Recentemente è stato reso noto il Documento di economia e finanza (Def), il primo del Governo Draghi. Esso presenta due evidenti discontinuità rispetto al passato, una nella forma e una nella sostanza.
Due evidenti discontinuità rispetto al passato
Riguardo alla forma perché negli ultimi anni il Def è stato quasi sempre presentato in ritardo rispetto al termine fissato, che è il giorno 15 di aprile. Il nuovo esecutivo ha invece reso disponibile il testo nella sua interezza già al mattino del 16 aprile.
La seconda discontinuità, quella sostanziale, va ricondotta ai suoi contenuti. Infatti, secondo il professor Mario Baldassarri – che, come di consueto, è intervenuto nel corso della trasmissione “Capire per conoscere” condotta dal giornalista Claudio Landi di Radio Radicale – sarebbero assenti tre elementi che, al contrario, hanno caratterizzato i Def precedenti.
«Nel Def del Presidente del Consiglio Mario Draghi e del ministro dell’Economia Daniele Franco non c’è una sovrastima delle previsioni di crescita dell’economia per gli anno successivi; in secondo luogo non c’è una sovrastima dell’inflazione. Si tratta di due elementi che portavano a un gonfiamento del valore nominale del prodotto interno lordo, quindi a una conseguente sottostima del deficit e, soprattutto, del debito pubblico, che aumentava di anno in anno in valore assoluto e in rapporto al Pil. Insomma, queste proiezioni indicavano una riduzione del debito nel corso degli anni a venire».
Il quadro della situazione economica italiana
Secondo Baldassarri, il quadro della situazione economica italiana che è stato fatto nel Def «è corretto e condivisibile». Egli ha poi aggiunto che per il periodo 2021-23 «il profilo che avevamo tratteggiato la settimana scorsa quando abbiamo presentato il Rapporto annuale del Centro studi economia reale è sostanzialmente analogo al Def di Draghi».
Tutto verterà sull’efficacia o meno dei provvedimenti che assumerà questo governo. Nel 2021 e nel 2022 si dovrebbe registrare una crescita del Pil pari al 4,5%, mentre il recupero del livello registrato nel 2019 si raggiungerà nel 2023, ovviamente, queste previsioni presuppongono un rapido ed efficace impiego dei fondi del Next Generation EU (Ngeu).
«Senza quei fondi non andremmo da nessuna parte – ha sottolineato Baldassarri -, tuttavia la differenza è che il Def si ferma al 2024, mentre l’orizzonte andrebbe posto al 2028, perché dopo l’impulso una tantum del Ngeu il tasso di crescita dopo questi primi due anni scenderà sotto al 2%, una discesa che, secondo le nostre previsioni, negli anni successivi è destinata ad accentuarsi».
Finché, finché, finché…
Insomma, il Paese tornerebbe a tassi da prefisso telefonico, cioè di poco sopra lo zero, «non possiamo dunque affermare che nel 2024 il tasso di disoccupazione e il debito pubblico saranno messi in sicurezza: il totale degli inoccupati si ridurrà una poco, ma tornerà ad attestarsi al 9%, livello sul quale poi si stabilizzerà».
A ridursi un poco sarà anche il rapporto debito/Pil, dal 160% raggiunto quest’anno (record dall’unità d’Italia a oggi) al 148% circa. Ma, ad avviso del presidente del Cser, stiamo vivendo una fase di precarietà garantita esclusivamente dalla concomitanza di alcuni fattori:
«Finché la Banca centrale europea continuerà ad acquistare titoli di Stato italiani, finché durerà la grande liquidità nel mondo, finché l’Unione europea manterrà sospeso il Patto di stabilità e dei parametri di Maastricht, finché i tassi di interesse resteranno a zero o poco sopra lo zero, beh, potremmo anche cavarcela, ma dobbiamo anche pensare che da qui a tre o quattro anni queste condizioni si modificheranno in qualche misura e, a quel punto, dovremo farci trovare a posto con la nostra finanza pubblica e anche nei termini del mercato del lavoro».
Le riforme strutturali, le grandi assenti
«Il Def Draghi-Franco – ha quindi concluso Baldassarri – incorpora positivamente l’impulso trasmesso dal Ngeu, ma non contiene le riforme strutturali di Fisco, Giustizia e Pubblica Amministrazione. Ora, è evidente che esse, che andranno realizzate tra il 2021 e il 2022, avranno un loro impatto nel medio-lungo periodo, perché agiscono sulla produttività totale dei fattori e sul potenziale di crescita, dunque sarà proprio attorno al 2024 che si potrà avere il “passaggio del testimone” tra l’impulso dei fondi europei, che in quella fase tenderà a esaurirsi, e quello generato dalle riforme strutturali, che determinandosi saranno in grado di sostenere la crescita. Soltanto così sarà possibile crescere mediamente del 2,5-3% fono al 2028».
A quel punto il tasso di disoccupazione dovrebbe essere sceso al di sotto del 7%, quindi a un livello quasi fisiologico «e, soprattutto, il rapporto debito/Pil, contenuto per effetto dell’impatto dei fondi europei, ma fortemente ridotto per effetto delle riforme strutturali, scenderebbe al 115%, una condizione molto più solida che permetterebbe di affrontare gli eventuali mutamenti di scenario provocati dall’oscillazione dei tassi di interesse e degli altri fattori destabilizzanti citati prima».