È l’iscrizione sulla quarta di copertina dell’autobiografia romanzata di Giuseppe Misso detto ‘o nasone, ex malavitoso napoletano del quartiere Sanità che ha sempre negato di fare parte della camorra, ma che tuttavia il crimine ha praticato per lungo tempo.
L’effimera «età dell’oro» di un malavitoso
Un uomo che ha vissuto buona parte della sua esistenza in carcere, dopo la sua effimera «età dell’oro» consumatasi nel breve arco di pochi anni e culminata l’exploit criminale della famosa «rapina del secolo» al Banco dei pegni di Napoli.
Un periodo da vincente che verrà interrotto di colpo da un’accusa tanto grave quanto infamante, quella di avere organizzato e portato a compimento la cosiddetta strage del rapido 904, attentato terroristico compiuto il 23 dicembre 1984 che provocò sedici morti.
Un atto per il quale secondo l’accusa e la deposizione di una serie di «pentiti» Misso era responsabile in concorso con la mafia siciliana e settori dell’eversione nera. Per la strage di Natale egli verrà condannato in primo grado all’ergastolo, ma poi in appello verrà invece assolto «per non aver commesso il fatto».
Il carcere e i processi
Nel frattempo, durante questa lunga parentesi carceraria, che lo condurrà dapprima a Poggioreale, quindi a Pianosa, a Rebibbia, ad Ariano Irpino, a Sollicciano, ad Ascoli Piceno (dove si trovava detenuto Raffaele Cutolo) e, infine, nuovamente a Sollicciano. Poi, la liberazione.
Ma in quegli anni di detenzione Misso affronterà una serie di processi e, impotente, verrà colpito da gravi lutti, quali quello per la morte della sua compagna, assassinata dai camorristi suoi rivali presso un casello autostradale di Napoli al suo ritorno da un colloquio in carcere a Firenze che aveva avuto con lui.
Nel suo libro Misso racconta tutto, partendo dalla sua scarcerazione del 1978, quando, uscito da Poggioreale, fuori troverà una Napoli in procinto di venire dilaniata da una spietata e sanguinosa guerra di camorra, quella combattuta dalle due grandi affiliazioni criminali del tempo: la Nuova famiglia e la Nuova camorra organizzata.
La guerra di camorra
Una guerra senza quartiere e senza esclusione di colpi che mieterà vittime quotidianamente, nella quale, Misso afferma di avere tentato di prendere le distanze, ammettendo tuttavia di esserne rimasto in qualche modo coinvolto. Quando afferma questo in parte è credibile, poiché per un malavitoso in quegli anni era davvero difficile non venire trascinato nello scontro.
Tuttavia, ad avviso personalissimo del recensore, l’opinione su questa opera porta necessariamente a una scissione in due parti dei contenuti della narrazione, la prima è la storia di quei drammatici anni vissuti a Napoli e nel suo hinterland, la seconda è invece l’autoassoluzione che attraverso la figura del protagonista del romanzo tenta di dare a sé stesso Misso.
È vero che egli alla fine del suo percorso esistenziale si è emendato dal suo passato criminale, però, nel suo libro offre al lettore un’immagine di sé che è altro, poiché raramente tra le righe di esso si rinvengono resipiscenze e, inoltre, indugia nel rendere di sé l’immagine immacolata del «bandito buono».
Misso e il suo quartiere, la Sanità
Ma in quegli anni Misso non fu un «Robin Hood» del quartiere Sanità, anche se molti si legarono a lui e per lui provarono amicizia e affetto. I reati che realmente commise furono gravi e per nulla «necessitati» dal bisogno, come per altro lui stesso ammette nell’opera.
Infatti, egli narra delle altalenanti fasi della sua esistenza di criminale, dalla bella vita dei giorni del successo al pozzo nero della detenzione una volta carcerato. Ed è qui che si rinviene il valore del libro, in questi racconti di storie di malavita, di donne e tradimenti e di dichiarati (malintesi) principi di vita.
Una “way of life” la sua, comune anche a molti altri criminali, sulla quale egli tiene il punto ancora oggi, conducendo il lettore nella Napoli della guerra di camorra, dove trappole, tradimenti fratricidi e sangue potevano trovarsi dietro a ogni angolo di vicolo.
Il connubio tra criminalità e politica
Egli, neofascista dichiarato, indugia poi sulle relazioni con la politica, quella più torbida. Quella fatta di connection con i ras locali dei vari partiti, sia dell’arco costituzionale che quelli relegati ai margini del confronto dialettico, come appunto il Movimento sociale italiano, cui lui fece riferimento. È un capitolo molto interessante, dal quale emergono figure del calibro di Massimo Abbatangelo, o dei militanti della sezione missina “Berta” che in seguito confluirono nella formazione extraparlamentare di Avanguardia nazionale.
Quello che Misso descrive è il periodo che precedette il tentativo di Giorgio Almirante di fare il «colpaccio» a Napoli presentandosi alle elezioni amministrative, in una città dei paradossi nella quale la gente, oltremodo stanca del degrado e della criminalità, spesso era costretta a cercare un aiuto proprio nei camorristi che la angariavano.
Misso gioca dunque la carta politica e lo fa perseguendo un proprio disegno strategico che prevede, financo, l’uso strumentale della popolarità del calcio in città ai fini del consenso, cioè di qualcosa (il controllo delle tifoserie) che in anni successivi diverrà il focus per molti dei capi delle curve di nuova generazione.
«Ferlaino vattene, Juliano torna»
Chi scrive questa recensione ricorda bene quello striscione trainato da un aeroplano sopra lo Stadio San Paolo prima, durante e dopo la partita Napoli-Roma del 1983. La squadra di casa andava molto male, mentre quella della capitale si apprestava a vincere il suo secondo scudetto. Ai bordi del campo, prima del fischio di inizio sfilò in protesta una delegazione sindacale degli operai del complesso siderurgico della zona orientale della città: «L’Italsider non si tocca!», questo fu lo slogan che scandirono nel disperato tentativo di evitare la chiusura degli impianti.
Quel giorno il Napoli perse e alla fine della partita vennero scatenati dei tumulti. «Vennero scatenati», perché il malcontento e l’esasperazione di una tifoseria e di una città intera vennero sobillati da chi quella protesta voleva cavalcare.
E anche questo viene raccontato da Misso nel suo libro, come i tentativi, culminati nell’attentato dinamitardo contro la casa di Corrado Ferlaino, allora presidente della Società Sportiva Calcio Napoli, un’azione intimidatoria che lo avrebbe indotto a rassegnare le dimissioni dalla carica.
I molti perché di un libro
Sorgono spontanei, a questo punto, alcuni interrogativi: cosa spinge una persona come Giuseppe Misso a scrivere un’autobiografia, seppure nelle forme del romanzo? Giunto alla maturità ha voluto svuotare sé stesso da ciò che lo affliggeva? È un’opera del tutto casuale, magari scritta su consiglio di un editore, oppure egli intendeva rimarcare qualche aspetto ancora poco noto?
La risposta la può dare soltanto il suo autore, resta comunque il fatto che vale sicuramente la pena leggere “I leoni di marmo”, se non altro perché si tratta di un’opera che, con tutte le tare che su di essa vanno fatte, consegna al lettore una testimonianza accurata e senza sconti di quella realtà ormai lontana negli anni, inclusa la sua parte relativa al funzionamento della Giustizia italiana.
Nella lunga e articolata intervista con Valter Vecellio, a insidertrend.it quegli anni sono stati ripercorsi a fondo nel tentativo, non soltanto di ricordarli approfittando della recensione del libro, ma anche di metterli a nudo, evidenziandone le non poche distorsioni oltreché i misteri, che tuttora ammantano non poche vicende di allora, e che, per la verità, dall’autobiografia romanzata di Giuseppe Misso non traspaiono se non in minima parte.
autore: Giuseppe Misso
titolo: I leoni di marmo
editore: Milieu Edizioni
pagine: 319
ISBN: 9788831977685
prezzo: euro 16,90