XXX
Rientrando in macchina da Udine superò il paese di Dignano che erano da poco trascorse le quattordici.
Lungo il ponte sul Tagliamento procedette adagio per godersi il panorama. Voltò lo sguardo alle montagne scorgendo per un istante l’ampio letto ghiaioso del fiume coi suoi canali intrecciati che mutano forma dimensione a ogni piena.
Entrato in città, all’incrocio il semaforo rosso lo costrinse ad arrestare la marcia. Il tempo reggeva nonostante la perturbazione incombente sulla pianura e la fascia prealpina. Parcheggiata l’utilitaria s’incamminò per una Spilimbergo semideserta. In pochi minuti giunse al Duomo. Attraversò la grande piazza e fece ingresso nel castello. Una volta nella corte si trovò circondato dai palazzi rinascimentali addossati all’antica muraglia circolare, sulla terrazza che domina il Tagliamento.
Per lui quel posto era l’ombelico del mondo, un luogo che da vecchio sentiva di amare ancora di più e dal quale non si sarebbe separato mai.
Si spinse fino al limitare della corte, dov’è la grande apertura a sudest che spazia verso il fiume e la pianura. In quel momento un nuvolone carico di pioggia oscurò il cielo rendendo ancor più suggestivi i colori della facciata del «Palazzo Dipinto». A ridosso dei monti si preannunciava un temporale.
Ada sapeva sicuramente tutto – pensò -, non poteva che essere andata così. Lei, che in azione si era mostrata sempre la più determinata. Così intimamente legata al Plevan da divenirne la depositaria dei segreti.
Adesso gli appariva tutto chiaro: i gregari erano stati inconsapevolmente strumentalizzati. Dopo anni di fiducia riposta in don Verzotto si trattava di un’amara conclusione. Nel volgere di pochi giorni i suoi dubbi si erano andati moltiplicando: la strana morte del sacerdote, le sibilline parole della sorella, il nasco principale segreto a tutti e quelle strane attivazioni che nulla avevano a che fare con la resistenza di un gruppo di patrioti contro un esercito invasore.
Dubbi che si erano ingeneratisi già nelle prime fasi della sua articolata e pignola ricostruzione che aveva preso avvio quando il Dispositivo Friûl era stato sciolto, dopo la caduta del muro di Berlino.
Infatti, già nel 1990 aveva intuito che la cellula di don Verzotto con la rete Stay-Behind italiana non c’entrava proprio nulla, tuttavia non aveva ancora posto in discussione la buona fede del Plevan, seppure si fosse interrogato a lungo su quale potesse essere stata la dipendenza gerarchica della cellula.
Il fatto che tutti loro non figurassero nella lista dei 622 gladiatori resa pubblica da Andreotti di per sé non significava nulla, ma se non erano stati gladiatori a chi avevano fatto capo? Chi li aveva armati e coperti per tutti quegli anni?
Per mantenere segreta la dipendenza della cellula il Plevan li aveva indotti a credere di fare parte di una rete clandestina nazionale che operava nell’ambito della NATO. L’esplosione del “caso Gladio” era stranamente coincisa, però, con la cessazione delle attività del Dispositivo Friûl. Un bel giorno il Plevan aveva convocato tutti gli operativi della cellula per congedarli.
Fece appena in tempo a farlo, o forse fu l’ultimo ordine che gli lasciarono eseguire prima di farlo fuori sulla strada per San Martino al Tagliamento. Il prete si portò così nella tomba tutti i suoi segreti.
Negli anni che seguirono i tre Calegaro condussero le loro rispettive esistenze in una sorta di limbo, immersi in un’apparente condizione di normalità. In fin dei conti, don Verzotto era morto e nessuno aveva sospettato di nulla, agli ex gregari sarebbe bastato prestare la dovuta attenzione nei comportamenti, seguendo pedissequamente le elementari regole del buon senso e tutto sarebbe andato per il meglio.
Un’altra cosa Primo stentava però a comprendere: l’anomala ridondanza dei depositi di armi. Tre nasco gli parevano eccessivi per le necessità di una piccola cellula come quella spilimberghese, che nel caso di attivazione non avrebbe mobilitato altri che loro.
Nel deposito principale c’erano materiali della cui esistenza i gregari non dovevano sapere, e questo era risaputo, anche se ricordava benissimo che nel corso delle uniche due attivazioni “reali” del Dispositivo Friûl cui presero parte anche loro vennero utilizzate armi moderne di produzione estera, materiali che nulla avevano a che vedere con quei ferrivecchi del Borgo.
Lo stesso discorso valeva anche per il resto, cioè per le targhe automobilistiche false e rubate, per i documenti in bianco e per la radio ricetrasmittente. Primo concluse che il nasco del Duomo doveva servire esclusivamente alle operazioni “coperte” condotte dal Plevan in prima persona e dalla sua ristretta cerchia, i cui fini però continuavano a permanergli oscuri.
In realtà, la cellula del Plevan era una diretta creatura degli americani, costituita in prossimità del confine nordorientale al fine di operare in totale estraneità rispetto alle altre reti occulte italiane e NATO. Un organismo informale dalla struttura elastica, qualcosa che veniva sostenuto dalla CIA e dalle basi militari americane nel Veneto, una piccola cellula “in sonno” che avrebbe dovuto assumere i contorni di un’importante componente nel quadro del più vasto dispositivo concepito allo scopo di ostacolare i processi di modificazione politica, sia interna che internazionale.
Nel suo piccolo, dunque, anche la cellula spilimberghese concorse a mantenere integro il ventre molle della NATO. Lo fece ricorrendo all’impiego di strumenti illegali, a volte addirittura mediante l’esercizio della violenza. Sfuggì sempre alle attenzioni dell’avversario, in primo luogo della rete informativa del Partito comunista italiano, che in Friuli Venezia Giulia contava su un discreto numero di quadri e militanti referenti della Federazione di Udine.
I motivi della cooptazione in blocco nella cellula di un intero nucleo familiare risiedettero nella necessità di affidare a persone sicure compiti secondari, tuttavia indispensabili ai fini del successo del progetto complessivo.
Per il nucleo centrale si rese indefettibile il supporto di elementi capaci e di provata fiducia. A un nocciolo duro ed estremamente coeso, formato da ex combattenti partigiani ed ex militari ognuno dei quali specializzato in uno specifico settore, venne affiancato un gruppo di fuoco con funzioni ausiliarie, principalmente di copertura, da impiegarsi nel corso di operazioni maggiormente impegnative. I tre figli di Arrigo, l’Ors, non vennero mai posti a conoscenza delle funzioni svolte dalla struttura clandestina, conseguentemente rimasero completamente estranei a tutte le informazioni sensibili come quelle riguardanti gli obiettivi e la pianificazione.
Quanto a Nevio, venne cooptato perché era un tipo risoluto e non gli mancava il coraggio. Che quel giovanotto fosse un gran figlio di puttana, scaltro e fondamentalmente disonesto, dal Plevan era risaputo fin dal principio, quindi nei suoi confronti l’approccio fu diverso rispetto agli altri.
Don Verzotto non gli propinò la consueta retorica utilizzata con Primo e Ada, lo sapeva bene che lui non era certo un idealista, tuttavia seppe egualmente sondare a fondo l’umore di quell’ex ufficiale dell’Esercito a cui era rimasta la passione per le armi, comprendendo quale sarebbe potuta essere la contropartita per la sua partecipazione alle attività della cellula.
Nevio era in ottima forma fisica e inoltre possedeva un’ottima conoscenza della montagna, l’ambiente ideale per la guerriglia. Un mattino, convocatolo da solo nella casa canonica, don Verzotto gli paventò la possibilità di frequentare dei corsi di sabotaggio e sulle tecniche di esfiltrazione presso le forze speciali americane.
«Vedi Nevio – lo blandì ponendogli paternamente il braccio sulle spalle mentre col dito indicava le Prealpi dell’Arzino –, io ho fatto il partigiano lassù in montagna insieme a tuo padre. Sappi che in questo preciso istante, vicino a Verona, altri patrioti, gente in gamba come te, vengono addestrati da istruttori militari americani della FTASE… a proposito Nevio: quand’eri alla Julia hai mai sentito parlare di guerra psicologica?»
Per un ventenne esaltato come lui quelle parole furono un’esca irresistibile. Nevio aveva il cuore caldo e la mente fredda, perciò sarebbe stato un perfetto “operativo”.
Ci pensò su qualche giorno e alla fine accettò. Essendo il più piccolo dei tre figli di Arrigo gli assegnarono il criptonimo Frus. In futuro non sarebbe mai stato impiegato in azioni di guerriglia, un genere di attività che non rientrava negli scopi dell’organizzazione. Don Verzotto lo fece assumere nella cava gestita dal Consegnatario, una copertura perfetta. Il suo inserimento nella cellula non creò particolari problemi, eccezion fatta per la malcelata diffidenza manifestata da Ada. In azione si comportò sempre esemplarmente, ma la sua determinazione e il suo coraggio lo posero in competizione con la sorella e, presto, i latenti contrasti tra i due sfociarono in un conflitto intestino. Un serio problema per l’armonia interna del gruppo, che costrinse il Plevan alla mediazione. Un’incombenza non facile, neppure per un prete navigato come lui, soprattutto alla luce della sua relazione sentimentale segreta con l’operativo Giglio.
All’esterno, sia prima che dopo la morte di don Verzotto le notizie sulle operazioni condotte dalla cellula non filtrarono mai. In fondo, le due uniche attivazioni reali cui presero parte i fratelli Calegaro risalivano alla fine degli anni Sessanta.
Nel corso della prima, che ebbe luogo nel giugno del 1968, sin dal primo istante ebbero contezza che si stesse profilando qualcosa di diverso rispetto al consueto addestramento e che quella sarebbe stata una missione vera e propria. All’alba di un giorno piovoso B-30 si presentò all’improvviso nella loro casa per allertarli: i gregari vennero chiamati a fornire un supporto di fuoco “cinturando” l’area d’intervento del nucleo centrale. Il Plevan e i suoi da soli non ce l’avrebbero fatta, allora chiamarono in aiuto “la fanteria”.
«Il Plevan dice che c’è da fare un lavoro urgente – annunciò sbrigativamente B-30 -, dobbiamo raggiungerlo immediatamente in canonica. Non ci venite in gruppo, avviatevi uno alla volta praticando ognuno itinerari diversi».
Il Plevan tenne un veloce briefing: quella stessa mattina si sarebbero recati nel Pordenonese, la loro presenza era richiesta nel giro di due ore al massimo. Don Verzotto illustrò la dinamica dell’azione e assegnò i compiti alle due squadre, senza tuttavia specificare la natura dell’obiettivo.
Nessuno fece domande, nonostante tutti si fossero comunque fatti un’idea sulle ragioni di quella missione. C’era sicuramente di mezzo il disastro aereo che pochi giorni prima in Spagna aveva provocato la morte dei vertici aziendali della Zanussi, una delle maggiori industrie europee di elettrodomestici che aveva sede e impianti a Pordenone. Il piccolo bimotore turboelica si era schiantato sulle pendici di una montagna durante un violentissimo temporale.
Una strana missione quella, che in seguito a Primo sarebbe stata riportata alla mente da un volume capitatogli casualmente sotto gli occhi nella vetrina di una libreria di Udine. In esso erano stati pubblicati postumi parte dei documenti e delle testimonianze di Guido Giannettini, personaggio coinvolto nell’inchiesta sull’attentato di Piazza Fontana. Le rivelazioni rese dall’ex agente “Z” del SID sollevavano oscuri retroscena, poiché secondo lui i vertici della Zanussi erano stati eliminati da settori del servizio segreto militare italiano in quanto implicati in un traffico di materiali tecnologicamente avanzati con l’Unione Sovietica. Una controversa ricostruzione dei fatti del tutto divergente da quella accreditata ufficialmente. Nell’affaire, il ruolo fondamentale svolto dalla consociata iberica dell’impresa pordenonese sarebbe stata una delle cause della ritorsione. Chi raccolse le confidenze di quel collaboratore del SIFAR caduto in disgrazia, si era comunque peritato di porre almeno un dubbio sulla reale consapevolezza dei vertici aziendali di allora riguardo alle intricate liasons dangereuses intessute dal loro ramo spagnolo.
Terminato il briefing, la cellula raggiunse rapidamente la cava sul Meduna col pulmino della parrocchia. Una volta lì, il Consegnatario distribuì le armi, mentre B-30 si occupò degli abiti che avrebbero indossato durante l’azione.
Era previsto che si travestissero da religiosi. Giglio, per l’occasione, assunte le sembianze di una candida suorina, fu l’unico elemento del gruppo a operare armata di pistola. Avrebbe guidato lei il pulmino Volkswagen bicolore targato Venezia con a bordo suo fratello Primo e il B-30.
L’altro automezzo fu una fiammante berlina Fiat 2300 nera targata Roma. Un prelato accompagnato da un gruppo di sacerdoti in viaggio il giorno dei funerali dei capitani d’industria di una “regione bianca” come quella offriva una copertura davvero formidabile, infatti, nessun poliziotto si sarebbe azzardato a fermarli a un posto di blocco.
Le due squadre mantennero i contatti utilizzando apparati radio dotati di miscelatori nell’emissione e di decodificatori alla ricezione. All’interno del pulmino, Galena rimase all’ascolto anche sulle frequenze della Pubblica Sicurezza e dei Carabinieri.
Alla fine si trattò solo di entrare all’interno della grande fabbrica situata sulla statale Pontebbana attraverso un ingresso secondario incustodito. Fece tutto il Plevan. Lo stabilimento industriale in quel momento era praticamente deserto, dato che le maestranze e i quadri in quel momento si trovavano a presenziare alle esequie dei loro dirigenti. La cerimonia funebre avrebbe avuto inizio di lì a poco e il corteo funebre, attraversata la città di Pordenone tra due ali di folla, aveva già raggiunto la chiesa. Il capocellula dispose che Vecio e B–30 presidiassero i varchi dell’impianto, mentre lui e il Consegnatario avrebbero fatto ingresso al suo interno. Restarono dentro per quindici interminabili minuti, poi finalmente uscirono fuori.
«Si torna a casa – disse il Plevan a quelli che stavano in copertura –, le condoglianze saltano».
Usciti dal perimetro della fabbrica raggiunsero senza fretta i veicoli in attesa sul piazzale antistante, quindi salirono a bordo di essi e si avviarono sulla strada del ritorno. Per Primo e Ada il battesimo operativo si era concluso senza usare le armi.
Assai meno complessa, invece, gli era sembrata l’operazione «Terzo Decimale», cioè la seconda azione reale cui parteciparono i gregari, che venne compiuta a Padova nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, proprio in concomitanza col tentato golpe dell’Immacolata.
In quel caso la centrale negli Usa si era presa un certo margine di autonomia. Oltre alla CIA, del progetto golpista del Fronte Nazionale e di altri erano al corrente anche la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. Tuttavia Washington fu ambigua: la sua rete di intelligence in Italia continuò ad appoggiare i gruppi che si preparavano a un colpo di stato – da tempo il Comando FTASE di Verona seguiva le attività paramilitari di alcune formazioni dell’estrema destra -, ma la Casa Bianca preferì non intervenire, forse contraria a quel golpe o, più probabilmente, perché lo riteneva destinato al fallimento. Temendo possibili ripercussioni sugli equilibri nel teatro del Mediterraneo, Nixon non appoggiò ma neppure contrastò quel piano eversivo.
In ogni caso, dalla Virginia, la Centrale non mancò di monitorare con estrema attenzione gli sviluppi e in questo quadro attivò nuovamente il Dispositivo Friûl.
Neppure quella volta gli uomini della cellula fecero ricorso alle armi, benché in quella trasferta veneta se ne fossero portate dietro tante. Avrebbero dovuto tenere sotto controllo per alcune ore un’importante generale dell’Esercito italiano in servizio presso il Comando designato della III Armata. All’azione partecipò anche Nevio, nel frattempo divenuto effettivo al Dispositivo, fu la prima volta che i fratelli Calegaro effettuarono una missione tutti e tre insieme.
Nascosto all’interno di un furgoncino, Galena provvide a sintonizzare gli apparati radio sulle frequenze di un’emittente che trasmetteva in lingua inglese programmi destinati ai militari americani di stanza nella Repubblica federale tedesca, canzonette e scarni bollettini di informazione diffusi periodicamente a orari fissi. Il Plevan si mise all’ascolto in cuffia, da lì sarebbe giunto il segnale in codice destinato a loro. Da un brano musicale piuttosto che da un altro il capocellula sarebbe stato informato sulle modalità di prosecuzione della missione: sì, agire; no, sospendere tutto. Ascoltarono musica leggera fino a notte inoltrata, poi alle due e mezza, improvvisamente, il Plevan impartì l’ordine di rientro. Si tornava in Friuli.
XXXI
I pensieri gli ronzavano veloci in testa. Uscito dalla corte del castello sentì il bisogno di mandar giù un bicchiere di vino, allora attraversò Piazza del Duomo e si diresse verso la Torre Orientale. A corso Roma avrebbe sicuramente trovato un’osteria aperta dove sedersi e ordinare un nero.
Però volle fermarsi ancora per un istante sul ponte a osservare in lontananza la sala cinematografica parrocchiale, uno degli edifici che avevano segnato la sua esistenza e quella degli altri Calegaro.
Giunto allo slargo della Via di Mezzo si arrestò. Fece un giro d’orizzonte osservando tutto ciò che lo circondava. Notò che a quell’ora soltanto la grapperia all’angolo era aperta, tutti gli altri negozi restavano ancora chiusi per la pausa del pranzo. Venne attratto dalla vecchia insegna del negozio di coloniali, la fissò alcuni istanti e poi riprese a camminare lentamente sotto i portici. In quel momento si sentì in pace col mondo intero, profondamente immerso nei propri elementi primordiali, tra le pietre che l’uomo nei secoli aveva plasmato trasformandole in case e strade, muri dalla durezza infinita che racchiudevano esistenze di uomini. E pure il vento freddo, quello che d’inverno spira forte e contro quei muri sbatte incanalandosi impetuoso nella strada. E il sole caldo dell’estate, riflesso in maniera accecante dai ciottoli bianchi di fiume che lastricano il Corso.
All’incirca nello stesso momento in cui Primo faceva ingresso nell’osteria per immergere i suoi pensieri nell’alcool, Luisella Marconaro si presentava alla caserma della Compagnia Carabinieri. Ad attenderla, seduto a un tavolino in una stanzetta, c’era il maresciallo Zincone.
Dopo l’interrogatorio di Kovacich, il sottufficiale era riuscito a tornare a casa per un po’, una breve parentesi di riposo rubata al veloce trascorrere del tempo che però si sarebbe interrotta presto, già nel primo pomeriggio, quando assieme a Toffanin avrebbe preso a verbale la ragazza.
Il suo mestiere lo teneva lontano dalla famiglia. Mai orari certi e sempre di corsa per poter conciliare la vita personale col servizio. Fortunatamente a casa si erano abituati a questi ritmi, al contrario di altri suoi colleghi che invece dopo pochi anni avevano visto i loro matrimoni andare in pezzi. Col vicebrigadiere che lo aveva accompagnato ancora una volta a Spilimbergo ormai faceva coppia fissa da un paio d’anni, con lui aveva instaurato un’ottima intesa. Quel giorno Toffanin si era presentato nel cortile condominiale dell’abitazione del collega con cinque minuti di anticipo sul previsto. Non lo volle disturbare avvisandolo della sua presenza con una citofonata, poiché immaginava che stesse consumando gli ultimi fugaci istanti di calore domestico insieme ai suoi cari: due parole scambiate con la moglie, un sorso di caffè caldo fatto con la moka, infine un bacio ai figli e via. Preferì dunque attenderlo in macchina. Zincone, però, vedendolo attraverso i vetri della finestra della cucina lo chiamò invitandolo a bere un caffè.
«Silvà, ma che fai là? Forza, vieni su a pigliarti un caffè, tanto siamo in anticipo».
Lui raccolse l’invito e salì al primo piano della palazzina. Ad aprirgli la porta fu la signora Zincone.
«Venga brigadiere, si accomodi. Adesso si beve una bella tazza di caffè così si riprende un poco pure lei, che mi sa che non ha dormito per niente come mio marito».
Come aveva immaginato la famiglia era al completo in cucina.
«Ma che stavi a fare chiuso in macchina – insistette Zincone -, citofona e vieni su… no?!? Abbiamo ancora tempo, cosa vuoi che ci mettiamo ad arrivare a Spilimbergo».
Dopo aver degustato il caffè uscirono di casa scendendo giù per la scala lucida e odorante di candeggina.
Il cortile condominiale fungeva anche da parcheggio per le macchine dei residenti, malgrado il fatto che spesso i ragazzi ci giocassero a pallone. Erano perlopiù figli di militari dell’Esercito che abitavano lì, in prevalenza sottufficiali in servizio nelle caserme del circondario. I due carabinieri entrarono nella Fiat Punto. Toffanin avviò il motore e partirono.
Il caso Calegaro era praticamente risolto. Tutto pareva conformarsi alle dichiarazioni di Kovacich, che aveva scaricato le accuse di omicidio sui suoi complici croati.
«Il colonnello dice che dobbiamo sentire pure questa… e sentiamo pure la commessa – commentò Zincone durante il breve tragitto –, è una che se ne andava in giro di notte da quelle parti proprio quando ammazzavano a Calegaro: magari ci dice qualcosa di interessante».
«Ma chi? – Domandò allora Toffanin cadendo un poco dalle nuvole – Quella che i colleghi hanno fermato per eccesso di velocità?»
«Proprio lei – confermò Zincone –, hai visto mai avesse notato qualcosa di strano».
Poco prima di recarsi dai Carabinieri, Luisella era riuscita a parlare al telefono con Antonella. Erano giorni che non rispondeva più alle sue chiamate. Lei si era quasi rassegnata, aveva fatto un ultimo tentativo e fortunatamente la caporalessa aveva risposto. Però le aveva parlato a bassa voce, evidentemente intorno a lei c’erano altre persone e non voleva farsi ascoltare da loro.
«So tutto Luisè, stamattina ho letto il giornale allo spaccio mentre facevo colazione. Mo’, mi raccomando: tu resta normale, fai come se non fosse successo niente, poi come smonto dal servizio ti raggiungo. Dì: non combinà cazzate coi carabinieri eh… cerca di sta’ tranquilla. Un bacio, ciao».
Si era sforzata di apparire dolce, ma alla fine era stata lo stesso sbrigativa, impedendo così a Luisella di riferirle la cosa più importante, cioè quello che era successo quella notte maledetta dopo che si erano lasciate davanti alla caserma di Tauriano.
Antonella ancora non sapeva che la sua amante era stata fermata dai Carabinieri a un posto di blocco.
Anche quella volta si erano appartate sul greto del Meduna. Lo avevano fatto sul tardi, dopo essere state a mangiare una pizza a Pordenone. Raggiunto il torrente avevano fatto sesso all’interno dell’autovettura. Baci appassionati, tante carezze e un veloce orgasmo.
Era stata proprio la caporalessa a suggerire quel luogo mentre percorrevano la superstrada Cimpello-Sequals, poche centinaia di metri dopo l’uscita dallo svincolo per Spilimbergo avrebbero trovato il posto ideale per una “sveltina”. Tutto in fretta, perché Antonella il mattino seguente avrebbe dovuto montare di guardia per le ventiquattro ore successive, quindi non voleva rientrare in caserma tardi.
Imboccata una stradina sterrata avevano raggiunto in breve tempo un punto dove la rigogliosa vegetazione selvatica proteggeva adeguatamente la loro privacy.
Luisella spense il motore e, senza perdere tempo, baciò languidamente sulla bocca la sua amante.
Erano trascorse alcune decine di minuti dopo la mezzanotte e la luna rischiarava a giorno l’unica porzione di panorama visibile da quella piazzola nascosta tra alberi e cespugli.
Durante il pomeriggio il forte vento aveva spazzato via tutta l’umidità residua nell’aria e dalla loro angusta alcova, attraverso il parabrezza dell’utilitaria, le amanti poterono così scorgere l’imponente sagoma nera delle Prealpi stagliarsi sullo sfondo stellato.
Ogni tanto qualche folata più impetuosa delle altre faceva rotolare via velocemente qualche matassa di rovi.
Ben presto i cristalli della Panda si appannarono, fornendo loro un’ulteriore briciolo di intimità. Luisella prese l’iniziativa. Cominciò a spogliare Antonella estraendole il prosperoso seno sporgente dalla vertiginosa scollatura della camicetta. Lo baciò con passione mentre l’amante gemeva con trasporto. Ma il loro voluttuoso amplesso venne improvvisamente interrotto dal sopraggiungere di un suv.
La grossa autovettura arrestò la marcia sgommando sui ciottoli a poca distanza da loro. Nell’oscurità, le luci posteriori degli “stop” abbagliarono i volti delle due ragazze rimaste impietrite.
Non fecero in tempo a realizzare cosa stesse accadendo che, tra le varie voci concitate degli uomini scesi da quel fuoristrada, una si impose distintamente sulle altre.
«Scendi carogna maedeta! Bastardo d’uno schifoso, ti …e quea troia ‘e tu mare!»
Una colluttazione. Grida soffocate. Tanta confusione. Poi tre colpi d’arma da fuoco nell’aria gelida. Infine il silenzio.
«Hanno sparato – bisbigliò terrorizzata Antonella –, Luisè… chiste so’ pistole!»
La caporalessa prese la mano dell’amante stringendola con forza allo scopo di inibirle il compimento di un pur minimo gesto. Sarebbero dovute restare immobili fino a quando quelli non se ne fossero andati via.
Erano lì, seminude, coi seni scoperti e le mutandine abbassate. Tutte e due con gli occhi magnetizzati da quel tratto di torrente davanti a loro, precariamente occultate alla vista di quegli uomini crudeli dagli alberi e dalle frasche.
I secondi trascorsero. A loro parvero un’eternità.
«Dio mio… e adesso che succede? – Piagnucolò Luisella – Andiamo via ti prego che ho paura. Anzi, chiamiamo i Carabinieri, così arrivano e questi se ne vanno…»
Antonella corrucciò lo sguardo e a bassissima voce la rimproverò.
«Ma che cazzo dici! Che sei cretina? Se questi ci scoprono ci fanno fuori! E se poi vengono ‘egguardie!?! Che facciamo se vengono ‘egguardie, gli raccontiamo che stavamo scopando? Calma Luisè, dammi retta: facciamoli andare via che poi ce ne andiamo pure noi. Vedrai che mo’ finisce tutto».
Dopo pochi istanti udirono il rumore sordo delle portiere del suv che si chiudevano, poi le luci dei fanali posteriori della macchina mutarono: il rosso fioco delle “posizioni” lasciò la predominanza al bianco del faretto per la retromarcia. Il pachiderma a trazione integrale effettuò una veloce manovra e con una sbuffata scura dal tubo di scarico sgommò via. Quella gente, così come era arrivata se ne andò.
«Non ci hanno viste! – esclamò Luisella – Adesso andiamo via da qui! Ti riporto in caserma e me ne vado subito a casa».
«No!», La bloccò ancora Antonella.
«Prima di muoverci aspettiamo qualche minuto, perché se quelli stanno ancora qua intorno ci beccano. Meglio essere prudenti, non si sa mai».
Uno. Due. Cinque minuti. Tutto pareva tranquillo. Là intorno si muovevano solo le foglie sospinte dal vento. Intanto, le due ragazze si erano rivestite rimettendosi a posto i capelli.
«Via, via! – insistette allora Luisella – Che ci restiamo a fare ancora qua! No no no: io metto in moto e vado…»
Avviò il motore della Panda, innestò la prima e la macchina si mosse. Erano entrambe sgomente, intuirono che lì, a pochi metri da loro, era accaduto qualcosa di molto grave, ma non ebbero il coraggio di avvicinarsi oltre per andare a vedere.
Per loro era tutto finito. Già pensavano a dimenticare, seppellendo tutto nelle proprie coscienze. Non si volsero indietro neppure per lanciare uno sguardo fugace al greto del torrente. Stavolta Luisella guidò senza badare alla velocità, fregandosene dei possibili danni alle sospensioni. Raggiunsero la carrareccia sterrata che portava alla strada asfaltata e, una volta lì, non ci misero molto ad arrivare alla caserma di Tauriano. Davanti alla porta carraia Antonella lanciò un’ultima occhiata alla sua amante per farle coraggio.
«Luisè, non dire niente a nessuno, altrimenti succede un casino. Noi co sta’ storia non c’entriamo un cazzo, non sappiamo neanche che è successo. In più: nessuno ci ha viste e tantomeno sa dei fatti nostri. Vedrai che non esce fuori nulla e tutto si risolve».
Le diede un bacio sulla guancia, poi con simulata complicità carezzò con la mano il peluche che le aveva regalato qualche giorno prima, un pupazzetto che Luisella aveva fissato sul cruscotto della macchina. Quindi aprì la portiera, scese e si diresse verso l’ingresso della base militare.
Luisella attese col motore acceso per poterla vedere ancora un po’ e si mosse soltanto quando il pesante cancello metallico si chiuse alle spalle della caporalessa. Ripartì effettuando una brusca inversione di marcia e prese velocemente la direzione di Spilimbergo. Aveva fretta di rinchiudersi tra le mura di casa, di separarsi dal mondo esterno con tutte le sue crudeltà cercando rifugio nel suo squallido ma tranquillo microcosmo.
Però, lo fece troppo in fretta. Aveva perduto quel residuo equilibrio che, malgrado tutto, era riuscita a mantenere fino ad allora e insieme a esso perse anche tutti gli elementari livelli di attenzione.
La conseguenza fu quella che, imboccata la strada di Ponte Roitero, solo all’ultimo momento notò il posto di blocco dei Carabinieri che stavano rilevando con l’autovelox gli eccessi di velocità degli automobilisti in transito. Se ne accorse per via delle pettorine catarifrangenti che i militi dell’Arma indossavano sopra l’uniforme.
Era tesa e non riuscì a rallentare in tempo. Paletta rossa e alt! Uno dei due militari, imbracciando la mitraglietta, si posizionò di lato alla Panda in modo da avere il campo di tiro libero dalla sagoma del collega. L’altro, che in una mano teneva delle carte, si avvicinò al finestrino del posto di guida dell’utilitaria.
«Abbiamo fretta signorina? – Chiese con un velo d’ironia – Che c’è, ha freddo? Trema? Dove sta andando così di corsa a quest’ora della notte? Cortesemente, mi favorisca patente e libretto di circolazione».
Ricevuti i documenti dalla ragazza, si avviò verso l’autovettura di servizio per gli usuali controlli via radio. Dopo cinque minuti, quando fece ritorno, pose a Luisella una serie di domande.
«Che lavoro fa signorina? Abita a Spilimbergo? Purtroppo devo farle il verbale e le toglieranno i punti dalla patente».
A quel punto la ragazza si tranquillizzò. Le avrebbero fatto solo una multa – pensò -, poi se ne sarebbe potuta andare via.
«Faccio la commessa – rispose mostrandosi a fatica tranquilla –, quant’è la multa per l’eccesso? È alta?»
Il militare le rispose. Poi, dopo i consueti convenevoli, la salutò raccomandandosi che guidasse in modo più sicuro, dopodiché Luisella se ne andò via.
(11 – continua)