COLD CASE, omicidio Pedron. A molti anni di distanza ancora nebbia sul barbaro assassinio della ragazza e sulla setta del Pordenonese: c’è una chiave di lettura di questo omicidio? Chissà, magari qualche segno …

Dei criminali sono ancora in libertà. Sono quelli che l’8 febbraio del 1988 ammazzarono una ragazza. Girano tranquilli e impuniti per la strada, conducono sereni le proprie esistenze private, ritenendo forse in cuor loro di essersi addirittura emendati in chissà quale maniera dalla grave colpa della quale si sono macchiati. Ma sbagliano di grosso. La loro orrenda colpa è indelebile e nessun lavacro, neppure quello dell’oblio e delle complicità, potrà mondarli

LA PROVINCIA DAGLI OCCHI DI VETRO

L’aberrazione e il dominio della setta.

L’omicidio di Annalaura Pedron

IL FATTO

Pordenone, 2 febbraio 1988

Colpevoli negligenze

 

I PROTAGONISTI

La vittima

Il sospettato numero uno

Il condominio di via Revedole 3

Laura e Silvia

Il santone, tra delirio e proselitismo

 

LA SETTA

Un disperato bisogno di risposte

Il Cenacolo dei 33

Gli adepti: scudo e spada del “maestro”

Lucida follia e rappresentazioni grottesche

Jeshar, le donne e i soldi

I dubbi di Eviana

 

LA CURIA PORDENONESE

Santa Madre Chiesa e gli apostati di Portogruaro

 

L’INCHIESTA GIUDIZIARIA

Indagini, polvere e faldoni

«L’assassino è sicuramente mancino»

L’irruzione alla villa-tempio e i depistaggi 

Il vacillante alibi del “santone”

La triste fine dell’ancella

                                                                                                     

EFFETTO DOMINO                                                                                                                                                            1991-1994: si aprono le prime crepe nella setta

Sesso e dominio: le adepte nella paura

Esshalj fugge dalla setta

Don Chino, l’improvvisato accusatore

1995, archiviazione del caso

 

IL DNA DELL’ASSASSINO

Facce nuove in Questura

2009, il processo di Trieste

 

EVIANA HA RAGGIUNTO LA DIMENSIONE ASTRALE

I silenzi

Il mancato blitz

Una casa, un vuoto

 

APPENDICE

Il santone

L’orologio astrale

La lingua Jeshaeli

I simboli incisi 

***

Degli assassini sono ancora in libertà. Sono quelli che l’8 febbraio del 1988 ammazzarono barbaramente una ragazza. Girano tranquilli e impuniti per la strada, conducono sereni le proprie esistenze private, ritenendo forse in cuor loro di essersi addirittura emendati in chissà quale maniera dalla grave colpa della quale si sono macchiati. Ma sbagliano di grosso. La loro orrenda colpa è indelebile e nessun lavacro, neppure quello dell’oblio e delle complicità, potrà mondarli.

A quarant’anni di distanza dal suo assassinio Annalaura Pedron non ha ancora ricevuto giustizia. Le colpe sono di molti, le inerzie e gli sbagli pure. Ma adesso è giunto il momento di fare davvero chiarezza. Un solo responsabile di quell’omicidio è stato individuato. Dopo tanti anni gli si è potuto dare un nome e un cognome, e questo solo grazie alla professionalità e alla tenacia di alcuni poliziotti della Squadra mobile di Pordenone che riaprirono, non senza difficoltà, quel caso. Tuttavia, quell’assassino per le leggi italiane non è punibile in quanto minorenne al momento in cui partecipò alla commissione del fatto delittuoso.

I fatti narrati in questo libro sono accaduti realmente a Pordenone e nei suoi dintorni, una città allora in rapido sviluppo che aveva conquistato un elevato livello di benessere. Veri sono i protagonisti e le altre persone coinvolte a vario titolo nella tragica vicenda. Prima che l’oblio cali definitivamente su di essa è doveroso rianalizzare i fatti alla luce degli elementi che in precedenza per dolo o per mera negligenza non vennero adeguatamente considerati. L’intenzione è di giungere finalmente alla verità. Una verità vera, e non prefabbricata in maniera posticcia da propinare all’opinione pubblica.

La firma dei carnefici era agevolmente leggibile sulla carne della ragazza trovata morta accanto al bimbo piangente nella culla, all’interno di un appartamento di un condominio borghese. Perché non lo si è fatto? Eppure i codici dei malvagi erano oltremodo evidenti, poiché firmarono in modo chiaro e inequivocabile anche quel barbaro delitto.

Ma quale orrenda e ripugnante colpa poté aver mai commesso Annalaura Pedron per meritare tale orribile supplizio?

Per comprenderlo sarà necessario andare al fondo di questa triste storia, inoltrandosi nei dettagli più scabrosi e perversi.

La vicenda incrociò i destini di numerosi protagonisti della Pordenone di allora, parte del ceto abbiente formatosi in una terra fino a pochi anni prima ancora povera e di emigrazione, divenuta poi rapidamente ricca. Gente dolorosamente segnata dal trauma di un terremoto devastante, sopravvissuta alla catastrofe con in dote un’immensa voglia di vivere. Ma anche uomini poveri di spirito trovatisi improvvisamente alla ricerca di certezze che la Chiesa cattolica non era più capace di fornire. Ed ecco allora insinuarsi nelle coscienze di tutte queste persone il falso verbo di un individuo furbo e spregiudicato, che approfittando della debolezza altrui edificò gradualmente il suo piccolo ma pregnante sistema di potere. Egli, attraverso di esso, oltre al dominio fisico e mentale sui propri adepti, ottenne anche un’agiatezza economica mai goduta in precedenza.

Un  microcosmo, questo alla fine fu la setta Telsen Sao. Una conventicola di illusi da uno scaltro manipolatore di menti e di coscienze, adepti che credettero di partecipare al cenacolo di un essere superiore e predestinato. Una grottesca aggregazione che avrebbe però generato effetti maligni.

Il caso Pedron è quello che oggi si definirebbe un cold case. L’omicida infatti è ancora in libertà e dunque si è di fronte a una negazione di giustizia. Molti sono i responsabili di questo fallimento, ma la verità sarebbe comunque emersa in seguito. Una verità contestata e non creduta dai molti che mai vollero accettare le evidenze dei fatti e delle confessioni di quelle adepte che solo sei anni dopo l’omicidio trovarono la forza di uscire dalla terribile creatura costruita nel tempo dal “santone”.

Rappresentare a molti anni di distanza il contesto nel quale avvennero i fatti e le zoppicanti dinamiche dell’inchiesta giudiziaria che ne seguirono, questo è lo scopo di questo libro. Non certo quello di alzare il velo sulle debolezze personali dei protagonisti della vicenda né tanto meno quello di fare “colore”.

Gli atti dell’inchiesta giudiziaria sono pubblici, dunque alla portata di chiunque voglia prenderne visone per documentarsi sulla drammatica fine di Annalaura Pedron.

IL FATTO

Pordenone, 2 febbraio 1988

Una grigia giornata invernale come tante altre. Quel mattino di inizio febbraio, giorno della candelora, il maltempo era tornato ad abbattersi improvvisamente sul Friuli. Pioggia e freddo. Un sensibile calo delle temperature e, per la felicità degli operatori turistici, a partire dai rilievi più bassi era venuta giù abbondante anche la neve. Uno sbalzo climatico in controtendenza rispetto all’ultima fase di quella stagione, che nel gennaio appena trascorso era stata mite seppure umida e piovigginosa. Nel corso della mattinata comunque erano attese parziali schiarite. A Trieste era giunto in visita Giovanni Goria, una presenza importante quella del Presidente del Consiglio dei ministri, poiché si celebravano i primi venticinque anni di autonomia regionale.

Anche in città era tutto normale come sempre. La solita quotidianità scandita dai consueti ritmi: automobili in transito che formavano un po’ di traffico attorno al centro storico, esercizi commerciali che da un paio d’ore avevano aperto i battenti, i ragazzi a lezione nelle scuole. Poco fuori, sulla Pontebbana, il consueto via vai di corriere celesti, autotreni austriaci e tedeschi e colonne di mezzi militari dell’Esercito. Di tanto in tanto anche qualche grosso trattore, che impegnava la carreggiata rallentando il traffico dopo che aveva sconfinato dalla stradina laterale, una delle tante che, attraversata la prima e seconda schiera di capannoni industriali, conduceva diritta alle coltivazioni. Sullo sfondo, imponenti, le montagne coi loro avamposti prealpini. Rocce rivolte verso la pianura stepposa solcata da fiumi e torrenti tanto impetuosi durante le piene, quanto pietrosi quando l’unica acqua che vi scorre è quella del canale di magra. Una pianura sempre più antropizzata, sfruttata fino all’ultimo ettaro sia dagli agricoltori che da quegli imprenditori di un Nordest lanciato verso una crescita apparentemente senza limiti. Ormai non esisteva più soluzione di continuità tra arativo e città, tutto veniva tenuto insieme dalla quasi totale saturazione del territorio. Capannoni industriali e aziende commerciali che affiancavano la statale fino a Udine e oltre.

Proprio in quelle aspre e belle montagne, tra la Valle del Lago e Gemona, il giorno prima era stato localizzato l’epicentro di un sisma. Quattro scosse, iniziate poco dopo mezzogiorno e proseguite fino alle tre, avevano interessato anche Pordenone e la bassa friulana. Fortunatamente solo forti sussulti e nessun danno. Un grosso spavento seppure le scosse fossero state percepite principalmente da chi si trovava nella zona delle Grazie. Si era trattato del primo vero terremoto dopo quelli devastanti del 1976, una sorta di atteso e temuto collaudo degli edifici e delle strutture realizzate con la ricostruzione, costruzioni che avevano superato la prova benissimo.

Nel 1988 la periferia di Pordenone non era poi così grande, consisteva soltanto di alcuni agglomerati di edifici realizzati per lo più in anni recenti, decorosi e anonimi nel loro ordinato essere all’interno dell’ultimo piano regolatore approvato dal consiglio comunale. Come le palazzine affacciate su via Colvera, una strada poco trafficata dove solitamente passava poca gente Il rarefatto andirivieni degli inquilini residenti, qualche affrettato cliente del piccolo supermercato sulla piazza e alcune vecchiette che se ne vanno tranquille a pregare nella chiesa del Sacro Cuore, il moderno tempio in cemento armato all’angolo.

Via Colvera 4, uno di quei condomini. Inaspettatamente il campanello dell’appartamento al quarto piano dello stabile trillò. Annalaura Pedron, la baby sitter assunta dai coniugi De Gottardo, proprietari dell’abitazione, non si aspettava visite. Lei in quella casa ci lavorava e basta, chi mai avrebbe potuto essere a quell’ora del mattino quando in casa i genitori del bambino di un anno che accudiva erano assenti?

(segue la ricostruzione plausibile fatta sulla base degli elementi disponibili)

– La ragazza si interrogò assalita da un velo di inquietudine, pensò che potesse trattarsi di qualche conoscente della signora…  oppure chi?

Si avvicinò con prudenza alla porta d’ingresso.

«Chi è?» – domando osservando attraverso lo spioncino di cristallo il pianerottolo antistante l’uscio.

«Dai Eviana apri – fu la risposta di quelli che stavano fuori -, chi vuoi che sia… siamo noi no!?!»

Riconobbe subito quella voce, le era familiare, era di un giovane che frequentava il suo stesso gruppo, un adepto della setta. Sebbene infastidita dall’inattesa e inopportuna presenza aprì comunque la porta.

«Perché siete venuti? – esclamò con marcato disappunto – Che non lo sapete che io qui ci lavoro!?! E se adesso arriva la madre del bimbo e vi trova in casa cosa le racconto?»

«Calma, calma – replicò con un tono tra il severo e il piccato il più grande dei visitatori nel tentativo di tacitarla -, lo sai benissimo che se hai trovato questo lavoro il merito non è tuo, ma è tutto nostro, che ci stai tradendo…»

«Stai tradendo tutti noi!» – aggiunse adirato l’adepto più giovane.

Quella appena letta , come detto è una ricostruzione di fantasia, tuttavia non dovrebbe discostarsi troppo da come, in concreto, quel mattino si svolsero i fatti. È da qui che bisogna partire per comprendere meglio quel delitto rimasto impunito, per ricondurne l’ambito e le responsabilità personali nell’ambiente che la vittima aveva assiduamente frequentato, ma dal quale, scopertane le devianze e i plagi, decise poi di abbandonare: la setta Telsen sao.

La ventiduenne Annalaura Pedron aveva raggiunto l’appartamento dove lavorava intorno alle otto e mezza, ora in cui l’architetto Marina Giorgi – padrona di casa e madre di Andrea, il bambino di una anno accudito in sua assenza dalla vittima – stava per lasciare la propria abitazione per accompagnare l’altra sua figlia all’asilo e infine recarsi al lavoro. Solitamente la Pedron si spostava in bicicletta, percorrendo l’itinerario che separava casa sua, sita nell’elegante condominio di via Revedole 3, dal luogo dove lavorava. Tuttavia, quel mattino nell’autorimessa trovò uno dei pneumatici della sua bicicletta sgonfio, quindi per raggiungere via Colvera dovette servirsi dell’autobus.

Quando suonò il campanello dell’appartamento, aprì la porta a persone che conosceva e delle quali si fidava, altrimenti non si sarebbe comportata in quel modo. Da quel momento a quello del suo decesso trascorsero dai venti ai trenta minuti. Ma cosa accadde in quella casa al quarto piano?

L’ipotesi maggiormente plausibile è che a uccidere la ragazza furono almeno in due. Una volta entrati gli assassini fecero di tutto per metterla a suo agio, volevano farle superare al più presto lo stupore iniziale derivante da quella visita inaspettata. La fecero rilassare e il suo stato di tensione calò, con esso anche le difese istintive, la ragazza ebbe così meno contezza o, addirittura, non intuì minimamente il pericolo imminente. Fu allora che gli assassini passarono all’azione. Dopo una discussione durata alcuni minuti, aggredirono la vittima: quello che si trovava di fronte a lei la bloccò, mentre l’altro, il più robusto del gruppo, le cinse il collo afferrandola alle spalle. Si servì di un nastro adesivo telato di colore nero, che funse da cingolo per il soffocamento: l’aggirò ed estrasse dalla tasca il cappio di plastica che aveva preparato e fulmineamente glielo passò attorno al collo tenendolo stretto tra una mano e l’altra, poi esercitò una trazione verso l’alto e la strozzò.

La ragazza cercò di divincolarsi però venne egualmente sopraffatta. Non ebbe scampo. Gridò disperatamente per attrarre l’attenzione dei vicini di casa, ma soffocata dal laccio, riuscì solo a emettere dei rantoli soffocati. Il boia non mollò la presa, anzi, strinse il collo sempre più forte. Annalaura venne meno. Il respiro affannato e il ridotto afflusso di sangue le fecero mancare le forze. Una presa del genere normalmente non concede troppo tempo alla vittima, in pochi secondi la mente si annebbia e la vittima sviene.

Tuttavia la ragazza riuscì egualmente per l’ultima volta a muoversi per liberarsi e nel farlo inciampò facendo cadere in terra una lampada. Con le forze residue reagì agitando braccia e mani, tentò di allentare il laccio che le stringeva il collo ma venne  impedita da chi davanti a lei la tratteneva. Un aspetto fondamentale che nelle prime fasi dell’inchiesta non ricevette adeguato rilievo, nonostante fosse stato immediatamente desunto dal necropata che esaminò il cadavere, oltreché dagli inquirenti che intervennero sulla scena del delitto. A uccidere Annalaura Pedron furono almeno due persone, probabilmente (ma non è detto) entrambe di sesso maschile: un uomo la immobilizzò impedendole di reagire e l’altro la strangolò. Nella furibonda colluttazione uno di essi si ferì e perse del sangue, che macchiò indelebilmente la zona circostante.

Lo stesso medico legale che effettuò l’autopsia (il dottor Giovanni Del Ben dell’Ospedale Santa Maria degli Angeli di Pordenone) stimò che per porre fine alla vita della vittima occorsero almeno quattro minuti. Un lasso di tempo lunghissimo in situazioni del genere. Per quattro interminabili minuti Annalaura Pedron combatté disperatamente per sopravvivere, ma alla fine, stremata, perse conoscenza e si accasciò.

Per lei era finita. Il suo corpo sussultò per un’ultima volta, infine emise un gemito. Gli assassini fraintesero quello spasmo, ritennero che potesse opporre ancora una reazione e allora le dettero il colpo di grazia. Afferrarono un cuscino dal divano che si trovava accanto e lo premettero con determinazione sul volto della malcapitata. Per farlo, l’individuo che si trovava dietro dovette necessariamente cambiare posizione per porsi di fronte a lei, o molto più probabilmente sopra di lei, e premere con forza sino ad avere certezza che in quel corpo non ci fosse più vita. Il delitto era compiuto.

Poi nei minuti che seguirono accaddero alcune cose. Non è chiaro cosa, poiché gli assassini, guidati forse da una terza persona intervenuta nell’appartamento in un secondo momento, rappresentarono una messa in scena sul luogo del crimine.

   Il cadavere venne spostato da dove si trovava e posto sopra un tavolino all’angolo della stanza. Lì venne successivamente vilipeso. Gli assassini non agirono in modo casuale e sbrigativo così come avrebbero fatto dei balordi in preda al panico, al contrario, si comportarono come in un macabro rituale. Secondo la prima ricostruzione della polizia si servirono di un coltello trovato in cucina col quale provarono a infierire sul cadavere provocandogli alcuni tagli al collo e sotto al seno. Ma quella lama non era in grado di recidere adeguatamente la pelle e, siccome quei tagli dovevano essere estremamente precisi, fecero ricorso a un “bisturi di fortuna”, una delle schegge di cristallo prodotte della rottura della lampada. Così incisero a sangue nella carne della vittima un messaggio scritto in caratteri criptici.

A chi era diretto quell’inquietante messaggio? Beh, lo avrebbe potuto leggere e decrittare solo chi conosceva alfabeti segreti, quale un appartenente a un cenacolo di esoterici in possesso della padronanza dei significati ricollegabili a quei segni.

Si è trattato dunque di una simbologia utilizzata per rendere suggestivo quell’omicidio? E a chi? Agli inquirenti che di lì a poco sarebbero intervenuti a sirene spiegate, oppure a qualche sconosciuto microcosmo agli assassini afferente?

Ma, spesso il meglio è nemico del bene, e a esagerare a volte si commettono degli errori. Alla vittima vennero calati fino alle caviglie i pantaloni e la maglietta che quel giorno indossava venne alzata sopra il seno lasciandolo scoperto.

Una volta praticati i tagli qualcuno con uno straccio cercò di ripulire la zona circostante e gli oggetti utilizzati per uccidere dalle tracce ematiche, mischiando però maldestramente il sangue appartenenti a persone diverse.

Prima di abbandonare l’appartamento gli assassini sollevarono la cornetta del telefono. Da lì non venne sottratto nulla, cosa che induce a ritenere che l’obiettivo dei criminali fosse quindi esclusivamente la povera Annalaura.

A distanza di decenni una sola persona è stata perseguita, tuttavia non ha mai ricevuto condanne, si tratta di David Rosset, che all’epoca dell’omicidio era minorenne, quindi per la legge italiana, quando nel 2009 si svolse il processo a suo carico non era più giudicabile, perché nel frattempo il reato a suo carico si era ormai prescritto.

La Giustizia non funzionò, gli errori commessi in passato furono molti e determinanti. Inoltre sulla vicenda permangono ancora ampie aree di omertà.

Però, Rosset non poté agire da solo quel mattino. Solo violentando la logica ci si potrebbe accontentare di un verdetto che lascia impuniti complici ed eventuali mandanti. Tuttavia, oggi è possibile affermare che quel brutale assassinio e il successivo vilipendio del cadavere della vittima maturarono all’interno di una congrega di adepti dagli occhi di vetro che si riuniva periodicamente in un tempio. I segni marchiati a sangue dai carnefici sulla pelle di Annalaura sono inequivocabili: essi conducono alla setta.

Colpevoli negligenze

     Purtroppo accade non infrequentemente che il mancato “congelamento” della scena del crimine da parte degli operanti intervenuti sul posto costituisca un primo e a volte decisivo fattore d’inquinamento di un’inchiesta. Accadde anche nell’appartamento di via Colvera 4. I poliziotti della Questura e prima di loro il vigile del fuoco che entrò nella casa dalla finestra si mossero maldestramente provocando la difficoltosa lettura, se non addirittura la cancellazione, di alcuni importanti elementi di prova o, comunque, utili a una positiva prosecuzione delle indagini. A cominciare dall’apparecchio telefonico utilizzato dal vigile del fuoco per chiamare la sua centrale operativa quando si rese conto della presenza di un cadavere, poi anche dalla maniglia della porta d’ingresso.

   La signora Marina Giorgi aveva fatto ritorno a casa intorno a mezzogiorno e mezza e, dopo aver provato ripetutamente a suonare il campanello senza ottenere alcuna risposta dalla baby sitter e sentendo provenire dall’interno i vagiti lamentosi di suo figlio, si allarmò. Intuì che dietro quella porta chiusa doveva essere successo qualcosa di grave, chissà, magari Annalaura era stata colta da un malore. Chiese aiuto ai Vigili del fuoco e in breve una squadra giunse sul posto. Uno dei vigili riuscì ad accedere nell’appartamento attraverso il balcone di un vicino dei De Gottardo forzando una finestra. La scena che gli  si presentò fu raccapricciante. Nel soggiorno trovò la ragazza morta assassinata. Fortunatamente il piccolo Andrea era rimasto nel suo lettino, non poté scendere poiché le sbarre di protezione laterali erano state alzate. Annalaura non aveva fatto in tempo a cambiare il piccolo sostituendogli il pannolino e mettendogli un pigiamino pulito. Il bambino dormiva, lei non lo svegliò, venne uccisa prima di farlo.

A partire da qui le cronache della stampa locale in parte divergono da quella che fu la reale dinamica di intervento degli investigatori. Infatti, la scena del crimine non divenne affatto «off-limits per tutti», come scrissero i giornali, «riempita di poliziotti, col dottor Oreste Teti della Squadra mobile, la scientifica al lavoro e il sostituto procuratore Matteo Stuccilli, che assieme al medico legale Giovanni Del Ben effettuavano il sopralluogo esterno del cadavere…». Assolutamente no. Quell’appartamento non venne isolato per niente, neppure il soggiorno dove giaceva la ragazza uccisa, in quanto si verificò un turbinoso via vai di persone estranee che lì dentro si mossero a loro piacimento, compresa la troupe televisiva di Tele Pordenone. Di conseguenza non vennero cristallizzati a sufficienza gli elementi utili a un’indagine così delicata che erano ancora presenti in quegli ambienti.

La scena del delitto venne alterata con effetti deleteri sul successivo svolgimento delle indagini, che vennero così avviate sulla base di presupposti errati. Un grave handicap al quale si aggiunse poi anche una dose di incompetenza e scarsa professionalità di parte degli investigatori impegnati nel caso. È da questo momento che iniziarono a commettersi tutta una serie di errori, azioni incredibili, un deleterio combinato composto che avrebbe contribuito ad allontanare sempre di più dalla verità. Senza dubbio il vizio risiede a monte dell’inchiesta, le alterazioni della scena del delitto non consentirono in seguito un’analisi adeguata. È sicuramente vero che nel 1988 la ricerca delle prova di colpevolezza tramite il DNA non era ancora praticabile, tuttavia il quadro che si presentò agli inquirenti in via Colvera fu potenzialmente in grado di raccontare verità “altre” rispetto a quelle ufficiali diffuse in seguito all’opinione pubblica mediante i mattinali della questura.

   Il primo a inquinare la scena del delitto fu, suo malgrado, il vigile del fuoco che forzò la porta finestra dell’appartamento per accederne all’interno. Nonostante avesse rinvenuto un cadavere aprì egualmente la porta d’ingresso della casa senza provvedere di indossare prima un paio di guanti, lasciando così le proprie impronte digitali impresse sulla maniglia e sulle altre superfici, che inevitabilmente si confusero con quelle lasciate gli assassini.

   Ma non basta. Il telefono dell’appartamento venne rinvenuto con la cornetta appoggiata al di fuori della sua sede. Ebbene, furono i vigili del fuoco ad avere cura di riagganciarla, utilizzando però subito dopo quello stesso apparecchio per chiamare la questura. Questo non solo provocò la confusione con altre eventuali impronte lasciate dagli assassini, ma pregiudicò anche la possibilità di risalire  all’utenza contattata nell’ultima chiamata effettuata, una telefonata che con buone probabilità era stata effettuata da uno degli assassini (questo nonostante all’epoca gli apparecchi telefonici fossero analogici e le tecniche di investigazione molto più limitate rispetto a oggi).

Poi, qualcuno dei presenti, non è chiaro neppure stavolta se la padrona di casa o uno dei vigili del fuoco, si recò in cucina perché aveva sete. Lì, trovò due bicchieri nel lavabo e per bere dell’acqua ne prese in mano uno, poi, dissetatosi, li sciacquò tutti e due cancellando così ulteriori possibili fonti di prova.

   I primi poliziotti delle volanti che intervennero furono gli agenti Pezzullo e Da Ros, raggiunti poco dopo da altro personale in forza alla Mobile e alla Scientifica. Nel giro di trenta minuti all’interno di quell’appartamento furono presenti più di dieci persone, che con i loro movimenti alterarono gravemente tutto. Come accennato, a creare confusione contribuirono anche i giornalisti, che grazie a una soffiata partita dalla questura si recarono in via Colvera e vennero fatti entrare nell’appartamento con le telecamere. La troupe di Tele Pordenone – tre persone: il cronista Gigi Di Meo, l’operatore video e il fonico – effettuarono delle riprese filmate col cadavere che non era stato ancora rimosso, facendosi largo tra i presenti, cioè a dire tra i poliziotti che stavano effettuando i rilievi del caso.

Il magistrato di turno, giunto intorno alle quattordici, già dalla soglia d’ingresso, notando tutta quella gente che dentro armeggiava affermò sconsolato: «Io qui non servo più».

Infine, ciliegina sulla torta, non si procedette neppure al recupero delle possibili tracce presenti sotto le unghie della vittima.

Il cadavere della Pedron stava poggiato sulla schiena sul tavolinetto, con la lingua protesa al di fuori dalla bocca a causa del soffocamento, il viso leggermente gonfio, gli occhi spenti e i capelli spettinati. Il medico che effettuò l’esame autoptico ricondusse l’ora del decesso tra le nove e le dieci, mentre l’oggetto usato per strangolare la ragazza (il nastro adesivo) fu la prova dell’inequivocabile predeterminazione dell’omicidio.

   L’autopsia sul cadavere della vittima venne eseguita dal dottor Giovanni Del Ben, necropata presso l’Ospedale di Santa Maria degli Angeli a Pordenone.

La Pedron venne strangolata alle spalle con un laccio mentre era seduta, con ogni probabilità colta di sorpresa e sollevata di peso. Cercò disperatamente di liberarsi dalla stretta degli assassini, ma quello davanti a lei la immobilizzò trattenendola per le mani. David Rosset. Fu allora che il giovane si sarebbe procurato le ferite alle braccia. Nei primi dieci secondi dell’aggressione, quando una ragazza atletica come la Pedron era ancora in grado i opporre resistenza prima di soccombere. Non poté che essere un individuo forte a strangolarla, un adulto, che indossando i guanti usò con entrambe le mani il nastro di plastica piegato. Uno che era nelle condizioni di stringere il cappio fino ad alzare la vittima da terra.

Il cuscino venne posto sul volto di Annalaura dopo il suo decesso. È presumibile che l’ultimo spasmo della ragazza abbia indotto gli assassini a ritenere che ella fosse ancora viva, di conseguenza, per non avere dubbi, gli premettero sul volto il cuscino per soffocarla. È per questa ragione che il suo corpo, ormai completamente rilassato, da quest’ultima azione ebbe prodotte le fratture di alcune vertebre.

All’inizio dell’inchiesta il dottor Del Ben ventilò esplicitamente l’ipotesi che l’assassino potesse essere uno scacchista, «una mente tutto sommato raffinata», affermò una volta, rispondendo a una domanda che gli aveva posto Pietro Pagnes, il fidanzato della vittima, a quel tempo sospettato numero uno dell’omicidio. Infatti, il giovane fidanzato della Pedron lo aveva interpellato per chiedergli spiegazioni più dettagliate riguardo alla dinamica dell’omicidio, le medesime dichiarazioni che, essendo l’interlocutore oltreché medico legale anche maestro nazionale di scacchi, rilasciò in seguito anche alla stampa.

Uno scacchista. In effetti nella cerchia del “santone” di quella strana setta figurava anche uno scacchista adulto, una persona molto vicina al leader, tanto da unirsi in matrimonio con sua figlia: Giuseppe Garlato. L’adepto dell’inner circle del “maestro” Renato Minozzi, rientrava quindi potenzialmente nel novero dei sospettabili.

Perché proprio un giocatore di scacchi? La spiegazione fornita fu che la sequenza dei simboli incisi nella carne martoriata della vittima, la disposizione del suo cadavere e alcuni altri elementi rimandavano alle logiche depistatorie proprie degli scacchisti. Questi, infatti – ritenne Dal Ben -, indirizzando l’avversario in un vicolo cieco ne avrebbero poi potuto rendere impossibile l’uscita. Proprio come in una partita a scacchi, dove vince sempre colui che crea l’apertura, ma, in quel caso l’avversario erano gli inquirenti della Procura della Repubblica.

Chi apre il varco. Apparentemente, dunque, una mente raffinata. Inoltre, era stato sempre il Garlato a collocare la Pedron nel mondo del lavoro trovandole un posto part-time come  baby sitter presso i De Gottardo.

(1 – continua)

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