NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (10)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

 XXVII

   La Catalano fu esauriente, anche se omise di riferire l’implicazione nel caso della malavita croata. Un particolare che non volle ancora divulgare per non porre in allarme i fratelli Šeks e la loro banda, probabilmente già tutti in ansia a causa della prolungata attesa di un contatto con Kovacich, in quanto ignari del fatto che il pregiudicato triestino si trovasse ormai da ore in stato di fermo nella caserma dei Carabinieri di Pordenone.

Fra i giornalisti convenuti in Procura, come al solito la più insistente nel rivolgere le domande fu la Maritan, che stavolta però sulla sua strada si trovava di fronte la piemme, un tipo decisamente ostico per i cronisti di nera.

«Questo è quanto signori – dichiarò la titolare dell’inchiesta alla fine della conferenza stampa – al momento non possiamo dirvi altro, sarà poi l’Ufficio a tempo debito a provvedere a rendere noti ulteriori sviluppi dell’indagine. Vi basti sapere che ho disposto un sopralluogo alla periferia di Spilimbergo allo scopo di recuperare eventuali armi ed esplosivi custoditi dalla vittima all’interno di un vecchio deposito abbandonato che era nella sua disponibilità. Gli uomini della Giudiziaria sono già sul posto per l’effettuazione dell’operazione».

Un giornalista rivolse una domanda al magistrato.

«Il deposito clandestino potrebbe essere di natura militare o ritenete che appartenga alla malavita?»

Nel rispondere la piemme fu evasiva e fece il possibile per far cadere lì l’argomento. In quella terra di confine un deposito clandestino di armi ed esplosivi poteva significare tante cose e non volle dare adito a illazioni premature, tuttavia fu inevitabile che il pensiero dei giornalisti andasse immediatamente alla struttura militare segreta che durante la guerra fredda in quei luoghi aveva avuto un gran numero di nuclei “in sonno”, la cosiddetta «Stay-behind Gladio».

Infatti, puntualmente il mattino seguente le testate della provincia riservarono le loro prime pagine al «nasco» del Borgo legandolo al caso Calegaro. Titoli e “catenacci” furono davvero efficaci.

Le armi e gli esplosivi della vittima

Dopo la morte del pensionato Spilimbergo diviene uno scrigno pieno di misteri

Oppure:

«La vittima era implicata in traffici illeciti di armi: la Procura trattiene un pregiudicato fortemente sospettato dell’omicidio. Meno grave la posizione del marocchino fermato la settimana scorsa»

Gli estensori degli articoli riproposero la storia dell’organizzazione segreta della NATO e della sua “unità di pronto impiego” di Spilimbergo. Era un’occasione troppo ghiotta per non approfittarne, così alcuni si produssero in un giornalismo di maniera, facendo ricorso agli stilemi più abusati nei casi del genere.

   «Un filo rosso sangue potrebbe legare la morte di Nevio Calegaro ad altri casi verificatisi in provincia negli ultimi anni»

E ancora:

   «“Gladiatori” e malavita comune: una connection nella Destra Tagliamento?»

Fra tutti i titolisti, uno in particolare se l’era cavata meglio degli altri ricorrendo a un’accattivante calembour:

«Quel Borgo un po’ nascosto a Spilimbergo»

Il titolo di spalla venne affiancato dall’editoriale a firma del direttore, una disquisizione che nulla aveva a che vedere con la tragica vicenda, ma che riprendeva il tema dei presunti sprechi di denaro pubblico per l’uso della lingua friulana in regione. Una polemica che sulla stampa locale montava ormai da tempo e a volte con risvolti curiosi, come quando furono pubblicate le traduzioni in friulano dei termini «Youtube» e «Wikipedia», divenuti Viôt-tu e Vichipedie.

Comunque, il pezzo sull’omicidio del Meduna che apriva in prima aveva un incipit che era tutto un programma:

«Sono troppe le ombre che si addensano sul passato di Nevio Calegaro»

Il giornalista aveva cercato di ricostruire il contesto nel quale era maturata la sanguinosa vicenda, svolgendo anche alcune considerazioni sulla possibile partecipazione della vittima a organizzazioni segrete attive in Friuli negli anni della guerra fredda e, alla fine, aveva posto un ulteriore interrogativo: nello Spilimberghese, oltre alla Gladio erano esistite altre formazioni paramilitari segrete?

Il tema introdotto era estremamente scottante, considerato anche quanto era accaduto nella cittadina dopo la pubblicazione dei 622 nominativi degli appartenenti alla rete clandestina.

Era il 1990 e dalla desecretazione di quell’elenco erano emersi anche i nomi dei componenti del nucleo che si sarebbe dovuto attivare nella zona. Tra i gladiatori figurarono alcuni “personaggi eccellenti” della politica locale. Alcuni giorni dopo, sulla Via Napoleonica, presso Talmassons, venne alla luce anche il loro “nasco”. Anni lontani ma non per questo dimenticati, ravvivati adesso dall’omicidio di Calegaro.

Lo stile del cronista non fu per nulla allusivo o barocco e la sua penna andò dritta alla sostanza.

   «L’ipotesi di un legame fra l’insospettabile pensionato dalla doppia vita ed eventuali attività di organizzazioni occulte non sarebbe campata in aria, è infatti noto che i “gladiatori” fossero tra noi. Naturalmente, da questo giungere ad affermare che la vittima fosse stato un fiancheggiatore della Stay-behind italiana ce ne passa. Il suo nominativo non risulta nella famosa lista dei 622, ma nei suoi confronti non si può escludere nulla, soprattutto alla luce delle dichiarazioni rese da Miro Kovacich, il pregiudicato attualmente trattenuto in stato di fermo. Su di lui si sono appuntate le attenzioni degli inquirenti. Su Kovacich, infatti, graverebbero forti indizi in ordine all’omicidio di Nevio Calegaro. Va tenuto conto che gli appartenenti alla rete Stay-behind non erano solo quelli presenti nella lista pubblicata vent’anni fa, quindi non è escluso che Calegaro ne abbia fatto parte, appropriandosi in seguito delle armi di cui era consegnatario, da lui successivamente rivendute alla malavita al fine di trarne profitto».

Nell’ultima parte del suo articolo il giornalista fece riferimento agli arsenali della Gladio, gli oltre trecento depositi noti anche come «nasco» dei quali si venne a conoscenza dopo lo scioglimento dell’organizzazione segreta.

Molti di essi si trovavano in Friuli e nel resto del Nordest. Avrebbero dovuto servire ad armare i circa seicento effettivi in forza all’organizzazione nell’eventualità di una loro attivazione.

***

   Venuto a conoscenza della novità delle pagine dei giornali, Primo comprese di aver sottovalutato il problema: avevano fermato un pregiudicato che era al corrente di numerosi particolari oscuri riguardanti la vita di suo fratello, uno che aveva rivelato l’esistenza di un deposito segreto di armi del quale Nevio aveva libero accesso.

Cercò di mantenersi calmo e riflessivo, poiché soltanto così sarebbe stato nelle condizioni di governare la situazione. Ma non ci riuscì e ben presto divenne nuovamente preda delle sue contorte elucubrazioni.

L’autore dell’articolo era un giornalista vicino ai servizi segreti che aveva ricevuto e pubblicato una velina? – pensò il vecchio – A quale scopo? La notizia era stata diffusa volutamente per indurre i complici di Nevio a compiere un passo falso?

Cosa devo fare adesso? – si interrogò poi confuso, trovando una risposta che gli diede un effimero conforto – Sì, sì… devo telefonare ad Ada, subito!

Si mise immediatamente in contatto con la sorella a Udine. Estrasse dalla tasca della giacca il suo telefono cellulare e compose il numero. Ada rispose al terzo squillo. Lui non le diede neanche il tempo di parlare e affrontò subito l’argomento.

«Li hai letti i giornali oggi?»

«Sì, sono uscita presto per fare la spesa», rispose lei apparentemente calma, facendogli comprendere con il tono della voce che non avrebbe dovuto parlare di certe cose al telefono. «Dove ti trovi in questo momento? – chiese al fratello – Al bivio di Ponte Roitero? Sì, ho capito… ascolta, perché non ti fai una passeggiata fin qui da me e ci prendiamo un tè insieme?»

Ada si aspettava che prima o poi qualcosa sarebbe venuta fuori, dunque si era preparata all’evenienza. Primo si mise in macchina e in mezz’ora la raggiunse a Udine.

Quel giorno i Calegaro non furono le uniche persone coinvolte nella torbida vicenda ad aver letto i giornali, dato che anche Luisella apprese dalla stampa degli sviluppi dell’indagine.

La ragazza si era illusa di poter esorcizzare la situazione nella quale suo malgrado si era venuta a trovare. Aveva cercato di seppellire le proprie angosce, però, nel frattempo la macchina della giustizia era andata avanti inesorabile.

Il giorno precedente, mentre si trovava al lavoro, un carabiniere si era presentato a casa sua per convocarla in caserma. Luisella era venuta a saperlo al suo rientro alla pausa pranzo, quando aveva trovato il padre ad aspettarla sulla porta di casa, come sempre granitico nei modi e nei sentimenti.

«Se tu non te ne andassi in giro alla notte tutti questi casini non succederebbero! Di notte vanno in giro i delinquenti e i fannulloni, oppure chi ha i soldi da gettar via: tu ne hai di soldi da gettar via?»

La ragazza parve incassare il rimbrotto senza fiatare, poi, però, esasperata e sugli spilli per la tensione accumulata, improvvisamente cacciò fuori tutto il risentimento che da tempo covava dentro di sé.

«Basta! – Urlò come una isterica – Ho ventisei anni e mi spacco la schiena da quando ne ho quattordici! Non ho fatto mai niente di cui vergognarmi o far vergognare voi, chiaro! Ne ho abbastanza delle tue accuse e delle tue umiliazioni. Io non voglio fare la vostra fine e crepare dentro questa casa, non voglio diventarci vecchia qua a Spilimbergo!»

I suoi genitori non l’avevano mai vista così agitata, fu la ragione per la quale la madre tacitò il marito e la abbracciò forte. Un semplice atto d’amore che non si ripeteva da tanto tempo.

«Cerca di stare tranquilla – le disse carezzandole il capo –,  anche il carabiniere ha detto che si tratta solo di una testimonianza, una cosa breve. Sarà per la multa che hai preso con la macchina, chi lo sa… adesso non ci pensare».

Si sedettero al desco e rimasero in silenzio. Il padre bevve un goccio di vino, poi accennò a un gesto di affetto cercando la mano della ragazza per carezzarla. Era pentito per la scenata di poco prima e desiderava dimostrarglielo. Forse si era reso conto che il suo rapporto con la figlia era giunto a un punto di non ritorno, tuttavia non ebbe il coraggio di affrontare di petto quella situazione. Era troppo orgoglioso per farlo.

Luisella ritrasse fulmineamente la sua mano quando questa venne a contatto con quella grande e callosa del padre. Ormai era esausta.

Continuarono a desinare silenti. Terminato il pranzo cercò di contattare Antonella per metterla al corrente della cosa, ma invano: il cellulare della caporalessa risultò sempre irraggiungibile alle ripetute chiamate di lei. Quel pomeriggio, alla Compagnia di Spilimbergo era attesa per le quindici in punto.

  

XXVIII

   Seccata per tutto quel frastuono la signora Zanonato si rivolse con fare deciso a suo marito Demetrio.

«Ma che la Calegaro è diventata sorda tutto all’improvviso? Mi sono stufata, sono due ore che tiene la radio accesa così alta: ora vado a dirglielo!»

Demetrio cercò di calmare la moglie prima che provocasse una lite con la vicina. In quella palazzina i rapporti fra i condomini erano sempre stati ottimi, improntati alla massima educazione e alla cortesia. In fin dei conti con l’anziana maestra in pensione non era comunque il caso di esagerare.

«Caterina aspetta! Ci parlo io, tu stattene buonina, fa il piacere».

L’uomo aprì la porta di casa e uscì sul pianerottolo, dove il fracasso era ancora più insopportabile. Suonò il campanello della dirimpettaia, ma quest’ultima non gli venne ad aprire. Allora riprovò nuovamente, stavolta con maggior vigore, però, anche stavolta non aprì nessuno.

«Non si sarà mica sentita male? – pensò a questo punto allarmata Caterina – Prova un po’ a ribussare ancora, che se non risponde chiamiamo il centotredici».

In un attimo, dal fastidio per il volume eccessivamente elevato della radio, la massaia era passata all’ansia per le condizioni di salute della vicina.

Demetrio continuò a bussare contro il legno della porta blindata fino a che questa, a un tratto, si socchiuse. Ada sporse timidamente il capo dall’uscio evitando accuratamente che i coniugi Zanonato potessero sbirciare all’interno del suo appartamento. Apparve diversa dal solito. Agitata. Quella era davvero una strana situazione: il suo antiquato apparecchio a valvole termoioniche era sintonizzato sulle frequenze di Radio Bella e Monella, un’emittente che trasmetteva programmi diretti prevalentemente a un pubblico giovane, molta musica leggera, dediche in diretta e un po’ di gossip.

«Signor Zanonato, cosa c’è?»

Fu Caterina a intromettersi per spiegare le ragioni di quell’intervento.

«Ci scusi signora, ma sa… sentivamo la radio così alta. Una cosa mai successa prima, allora le abbiamo bussato, ma non vedendola aprire ci siamo preoccupati».

«Già, la radio – tentò di giustificarsi Ada –, ha perfettamente ragione. Mi scusi davvero, ma purtroppo il potenziometro dell’apparecchio non funziona bene e non riesco ad abbassare il volume. Sa cosa faccio adesso, stacco direttamente la presa e la spengo. Perdonatemi ancora per il disturbo, buongiorno».

Il potenziometro guasto era soltanto una scusa, poiché in realtà il volume della radio lo teneva alto per coprire la conversazione con suo fratello. Non voleva che venissero ascoltate le loro parole. Da due ore se ne stavano chiusi là dentro a discutere su cosa fare ora che avevano scoperto il deposito delle armi a Spilimbergo. Ada temeva le possibili intercettazioni ambientali della polizia e per questo aveva costretto Primo a parlare a bassissima voce, cercando di coprire tutto con la musica. Un maldestro accorgimento contro le cimici e i microfoni direzionali che i poliziotti avrebbero potuto usare per carpire i loro segreti.

Un comportamento che però era anche indice della perdita del senso di sicurezza: la vecchiaia, unita alla difficile situazione nella quale si erano improvvisamente trovati a seguito dell’assassinio del fratello aveva accentuato le loro paranoie.

«Chissà cosa penseranno di trovare quelli…»

Disse Ada con una punta di disprezzo nei riguardi dei poliziotti. Primo, ormai preda dell’agitazione, per tutta risposta ammonì la sorella.

«Dico: ma hai contezza di cosa stia accadendo?»

Con le poche forze che gli rimanevano Ada strattonò il fratello per un braccio bisbigliandogli all’orecchio tutto il proprio disappunto.

«Taci sciagurato! Parla piano, vuoi che ci senta pure il questore?»

La donna si diresse poi verso la radio e ne alzò ulteriormente il volume facendo al contempo cenno al fratello di stare zitto.

«I giornali, i giornali… che non lo sai che sui giornali si scrivono un sacco di fesserie? Non è ciò che dicono che è importante, ma quello che non dicono o, peggio, quello che a volte sottintendono. Eppoi al Borgo c’era poco o niente, il grosso stava nel “nasco principale”, dove per fortuna quel delinquente di Nevio non è riuscito a mettere le mani. Se la polizia dovesse arrivarci succederebbe davvero un macello, perché lì oltre alle armi troverebbero anche tutto il resto, targhe false comprese».

«E tu come fai ad affermarlo con certezza? – le chiese Primo – Ah, già… tu eri quella più vicina al Plevan. Dai, oggi puoi anche ammetterlo, tanto è passato così tanto tempo».

«Perché – replicò Ada -, tu non ne sapevi niente? Povero innocentino! Se risalgono al nasco principale scoppia un casino che neppure te lo immagini: pensa solo se si mettono a scavare su quello che succedeva in parrocchia, se interrogano tutti quei bei chierichetti».

Seccato per l’atteggiamento della sorella Primo fece spallucce, poi riprese a redarguirla.

«Nevio è stato ammazzato e tu ti preoccupi del nasco principale, come se fossimo ancora organici al Dispositivo».

Questa considerazione rese Ada ancora più aggressiva.

«Pensi davvero che tutto si possa cancellare così, solo perché è passato qualche anno? Secondo te l’incidente stradale del Plevan è stato casuale!?! Sono stati i “vertici” a farlo fuori in quel modo, perché era l’unico a sapere tutto del nucleo».

La donna tacque per un istante, poi quando riprese a parlare il suo tono fu più pacato.

«Lo sai benissimo quali erano le armi che usavamo a quei tempi: beh, a me non sembra proprio che corrispondano a quelle che dicono di aver trovato al Borgo, non trovi? A meno che la stampa e i questurini non si siano messi d’accordo allo scopo di propinarci una “polpetta avvelenata”, una informazione falsa per depistarci e farci cadere in errore. Credono che così facendo noi si vada a controllare qualche altro sito… capisci? è per questo che dobbiamo essere prudenti. Ci vuole la massima prudenza, non sarebbe certo la prima volta che la polizia ascolta le telefonate e le conversazioni della gente e si mette a pedinarla. Non dobbiamo assolutamente condurli al nasco principale. Ergo: la nostra consegna resta ancora quella del silenzio».

Primo rimase pensoso per un istante e poi sollevò un dubbio.

«E se al nasco principale Nevio invece ci fosse arrivato? Noi non lo possiamo sapere…»

Ada dissentì con un cenno della testa.

«Lo escludo. Figurati se il Plevan affidava dei materiali sensibili a uno come Nevio. Quello era un delinquente nato e io non mi sono mai fidata di lui, però tutto questo tu lo sai già».

«Storie vecchie – tagliò corto Primo –, non riapriamo una dolorosa ferita».

«In ogni caso – proseguì la donna – non credo che in giro ci sia nessuno che possa associarci a quel sito… ovviamente esclusi i vertici dell’organizzazione. Per questa ragione noi due dovremmo essere al sicuro. Però ti prego: d’ora in avanti cerca di fare estrema attenzione a quello che fai, perché non possiamo assolutamente permetterci di compiere passi falsi. Quelli ci stanno sul collo e non aspettano altro. E inoltre…»

«…inoltre?»

«E inoltre dovresti smetterla di andare a bere all’osteria! Guarda che lo so che ci vai».

Il vecchio si infuriò.

«Ma cosa vai dicendo, piantala! Io non bevo mica! E poi so controllarmi benissimo da solo, senza bisogno che tu ti metta di mezzo. La devi finire di fare sempre la maestrina: chiaro!?!»

Così ebbe termine il vertice di famiglia. Primo uscì dall’abitazione della sorella rimbrottando parole incomprensibili.

Ada era certa che al Borgo non avrebbero trovato nulla di importante, poiché lei era al corrente del fatto che i materiali veramente sensibili erano custoditi nel deposito che il Plevan aveva sempre gestito personalmente. Tuttavia di esso non se ne conosceva l’ubicazione, poiché don Verzotto l’aveva sempre mantenuta segreta.

***

    Non ci volle molto agli specialisti incaricati dalla Procura della Repubblica per periziare i materiali rinvenuti in quel cunicolo di cemento non distante dalla massicciata ferroviaria che gli indicato Kovacich. Il pregiudicato ne era venuto a conoscenza quando Nevio Calegaro ce lo aveva condotto allo scopo di mostrargli delle armi che avrebbe voluto piazzare alla malavita. In quel secondo deposito clandestino i Carabinieri avevano rinvenuto alcune pistole Beretta modello 34, dei moschetti automatici MAB, una cassa di bombe a mano e del munizionamento. Vennero anche trovate delle cartucce di tritolo comprensive di detonatori, accenditori e micce. I materiali versavano in un accentuato stato di degrado. In sé quel deposito non era male, infatti il luogo non era eccessivamente umido e neppure esposto a radiazioni luminose o ultraviolette, inoltre non c’erano stati contatti fra gli esplosivi e delle superfici metalliche; dunque, tutto faceva pensare che il pessimo stato di quei materiali fosse conseguenza dell’incuria e dell’imperizia di chi li aveva detenuti.

Nel corso della sua militanza all’interno del Dispositivo Friûl, Primo non si era mai posto interrogativi sui depositi di armi, meno che mai riguardo a quelli eventualmente gestiti dal Plevan in esclusiva.

Nella cellula la regola era che non si dovevano fare domande, poiché il loro compito era esclusivamente quello di agire e a tutto il resto avrebbe pensato il livello superiore.

Nemmeno con Ada e Nevio aveva mai trattato tale specifico argomento, tuttavia, un’idea su dove potesse trovarsi il fantomatico “nasco principale” in ogni caso se l’era fatta. Don Verzotto aveva libero accesso al tempio di Santa Maria Maggiore, una chiesa grande e piena di misteri, inoltre disponeva anche delle sue pertinenze, cioè gli uffici parrocchiali, la canonica e il cinematografo.

La cava di inerti sul Meduna dove per tanti anni aveva lavorato Nevio, poteva aver svolto soltanto una funzione di nascondiglio temporaneo, in quanto luogo umido e per di più quotidianamente frequentato dagli autisti delle betoniere, quindi inadatto a svolgere la delicata funzione di deposito per le armi e gli esplosivi.

Alla luce di queste riflessioni era giunto alla conclusione che i luoghi più adatti per nascondere qualcosa fossero il duomo o il vicino castello. Un’area di dimensioni circoscritte in grado di offrire infiniti nascondigli. Al riguardo gli tornarono alla mente anche le parole che il Plevan aveva pronunciato molti anni prima quando aveva fatto riferimento a un particolare nasco contenuto in una delle opere difensive approntate sul territorio di  loro competenza. Non aveva specificato la natura di quell’installazione e neppure il luogo.

Primo pensò che potesse trovarsi in uno di quei siti fissi difesi dai militari del Reggimento di fanteria d’arresto della vecchia caserma Bevilacqua, un’opera difensiva come tante, posta a presidio del guado sul medio corso del fiume Tagliamento della quale a partire dagli anni Novanta era iniziato lo smantellamento.

Era lì il nasco principale?

Difficile dirlo. A Primo erano stati assegnati soltanto incarichi di gregario e fino all’attivazione della cellula non era previsto che conoscesse i particolari della missione da svolgere, tanto meno il suo obiettivo: riceveva le armi e basta.

Così era sempre andata tutte le volte che il loro team si era mosso per coprire l’azione degli elementi “centrali”. Ma adesso quella curiosità era divenuta insopprimibile. Allora, allo scopo di riuscire a comprendere dove potesse trovarsi quel deposito segreto procedette per esclusione, sgombrando il campo da tutto ciò che col Dispositivo Friûl non c’entrava nulla.

Il nasco principale doveva innanzitutto risultare raggiungibile con facilità dagli uomini del nucleo centrale, che ovviamente non avrebbero dovuto correre il rischio di essere visti da nessuno; inoltre, per ospitare tutti quei materiali quel locale avrebbe dovuto avere delle dimensioni ragguardevoli. A Spilimbergo si era sempre favoleggiato di una galleria segreta che collegava la cripta del duomo con il castello, scavata per garantire una via di fuga dal tempio in caso di pericolo.

Quella del cunicolo era una leggenda dai risvolti fantasiosi. Qualcuno aveva affermato che originasse dalla cripta sotterranea, altri dalla “chiesetta dei morti”, la piccola cappella di Santa Cecilia, ritenuta addirittura antecedente al duomo e compresa nella cinta muraria di quest’ultimo. Ma queste congetture cozzavano irrimediabilmente con il dubbio che ingenerava una ipotesi simile: a quei tempi sarebbero stati in grado di realizzare un’opera di alta ingegneria come quella fantasticata?

Probabilmente no, poiché era fuori dalla portata dei Margravi di Speremberg, dato che per collegarsi alla fortezza la galleria avrebbe dovuto sottopassare il fossato e per farlo avrebbero dovuto scavare a notevole profondità nel sottosuolo.

Ma allora, se il nasco non si trovava nel castello restavano solo due possibili luoghi idonei a ospitarlo: il contrafforte del Barbacane e l’adiacente boschetto selvatico in scarpata.

Il primo si estendeva dal duomo al fossato, l’altro era situato alla base del maniero, nel punto digradante verso la colonia elioterapica. Entrambi non distavano dal tempio e da esso erano facilmente raggiungibili anche alla luce del sole. Ma di notte era ancora meglio, quando in chiesa non c’era nessuno e don Verzotto poteva muoversi come voleva: nessuno si sarebbe mai insospettito di un prete e del suo sacrista in giro per Piazza del Duomo con dei voluminosi involti.

  

XXIX

   L’arruolamento di elementi di sesso femminile da parte della Gladio iniziò a partire dal 1977, quando nei ranghi della rete stay-Behind vennero introdotte delle «esterne». Una volta parte dell’organizzazione, la centrale di Forte Braschi – sede dei servizi segreti militari italiani – prospettò alle gladiatrici il calendario dei corsi in programma, ricevendo poi da loro la personale disponibilità oppure il rinvio della partecipazione alle sessioni successive. A differenza dei gladiatori maschi, di esse nessuna mai defezionò.

All’interno del Dispositivo Friûl, invece, Ada Calegaro venne cooptata alla metà degli anni Sessanta. Fu il Plevan a volerla fra i «gregari», cioè nel gruppo di operativi di seconda schiera destinati al supporto del nucleo centrale durante le operazioni. La ragazza faceva comodo all’organizzazione poiché era una persona onesta e dalle credenziali impeccabili, figlia de l’Ors e sorella di Primo Calegaro, un elemento già organico alla cellula.

Ada era intelligente e risoluta. Graziosa, ma per niente civetta, tutta casa, lavoro e chiesa, possedeva una spiccata predisposizione per l’insegnamento ai bambini, in più era un’assidua frequentatrice della parrocchia, fatto che rendeva del tutto normali i suoi diuturni contatti con don Verzotto.

In operazioni una come lei non avrebbe dato nell’occhio. Alla centrale di Langley riuscirono a far collimare tutto alla perfezione. Ad esempio, quando Ada si recava in America per seguire i corsi, le sue prolungate assenze trovavano le giustificazioni più diverse. Il più delle volte i viaggi venivano fatti coincidere con le vacanze estive nel corso dei tre mesi di chiusura delle scuole. Allo scopo il Plevan organizzava un pellegrinaggio in Terra santa per i fedeli della sua ristretta cerchia: la prima tappa del trasferimento veniva effettuata in Israele. Raggiunta Tel Aviv in aereo, al check-out sul passaporto di Ada veniva apposto il visto d’ingresso nello Stato ebraico, in seguito, un agente sotto copertura le consegnava altri documenti per l’espatrio coi quali avrebbe successivamente fatto ingresso in territorio statunitense. Al termine del soggiorno per il rientro la procedura era la medesima. Filò sempre tutto liscio: la maestrina tornava a casa entusiasta e raccontava a tutti dell’immensa emozione provata nel visitare i luoghi dove era nato e vissuto Gesù Cristo.

Dei gregari soltanto Ada ebbe l’opportunità di recarsi negli Stati Uniti per partecipare ai corsi di formazione, fu per questo che risultò essere la più preparata di tutti. Lei era la prediletta di don Verzotto. Il sacerdote se la portava continuamente dietro con la scusa di farla partecipare ai seminari di teologia e ai convegni sulla società moderna, in realtà era una scusa per addestrarla militarmente e affinarne le capacità nel campo della guerra non ortodossa.

I suoi genitori non obiettarono mai nulla riguardo ai viaggi che faceva in Veneto o in Val Camonica nei fine settimana e a cavallo delle festività. Ufficialmente alloggiava in convitti religiosi gestiti da suore, nessuno poteva immaginare che la notte invece giacesse nuda accanto al suo padre spirituale.

Ella subì a tal punto il fascino del suo maestro da innamorarsene profondamente, divenendone al contempo cieca esecutrice dei voleri. Così, approfittando della particolare situazione, don Verzotto sfruttò a fini personali i sentimenti della ragazza. La sua capacità di circuire le persone gli tornò utile anche con Ada, con la quale giocò sporco servendosi del perverso sincretismo tra l’incondizionata dedizione alla causa e la morbosa passione per l’uomo. Per il prete, l’irrefrenabile desiderio ingenerato nella ragazza rappresentò il migliore strumento di plagio di cui potesse disporre.

Il Plevan era un uomo subdolo. Di tanto in tanto rendeva edotta Ada riguardo a presunte informazioni riservate, ma in realtà il suo scopo era quello di farla sentire importante, travolgendo così definitivamente il suo labile confine tra il sentimento e la razionalità. Niente altro che abboccamenti ideati a tavolino al duplice scopo di metterla alla prova nella veste di depositaria di segreti e coinvolgerla emotivamente sempre di più. Evidenti manipolazioni della realtà che in certi casi violentavano addirittura la logica, ma che proprio per i loro aspetti suggestivi ben si attagliavano agli scopi del Plevan e dei suoi controllori in Virginia.

Restando sempre attaccata a lui ebbe comunque occasione di venire a conoscenza di cose che gli altri componenti del nucleo non seppero mai. Come ad esempio l’ubicazione del nasco principale, situata all’ingresso principale del duomo, sotto le due pietre della soglia del Portale occidentale, la bianca e la nera.

Le pietre incastonate nel pavimento, simboli ai quali da secoli vengono attribuiti significati esoterici: il bene e il male, l’alfa e l’omega, l’ingresso e la perdizione, la vita e la morte. Il nasco si trovava proprio lì, nel punto dove, coi piedi ben saldi sul freddo granito, si viene colpiti dalla maestosità dell’altare maggiore. Senza dubbio una trovata intelligente: mentre tutti fantasticavano su un immaginario deposito segreto nella cripta, fucili di precisione, radio trasmittenti e targhe false stavano invece mezzo metro sotto la suola delle scarpe dei fedeli.

L’operativo Giglio non rivelò mai nulla a nessuno, neppure a suo fratello Primo, l’ultima persona cara che le era rimasta. Fu per questo che si preoccupò nel momento in cui apprese che il fratello ucciso in passato aveva tentato senza riuscirci di scoprire quel nascondiglio.

Nevio aveva intuito che i materiali sofisticati dei quali veniva dotato dal Plevan nel corso delle attivazioni non provenivano dallo sguarnito deposito del Borgo, poiché nel nasco della ferrovia c’erano solo del tritolo, pochi mitra e qualche vecchia pistola. Niente di speciale. Infatti, con quella roba si poteva certamente uccidere, ma non fare la rivoluzione.

Tuttavia, se ne era venuto a conoscenza Nevio non era escluso che ne fosse venuto al corrente anche qualcun altro, visto che l’operativo Frus poteva averne parlato in giro. E infatti lo sapeva pure Kovacich, che poi spifferò tutto durante il suo interrogatorio.

«Il vecchio una volta mi disse che dentro una chiesa del suo paese c’era un altro deposito pieno di armi, ma non precisò dove. Disse di non saperlo neanche lui».

Ada non aveva avuto torto a immaginare che Nevio per avidità avesse tradito la consegna, rivendendo dapprima ciò che si trovava nelle sue immediate disponibilità e, in un secondo momento, cercando il nasco meglio rifornito. In fondo, nei confronti di suo fratello minore aveva sempre nutrito discredito.

(10 – continua)

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