TERRORISMO, la bomba a New Delhi. C’è una logica iraniana dietro l’attacco? Riflessioni su un attentato apparentemente pasticciato

Tempistica e modalità ingenerano dei dubbi: infatti, in questa particolare fase a Teheran un attacco terroristico su larga scala risulterebbe politicamente controproducente, poiché sta iniziando la delicata ripresa dei negoziati sull'accordo nucleare con l'amministrazione Biden. Tuttavia, questo non esclude che possa essersi trattato di un segnale lanciato a Gerusalemme. L’analisi dell’attacco e dei suoi precedenti in India fatta dal professor Ely Karmon dell’IDC di Herzliya

Fortunatamente l’esplosione avvenuta il 29 gennaio scorso nella capitale indiana non ha provocato né morti e né feriti, nessun danno all’edificio dell’ambasciata israeliana, ma soltanto danni ai parabrezza di diverse autovetture parcheggiate nei suoi pressi. Essa è stata causata da un ordigno improvvisato a bassissima intensità collocato fuori dall’edificio della rappresentanza diplomatica dello Stato ebraico, un attacco terroristico la cui paternità, sia le autorità indiane che quelle israeliane, riconducono con ogni probabilità all’Iran.

Minacce all’ambasciatore israeliano

In una nota scritta a mano in lingua inglese che è stata rinvenuta sul luogo dell’attentato, indirizzata all’ambasciatore Ron Malka, si ammoniva Israele rammentando che ci sarà una vendetta per l’uccisione del comandante della Forza Quds Qassem Soleimani e dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh.

La polizia indiana ha in seguito reso noto che in quella missiva minatoria i terroristi indicavano quell’attentato come il primo di una serie, minacciando direttamente il diplomatico: «Possiamo porre fine alla tua vita sempre e ovunque», si leggeva infatti in essa, specificando tuttavia che non era e non sarebbe stata in futuro loro intenzione fare «scorrere il sangue di persone innocenti» intorno a Malka, concludendo che «ora» gli israeliani si sarebbero dovuti preparare a «una grande e migliore vendetta per i nostri eroi».

La rivendicazione dell’attentato e le indagini

Da alcuni filmati effettuati dalle telecamere a circuito chiuso presenti nella zona dell’esplosione si è in seguito appurato che poco prima del fatto nei pressi dell’ambasciata da un taxi erano scese due persone, ma gli investigatori indiani devono ancora accertare se esse abbiano avuto un ruolo nell’attentato.

La polizia ha inoltre richiesto all’ufficio regionale di registrazione degli stranieri (FRRO) dettagli riguardo alla presenza a New Delhi e nei suoi paraggi di tutti i cittadini iraniani che hanno fatto ingresso nel Paese nell’ultimo mese. Finora sono state raccolte informazioni su coloro i quali hanno soggiornato negli hotel,  ma sono stati presi in esame anche quegli studenti indiani che hanno frequentato corsi nella Repubblica Islamica, tra i quali potrebbero essercene alcuni che operano in India in qualità di agenti per conto di Teheran.

Un altro indizio chiave che ha suscitato l’interesse degli investigatori è quello relativo a Jaish-ul-Hind, un gruppo islamista finora sconosciuto che ha rivendicato l’attentato su Telegram un’ora prima che l’esplosione si verificasse.

Imparare da questo pasticciato attacco terroristico

Se questo incidente viene considerato come un’operazione organizzata e posta in essere dai servizi segreti di Teheran, il modus operandi suggerirebbe allora che l’obiettivo principale potrebbe essere duale, di natura sia politica che psicologica: ingenerare timori persistenti di attacchi terroristici più gravi contro obiettivi israeliani ed ebraici in tutto il mondo per vendicare le due alte personalità iraniane eliminate di recente.

Secondo il professor Eli Karmon, esperto di terrorismo presso l’Interdisciplinary Center di Herzliya (IDC), con ogni probabilità l’operazione di New Delhi è stata portata a termine da un gruppo locale, i cui componenti non necessariamente possono avere avuto una reale conoscenza dei reali obiettivi prefissisi dai loro mandanti.

Inconsapevoli esecutori?

«Infatti – prosegue l’autorevole analista dell’istituto di ricerche israeliano nel suo articolo pubblicato oggi dal quotidiano “Jerusalem Post” -, sarebbe altrimenti difficile comprendere perché due persone che utilizzano un taxi, quindi un mezzo pubblico, siano state coinvolte in questo modo in un’operazione che avrebbe facilmente portato all’identificazione dall’autista, persona in grado di fornire successivamente i loro identikit alla polizia».

Non solo, il fatto che gli esecutori materiali siano degli sprovveduti e non conoscano le finalità dell’azione che hanno compiuto rende certamente più sicuri gli organizzatori dell’attentato poiché i primi non avranno molto da confessare al momento della loro cattura, magari anche alla certezza degli stessi loro reali mandanti.

Quindi gli iraniani potrebbero ufficialmente negare loro responsabilità in ordine all’azione dinamitarda.

Sorgono alcuni interrogativi

Tuttavia, a questo punto insorgono alcuni fondati interrogativi. Innanzitutto quello relativo alla tempistica e alle modalità dell’attentato, infatti, agli iraniani in questo momento, cioè all’inizio della delicata ripresa del processo negoziale sull’accordo nucleare con l’amministrazione Biden, agli iraniani risulterebbe politicamente controproducente un attacco terroristico di grandi dimensioni.

Inoltre, la tempistica potrebbe essere collegata all’anniversario dell’avvio delle strette relazioni diplomatiche tra India e Israele, risalenti a ventinove anni fa, un aspetto sottolineato dal quotidiano “Hindustan Times”.

In secondo quello sul luogo il luogo prescelto, l’India. Il Paese, malgrado le sue enormi contraddizioni interne, è una potenza mondiale in ascesa, conseguentemente l’impatto a livello internazionale di un evento terroristico del genere, compiuto con quelle precise modalità a «bassa intensità», risulta molto più forte che se, invece, fosse stato compiuto in una regione periferica dell’Asia o dell’Africa.

Al riguardo va poi ricordato che tra i cittadini dell’Unione Indiana figurano quasi duecento milioni di musulmani, tra i quali è presente una corposa minoranza sciita pari a circa ¼ del totale, la seconda più grande popolazione sciita dopo quella della Repubblica Islamica dell’Iran.

Infine, facendo riferimento alle precedenti esperienze in materia, nella sua analisi il professor Karmon esplora anche l’ipotesi che a Teheran i (presunti) organizzatori abbiano ritenuto di poter contare su indagini inconcludenti da parte delle autorità di polizia indiane.

I precedenti

Nell’immediatezza dell’attentato la stampa ha citato l’attentato all’autovettura dell’ambasciata israeliana a Delhi compiuto il 13 febbraio del 2012, nel quale rimase gravemente ferita la moglie dell’addetto militare dello Stato ebraico e altre tre persone. In quel caso un motociclista collocò un ordigno esplosivo magnetico alla macchina e poi si allontanò.

Secondo Karmon, si trattò di qualcosa di simile a quanto avvenuto il mese prima in Azerbaijan, a Bangkok e in Georgia, dove però l’attentato venne sventato. Medesimo, infatti, fu il modus operandi. Tre settimane dopo, il 6 marzo, per quell’attentato la polizia di Nuova Delhi arrestò il giornalista indiano Syed Mohammed Ahmad Kazmi, un musulmano sciita che collaborava con l’agenzia di stampa iraniana IRNA e con la radio iraniana, oltre a essere un editorialista per alcune testate giornalistiche in lingua urdu molto diffuse nel Paese.

Allora gli inquirenti risalirono a tre agenti iraniani implicati nell’attentato: Houshan Afshari Irani, Seyed Ali Mahdiansadr e Mohammadreza Abolghasemi, di questi, secondo le indagini, Kazmi aveva ricevuto un compenso di 5.500 dollari a fronte dell’assistenza fornita a Irani.

La mano dei Pasdaran

Il tribunale indiano emise a carico dei tre cittadini iraniani dei mandati di arresto. Di Irani, che si era recato a New Delhi due volte prima di allontanarsi per andare in Malesia, si scoprì che era stato in contatto con Masoud Sedaghatzadeh, uno dei sospettati per l’attentato in Thailandia. Dunque, le conclusioni degli inquirenti indiani furono che l’attacco era opera dei Pasdaran, il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione iraniana.

Syed Mohammed Ahmad Kazmi venne invece rilasciato su cauzione sette mesi dopo, mentre degli altri componenti la cellula terroristica soltanto uno venne in seguito arrestato, si trattò di Sedaghatzadeh, che venne catturato dalle forze di sicurezza malesi.

Un attentato che per certi suoi aspetti sembrò contraddittorio, poiché venne compiuto in una fase nella quale l’India, bisognosa di materie prime energetiche, nonostante l’embargo internazionale decretato contro l’Iran, si stava sforzando di ottenere maggiori forniture di greggio dagli ayatollah, un incremento pari a 550.000 barili al giorno, inducendo alcuni istituti bancari della Repubblica Islamica ad aprire filiali in India allo scopo di porre in essere transazioni dirette.

Dei ricercati per l’attentato del febbraio 2021 però nessuna traccia, su questo piano la collaborazione tra i due Stati non andò molto avanti.

Le cose cambieranno?

Le cose cambieranno? È l’interrogativo posto dall’analista dell’IDC di Herzliya al termine del suo intervento sul JPost, al quale ha tentato di fornire una risposta riprendendo un commento precedentemente espresso da Vidyanand Shetty sul “Times of India” il giorno 30 gennaio.

«L’Iran non può usare L’India per i suoi giochi sporchi – aveva egli tuonato dalle colonne del quotidiano indiano -; essi (i terroristi, n.d.r.) sono potuti sfuggire alla punizione nel 2012 perché avevano dalla loro parte un governo amico, ma ora le cose sono cambiate, perché questo è un atto di terrorismo contro l’India e non contro Israele», Shetty aveva quindi aggiunto che il governo indiano dovrebbe rilasciare una dichiarazione decisa al riguardo.

Il primo ministro indiano Narendra Modi ha condannato fermamente l’attacco terroristico del 29 gennaio scorso compiuto presso l’ambasciata israeliana a Nuova Delhi e si è inoltre impegnato a catturare e punire i responsabili. A Gerusalemme auspicano però che il governo indiano possa finalmente richiamare l’Iran all’ordine.

Condividi: