito l’esistenza di una «seconda Cina», impegnandosi nella salvaguardia della democratica Taiwan dall’aggressione della Cina comunista, seppure Washigton mantenesse formali relazioni diplomatiche soltanto con Pechino. Non va dimenticato che nel 2018 il presidente Donald Trump, quale segno tangibile del legame con Taipei, ha disposto l’apertura di un’ambasciata americana “de facto” nell’isola e inviando in loco una unità militare simbolica.

A oggi, ad esempio, in Europa, solo la Santa Sede riconosce diplomaticamente Taiwan, che ha un suo ambasciatore accreditato in vaticano, mentre per quanto concerne la Repubblica italiana è presente soltanto un ufficio di rappresentanza.

Washington teme una invasione cinese di Taiwan

L’analisi del “Guardian” ha evidenziato come nel 2021 gli Usa abbiano iniziato a temere di non essere più in grado di dissuadere la Cina popolare dall’invadere Taiwan. L’ammiraglio Phil Davidson, che guida il comando Usa dell’Indo-Pacifico, lo scorso marzo ha dichiarato al Congresso di essere preoccupato riguardo alla possibilità che Pechino attacchi Taiwan nel 2027.

La guerra sarebbe ovviamente una catastrofe, non solo a causa dello spargimento di sangue, ma per il rischio di un’escalation sia areale che mondiale.

Il principale motivo della contesa è di natura economica: Pechino non può nascondersi dietro il dito dell’unificazione del popolo cinese, poiché sull’isola si trova il cuore dell’industria dei semiconduttori e Taiwan è il produttore di chip più importante al mondo, con una capacità di immettere sul mercato mondiale l’84% dei chip più moderni.

Orbene, se la produzione di tale particolari manufatti tecnologici si arrestasse, questo comporterebbe costi incalcolabili per l’industria elettronica globale, inclusa quella automobilistica. La tecnologia e le conoscenze dei taiwanesi sono un decennio avanti rispetto al resto del mondo e ci vorrebbero anni di lavoro prima che le altre industrie, comprese quelle statunitensi e della Cina popolare, riescano a raggiungere le capacità produttive in questo fondamentale settore.

Washington di fronte a una scelta

Gli analisti internazionali ritengono che sebbene gli Stati Uniti non siano vincolati da un trattato per difendere Taiwan, un attacco di Pechino metterebbe davanti ad una scelta la potenza militare americana e la capacità diplomatica e politica di Washington. In caso di conclusione negativa della contesa la teoria della Pax americana, apprezzata e condivisa in molti Paesi, verrebbe cancellata. Infatti, se gli Usa fallissero nel difendere la democrazia di Taipei, Pechino diverrebbe dall’oggi al domani la potenza dominante in Asia, mentre gli alleati dell’America in tutto il mondo, NATO inclusa, saprebbero di non poter contare  pienamente su Washington.

Per evitare il conflitto nello Stretto, dopo la pace degli ultimi decenni, tutti i paesi democratici del mondo, non solo gli Stati Uniti, dovrebbero contrastare il governo di Pechino, che insiste con la dannosa propaganda volta ad affermare  la necessità di realizzare l’unificazione, anche, come ultima risorsa, per mezzo dell’invasione militare. I taiwanesi, che erano soliti concordare sul fatto che la loro isola facesse parte della Cina popolare (anche se non comunista), hanno democraticamente deciso, negli anni recenti,  di eleggere governi che sostengono la separazione pur senza dichiarare l’indipendenza.

Negli ultimi tempi le forze armate di Pechino si sono notevolmente rinforzate e al momento potrebbero forse essere in grado di attaccare con successo sia Taiwan sia le navi della US Navy oltre alle le basi americane in Giappone, Corea del Sud e sull’isola di Guam.

Il potenziamento dell’Armata di liberazione nazionale cinese

Alcuni esperti di Pacifico iniziano ad affermare che la superiorità militare nell’area prima o poi potrebbe portare la Cina popolare a usare la forza contro Taiwan, in quanto a Pechino ci si potrebbe convincere che gli Usa vogliano mantenere in atto la crisi di Taiwan per contenere l’ascesa economica e diplomatica della Cina.

Non va dimenticato che negli ultimi mesi Pechino ha soppresso con la forza anche solo l’idea che Hong Kong potesse avere  un sistema di governo separato e sta usando azioni di “soft power” per convincere la popolazione taiwanese a una «unificazione pacifica».

In particolare sfruttando la pandemia di Covid-19, ponendo il veto alle Nazioni Unite sulla piena inclusione di Taiwan in tutti i meeting, i meccanismi e le attività dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Taipei e i taiwanesi sono stati un esempio per il mondo per come agire contro il virus e limitare i danni alla popolazione, ma non possono scambiare dati ufficialmente con altri paesi.

Se ci fosse la volontà di garantire che la guerra rimanga solo una terribile soluzione finale, Cina popolare, Stati Uniti d’America e Taiwan nei prossimi anni potrebbero dedicarsi al ristabilimento di un equilibrio nello Stretto di Taiwan.

Un diverso quadro strategico

In tale quadro strategico di ricerca di un equilibrio e nell’applicazione moderna del motto dell’antica Roma Si vis pacem parabellum, Taipei potrebbe allocare meno risorse nei sistemi d’arma, grandi e costosi, che sono vulnerabili al moderno sistema di attacco missilistico cinese, mentre potrebbe concentrarsi di più sull’addestramento delle forze armate a tattiche di guerriglia contro eventuali occupanti dell’isola, con tecnologie difensive che vanificherebbero i vantaggi di un’invasione.

Gli Usa hanno bisogno sia di ulteriori capacità militari strategiche (non si parla certo di deterrenza nucleare) per dissuadere la Cina popolare dal lanciare un’invasione anfibia, preparando anche i suoi alleati, inclusi Giappone e Corea del Sud, nel contempo facendo capire a Pechino che i suoi piani di impiego delle forze in quell’area sono credibili.

Equilibrio si potrebbe trovare addirittura applicando una forte e convincente azione di deterrenza con Pechino che dovrebbe essere scoraggiata dal tentare di cambiare con la forza lo status democratico di Taiwan e, al contempo, essere rassicurata che l’America non sosterrà una corsa all’indipendenza formale da parte di Taipei.

Sebbene la Cina sia chiaramente diventata più autoritaria e nazionalista, non credo che il suo popolo sia oggi pronto per una guerra che potrebbe causare vittime di massa e sofferenza economica. Questo anche nell’ evidenza  che nel centesimo anno del Partito comunista cinese, il governo di Pechino indica chiaramente di voler esercitare il potere basandolo sulla prosperità, la stabilità e lo status della Cina nella sua regione con un ruolo crescente nel mondo. Tutto ciò sarebbe logicamente messo a repentaglio da un’azione militare.

Vedremo presto se il presidente Joe Biden sarà capace di convincere il suo omologo di Pechino Xi Jinping.

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