CANALE DI SUEZ, incidente Ever Given (1). Il «collo di bottiglia» egiziano resta bloccato, urgente dunque il ricorso ad alternative

Diverso, invece, sarebbe il caso di una vera e propria chiusura di lunga durata, che provocherebbe uno spostamento dell'asse dei traffici tagliando fuori i porti italiani e, più in generale, del Mediterraneo occidentale. Tuttavia, per riaprire il Canale di Suez potrebbero volerci anche settimane, poiché si dovrà sfruttare la prossima alta marea, quando l’alleggerimento della nave e l’azione dei rimorchiatori, unita al dragaggio del fondale attorno allo scafo, dovrebbero consentire la liberazione della portacontainer

Nel pomeriggio di domenica il numero delle navi in attesa dentro e attorno al Canale di Suez a causa dell’incagliamento della portacontainer gigante Ever Given era salito a 369 e tra esse ci sono anche venticinque petroliere. La nave era rimasta incagliata martedì scorso su una delle due sponde a seguito di una violenta tempesta di sabbia.

Nonostante i ciclopici sforzi profusi allo scopo di spostare la nave lunga 400 metri e larga 60, permane tuttora bloccato il «collo di bottiglia» costituito dallo strategico passaggio scavato tra il Sinai mediorientale e l’altra parte dell’Egitto, quella nordafricana.

Si tratta di una delle rotte commerciali marittime maggiormente praticate al mondo, che, per quanto concerne l’Italia, incide per 30,6 milioni di tonnellate di merci su un totale di 39,8 trasportate via mare, mentre a livello globale è pari al 10% del volume complessivo trasportato via nave e in questa percentuale sono inclusi i carichi di materie prime energetiche caricate su petroliere e gasiere salpate dai porti del Golfo Persico e dirette in Europa.

Il danno cagionato è enorme, ma potrebbe aggravarsi se le navi bloccate e quelle in attesa fuori dal canale dovessero cambiare la rotta ed essere costrette a circumnavigare l’Africa, con immaginabili lievitazioni di costi non soltanto per gli armatori, ma anche derivanti dai mancati approvvigionamenti dei mercati di destinazione dei prodotti imbarcati, specialmente di quelli elettronici.

Nello stretto canale, tuttavia «ancora in alto mare»

«Non possiamo determinare la data di fine della crisi», questa la sconsolata ammissione dell’ammiraglio egiziano Osama Rabie, presidente dell’Authority del Canale di Suez. «Non possiamo determinare un calendario per la fine della crisi» provocata dall’incagliamento della mastodontica porta container.

Infatti, era appena fallito l’ennesimo tentativo di sbloccare una delle principali arterie del commercio mondiale, ostruito dalla gigantesca portacontainer. E adesso? Adesso restano soltanto le dichiarazioni sull’avanzamento dei lavori, che auspicano un sblocco nell’arco di pochi giorni, «forse due» sussurrano i più ottimisti, ma non (almeno questo assicurano le autorità locali) «in settimane», come temuto in un primo momento.

Nel frattempo, alcuni armatori hanno già cambiato rotta, optando per il più lungo e costoso periplo dell’Africa, dodici giorni in più rispetto alla rotta di Suez. Ad esempio lo ha fatto MSC, che ha rivolto la prua di undici sue navi verso Capo di Buona Speranza, questo mentre altre otto portacontainer (due della Maersk) in giornata lo avevano già fatto.

Difficili operazioni di disincaglio

Sempre secondo Rabie, i lavori per disincagliare la nave sarebbero stati portati a termine per il loro 87% e il battello-draga che aveva iniziato a scavare il fondale del canale a cento metri di distanza dalla portacontainer ora si trova a quindici metri da essa. Lo scavo di pietre e sabbia che bloccano la chiglia ha raggiunto i quindici metri di profondità, quindi soltanto a un metro da quei sedici che, secondo l’Autorità del Canale, dovrebbero permettere alla Even Given di liberarsi.

Ma secondo Peter Berdowski – elemento di vertice di Boskalis, gruppo che controlla la società Smit Salvage impegnata nelle operazioni di disincaglio – potrebbero volerci anche settimane per riaprire il Canale di Suez, dato che dovrà essere sfruttata la prossima alta marea, quando l’alleggerimento della nave e l’azione dei rimorchiatori seguita a un dragaggio del fondale attorno allo scafo, dovrebbero consentire la liberazione della portacontainer.

L’incidente ha costretto alla sosta centinaia di navi di vario tipo che avrebbero dovuto raggiungere il Mediterraneo: cargo con bestiame a bordo, portarinfuse, altre portacontainer come quella di Evergreen arenatasi quattro giorni fa.

Da Washington il presidente statunitense Biden ha fatto capire che la US Navy avrebbe allertato una squadra di esperti in dragaggi da inviare in Egitto e attenderebbe solamente l’autorizzazione all’intervento da parte del Cairo.

Le preoccupazioni in Italia

La situazione nel Canale di Suez viene attentamente monitorata anche in Italia, dove gli operatori del settore valutano l’entità delle possibili ripercussioni di un blocco prolungato, che a detta di Paolo Emilio Signorini, presidente dell’Autorità portuale del Mar Ligure occidentale, assomiglierebbe «più a un ingorgo che a una vera interruzione», poiché «è solo una nave incagliata e stanno già lavorando, quindi non credo sarà una cosa lunga.

Diverso, invece, sarebbe il caso di una vera e propria chiusura di lunga durata, che provocherebbe uno spostamento dell’asse dei traffici tagliando fuori i porti italiani.

«Se Suez si fermasse per davvero – ha aggiunto Signorini – le navi passerebbero dal capo di Buona Speranza facendo il periplo dell’Africa e i grandi servizi con il naviglio più grande farebbero sosta solo nella Penisola iberica o, addirittura, esclusivamente in Portogallo, senza neanche passare dal Mediterraneo, ovvero entrando solo fino a Valencia e Barcellona, per poi far raggiungere gli altri porti, da Genova a Marsiglia, solo con navi feeder».

Questo significherebbe che quelle navi se ne andrebbero direttamente nel Nord Europa, «un po’ come si è in parte verificato a causa della pandemia – ricorda sempre Signorini -, quando gli armatori, grazie alla riduzione della stiva e al costo dei bunker basso, passavano da Buona Speranza».

Un pessimo scenario, che vedrebbe i porti del Mediterraneo occidentale perdere volumi di traffico e l’approdo delle grandi navi.

Gli armatori italiani delle due associazioni di categoria, Confitarma e Assarmatori, seguono dunque con attenzione l’evolversi della situazione.

Chi rischia di più

Il trasporto marittimo risulta oltremodo strategico per l’economia mondiale, poiché il 90% degli scambi in volumi e il 70% in termini economici si muove per mare, mentre il 12% di quanto trasportato ogni anno nel Mediterraneo transita dal Canale di Suez. Un «riscatto dello shipping», come ha sottolineato Mario Mattioli, presidente di Confitarma, che rinviene sulla sua medesima posizione anche Stefano Messina, presidente di Assarmatori.

Quest’ultimo non esorcizza i rischi insiti in questo blocco: «Se i tempi dovessero allungarsi sarebbe un problema, perché le compagnie di navigazione vedrebbero incrementati i costi e perderebbero i ricavi  a causa del fermo delle proprie navi», senza poi pensare ai ritardi nella consegna delle merci.

Se i terminalisti portuali italiani temono ritardi e cancellazioni degli arrivi, per i loro colleghi del Nord Europa, però, le conseguenze di natura economica dell’incidente di Suez potrebbero assumere dimensioni maggiori, dato che molte delle portacontainer bloccate sono dirette lì.

Verso un cambio di paradigma: siamo all’inizio della fine del «gigantismo navale»?

Infine, c’è chi riflette sull’opportunità di proseguire sulla strada del «gigantismo navale», giungendo alla conclusione che non si dovrebbero più costruire navi di certe dimensioni, anche perché – ma questa è una riflessione che ha a che vedere con la concentrazione dei grandi gruppi imprenditoriali – il gigantismo ha generato una contrazione del mercato del trade e del trasporto, portando in dieci anni dai diciotto operatori preesistenti ai tre cartelli, quindi, di fatto, a una situazione di monopolio.

Non solo. Gli Stati rivieraschi e i terminalisti in questi ultimi anni si sono dovuti impegnare in onerosi investimenti di migliaia di miliardi allo scopo di adeguare le loro infrastrutture portuali a queste navi mastodontiche.

Intanto, nella particolare situazione contingente c’è chi ne approfitta per proporre delle alternative alla circumnavigazione dell’Africa attraverso il lungo doppiaggio del Capo di Buona Speranza, proponendo il ricorso al trasporto aereo almeno per quei carichi time sensitive.

Si tratta delle opzioni esplorate da Maersk al fine di gestire nel miglior modo possibile le proprie spedizioni dall’Asia se il Canale di Suez permarrà impraticabile ancora a lungo.

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