NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (8)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

XXII

   «L’ho conosciuto a Portorose all’inizio della guerra – ripeté Kovacich –, fu nel 1992, all’inizio dell’estate, forse in giugno. In un night-club di Portorose, un posto dove si abbordavano le puttane, un locale sempre pieno di italiani, soprattutto gente di qua, del Nordest. C’ero andato insieme agli altri per riprendere fiato dopo i combattimenti, gli ultimi mesi erano stati davvero intensi».

«Eravate chi? – chiese Borlacco – Chi c’era con te quel giorno?»

«I soliti – rispose Kovacich –, “Plavi grom”, il capo dell’Autodifesa, e altri due dei nostri».

«Plavi grom? – chiese aggrottando le sopracciglia il colonnello – e chi è?»

«Il suo vero nome è Tomislav Šeks, Plavi grom è soltanto un soprannome, un nome di battaglia. In croato significa “tuono blu”, proprio come l’elicottero da combattimento di quel film americano, lo chiamavano così per via della sua irruenza. Era lui a guidare l’Autodifesa Patriottica della Scacchiera, la milizia nella quale mi ero arruolato».

«Vai avanti» – gli disse Borlacco.

«Eravamo al bancone a bere seduti l’uno accanto all’altro sugli sgabelli, quando arrivò il vecchio e attaccò bottone. Lo fece dopo avermi sentito parlare in italiano con il cameriere, uno di Rovigno che lavorava lì. Mi disse le solite cose che si dicono in questi casi, si capiva benissimo che era una delle prime volte che andava all’estero in un paese slavo, anche se poi alla fine Portorose è a cinque minuti di macchina da Trieste».

«Quale argomento in particolare vi indusse a stringere amicizia?»

«Ma nulla… cosa vuole che le dica colonnello. In quei frangenti uno parla così, tanto per parlare, chi lo avrebbe mai pensato che dopo avremmo lavorato insieme. Mi chiese cosa facessi nella vita e venne fuori che ero un soldato».

«Un soldato!?! – Esclamò Cadrella – Vorrai dire un mercenario da quattro soldi! Un trafficante!»

«La pensi come vuole capitano – replicò Kovacich – ma in Dalmazia a quel tempo la guerra c’era eccome. Comunque, dopo un paio di whisky prendemmo confidenza e ci sedemmo a un tavolino più appartato. Decisi di offrirgli ancora da bere per farlo parlare di più, ero incuriosito da quel tipo dall’aria così per bene venuto in Slovenia a spendere i soldi con le puttane. Tomislav si unì a noi, lui pensò che il vecchio avrebbe potuto rivestire interesse per la banda, in fondo era un incensurato che viveva a poca distanza dalla frontiera. Con Plavi non fu necessario tradurre dal croato perché lui parlava abbastanza bene l’italiano».

Il quadro cominciava a chiarirsi: i croati avevano agganciato Nevio per coinvolgerlo nei loro traffici. Per loro non si sarebbe trattato di un’impresa difficile, poiché compresero immediatamente che a Calegaro piaceva divertirsi.

«Eeeeh… pička, pička, sei il motore del mondo».

Così bisbigliò Tomislav quando lo vide allontanarsi accompagnato da una ragazza ucraina che lo aveva appena rimorchiato, una che per l’età che aveva avrebbe potuto essere sua nipote.

L’Autodifesa Patriottica della Scacchiera era il prodotto della trasformazione di un sodalizio criminale nelle forme di una piccola milizia paramilitare ultranazionalista, un fenomeno frequente nel corso dei conflitti balcanici divampati negli anni Novanta.

La banda di Plavi non raggiungeva neppure la consistenza di un plotone di fanteria ed era insignificante sul piano strettamente militare, dato che non conduceva vere e proprie azioni di guerra. Infatti, seppur pittoresca, era soltanto una congrega di tagliagole comandata da uomini privi di esperienza di combattimento e completamente digiuni di tattica, ragazzoni giganteschi dai muscoli pompati in palestra sempre pronti a sciorinare il loro raffazzonato repertorio ideologico, qualcosa lontanamente e confusamente ispirata allo Stato di Ante Pavelić. Nulla a che vedere con la Zbor Narodne Garde, la guardia nazionale del presidente Franjo Tuđjman e neppure con le agguerrite milizie del calibro dello Hravtske Oslobodilacke Snage, quelle sì, ideologicamente collegate al movimento ustascia.

In Jugoslavia, nei primi mesi di guerra bande come quella svolsero una serie di operazioni sporche che risultarono funzionali a una più ampia strategia elaborata a livello centrale. I gruppi criminali, nel passato collusi con i settori degli apparati di sicurezza, agirono in un contesto etnicamente favorevole e all’interno di dinamiche di ridefinizione violenta degli insediamenti sul territorio. In Istria, Carnaro e Dalmazia, come per altro in altre parti della ex Federativa jugoslava allora in disfacimento. Formazioni armate come quella di Plavi si resero responsabili di assassinî, attentati e intimidazioni, tutti aspetti connaturati al più ampio disegno di pulizia etnica.

Dopo che Kovacich ebbe terminato di spiegare la struttura della sua milizia nella stanza calò un profondo silenzio. Passarono alcuni istanti prima che Zorzon riavviasse il discorso, stando bene attento a evitare che il filo dipanato fino a quel momento non andasse perduto.

«Senti Miro, in concreto: quali erano i termini del coinvolgimento di Calegaro nelle attività della banda?»

«Il vecchio era un tipo sveglio, capì che con noi avrebbe potuto tirar su qualche lira e stette al gioco».

«E quale fu il suo punto di non ritorno?»

Prima di rispondere alla domanda del capo della Mobile, Kovacich chiese di fumare. Uno dei carabinieri gli porse una sigaretta e lo fece accendere.

«Quella sera restammo insieme fino a tarda notte. Usciti dal night-club andammo a bere ancora in un altro locale. Il vecchio disse che si sarebbe fermato a dormire in Slovenia, non voleva guidare sbronzo perché aveva paura dei controlli della polizia. Ci scambiammo i numeri di telefono e quando si fece l’alba Plavi decise di rientrare in Croazia. Salutò il vecchio facendosi promettere che sarebbe venuto a trovarci in Dalmazia. Adesso si trattava solo di completare l’aggancio».

«Dunque fu Plavi a prendere l’iniziativa di associare Calegaro alla banda…» Chiese Borlacco.

«Ah, beh è curioso – disse Kovacich –, perché fu proprio il vecchio a farsi avanti con una proposta. Questo noi non ce lo aspettavamo proprio».

«Vuoi dire che fu Calegaro a proporsi? E in che modo lo fece?»

«Andò proprio così colonnello. Quando si rese conto che la milizia trafficava non perse tempo e ci fece un’offerta. Il capo lo aveva invitato due volte in Dalmazia e io lo accompagnai personalmente da Trieste con la macchina. Si trattò di visite innocenti, rimpatriate fra amici lontano dal fronte. Calegaro si fermò anche a dormire un paio di notti, ovviamente il capo pensò bene di far venire una puttana che il vecchio poi si ripassò. Gli facemmo anche conoscere qualche miliziano dell’Autodifesa, Plavi li fece venire in uniforme e armati fino ai denti apposta per impressionarlo».

«Cosa si aspettavano da lui?»

«Plavi e suo fratello volevano che facesse il passeur e il corriere in piccoli traffici di droga. L’apparenza non deve trarvi in inganno: il vecchio nonostante l’età ci sapeva fare, era uno sveglio e per la banda rappresentò un’opportunità. A quel tempo già si pensava al futuro, la guerra prima o poi sarebbe finita e ci si orientava ad altri affari».

Zincone restò tuttavia perplesso dalla facilità con la quale, almeno a dire di Kovacich, la banda si affidò a un soggetto praticamente sconosciuto.

«Possibile che non abbiate pensato che potesse trattarsi di un infiltrato? – chiese allora al pregiudicato – Che ne so, magari un provocatore… Plavi e gli altri furono così sprovveduti da non effettuare su di lui uno screening preliminare? Questi in un momento come quello, con la guerra in atto e la Jugoslavia piena zeppa di spie, pigliano uno così per caso al casinò di Portorose e gli fanno fare dei “lavori” soltanto perché di primo acchito lo ritengono un tipo sveglio?»

«È vero – ammise Kovacich –, da questo punto di vista eravamo un poco sprovveduti. Ovviamente ne parlammo. Plavi ci chiese un parere e ordinò a me di prendere informazioni su di lui in Friuli, poi però non se ne fece nulla. Vedete, la nostra era una milizia per modo di dire e il capo alle infiltrazioni non ci pensava proprio. Per lui era sufficiente eseguire gli ordini di quelli che gli stavano sopra e finiva tutto lì. I soldi arrivavano regolarmente, quindi problemi non se ne poneva».

Borlacco volle tornare sulla figura di Calegaro.

«Va bene, mi sforzerò di crederti, ma adesso non puoi più svicolare: in concreto, cosa offriva uno come il vecchio alla banda?»

«Armi signor colonnello – rispose candidamente Kovacich –, il vecchio diceva di avere armi ed esplosivi e di tenere nascosto tutto vicino a casa sua».

  

XXIII

   Armi ed esplosivi. A sentire quel pregiudicato, Nevio Calegaro avrebbe posseduto roba del genere. Non solo, voleva pure venderla a dei malavitosi croati.

In verità, a Zincone la figura di quel vecchio era parsa strana fin dall’inizio e non gli erano piaciuti troppo neppure il fratello e la sorella. A suo avviso, quelle due persone d’altri tempi, così distaccati e con quella fastidiosa aria di sufficienza che a stento mal celavano sotto una patina di rituale cortesia, del loro fratello ne sapevano molto più di ciò che avrebbero voluto far intendere. Ed ecco che adesso spuntava fuori la storia delle armi. Naturalmente era tutto da verificare, poiché la fonte di quell’informazione non brillava certo per l’attendibilità. Dentro di sé Zincone provava un profondo disprezzo nei confronti di Kovacich, ma non commise l’errore di sottovalutarlo, quindi soppesò attentamente tutte le sue parole.

Al Reparto Operativo intanto l’interrogatorio continuava.

«Miro – disse il capo della Squadra Mobile, riprendendo un passaggio importante delle dichiarazioni precedentemente rese dal pregiudicato –, ripartiamo dalle armi…»

«Sì dottore. Come vi ho detto, l’affiliazione del vecchio si sarebbe dovuta completare col suo terzo viaggio in Croazia. Stavolta non in Dalmazia, ma a Zagabria. Lì il capo avrebbe finalmente messo alla prova la sua affidabilità. Avvenne in inverno, poco dopo natale. La città era coperta di neve, gli demmo appuntamento al Grand Hotel».

Nel frattempo, in Croazia si erano andati verificando degli rilevanti cambiamenti e anche Tomislav e i suoi ne erano stati interessati direttamente e si erano dovuti adeguare al nuovo corso del potere.

Infatti, nel marzo del 1992 l’Autodifesa Patriottica della Scacchiera aveva seguito il destino di tutte le altre formazioni paramilitari, che erano state sciolte d’autorità dal presidente Tuđjman. A quel punto una parte degli uomini della milizia di Plavi erano riconfluiti nel magma della criminalità comune balcanica, riprendendo a svolgere funzioni di mera manovalanza per conto di organizzazioni mafiose di maggiore spessore.

Kovacich entrò nei particolari di questa dinamica. Partì proprio da quell’incontro a Zagabria.

«A quel tempo il salone del Grand Hotel era popolato da un’umanità variegata: faccendieri, trafficanti di varia natura, giornalisti, ufficiali dell’Onu, agenti dei servizi segreti di vari paesi e puttane. Nonostante fossero le dieci della mattina c’era un sacco di gente. Alcuni sorseggiavano tranquilli un drink, mentre altri se ne stavano comodamente in poltrona. Di lato, vicino a una grande finestra, una ragazza dai tratti delicati suonava al pianoforte dei brani di Gershwin».

Calegaro notò immediatamente la sua grazia e non fu il solo, poiché non pochi tra i presenti avevano rivolto i loro sguardi lubrici su di lei. Più in là, il vecchio scorse poi l’imponente sagoma di Tomislav. Plavi era seduto a un tavolino un po’ in disparte insieme a Kovacich e ad altri due corpulenti individui sulla quarantina. Si avvicinò a loro. Questi, riconosciutolo, gli sorrisero.

«Oooooh, buon giorno… – esclamò Plavi nel suo stentato italiano –, ma io connosco qvesto uommo! Hai fatto buon viaggio amico mio?»

Dopo i primi convenevoli di rito lo fece accomodare al tavolo e iniziò la conversazione.

«Hai visto cosa abbiamo combinato ai serbi? – disse indicando con lo sguardo due caschi blu canadesi che si trovavano al bancone del bar – Abbiamo fatto tutto da soli sai, se avessimo dovuto aspettare quei “gelatai” dell’Onu adesso al ponte di Maslenica ci sarebbero ancora i cetnici. Ma parliamo d’altro Nevio, siamo qui per trattare di affari e se deciderai di stare con noi ti faremo guadagnare un bel po’ di soldini».

Plavi gli fece subito la proposta.

«Tu ci porti delle macchine dall’Italia. Buone macchine intendo dire, tipo Audi, Mercedes o Bmw, e noi ti paghiamo alla fine di ogni viaggio. È un lavoro pulito e senza rischi, una passeggiata. Tu sei un bravo signore anziano che non è mai stato in carcere, non darai assolutamente nell’occhio al momento in cui attraverserai la frontiera. Se sei convinto di poterlo fare potrai cominciare a lavorare già dalla prossima settimana».

Quando Tomislav ebbe terminato di illustrare la sua proposta Nevio fissò Kovacich interrogandolo con gli occhi: il triestino annuì con l’aria di uno che la sapeva lunga. A quel punto, però, Nevio rilanciò.

«Per me va bene, ma io posso farvi avere anche delle armi, tutte complete del relativo munizionamento. Armi da guerra ed esplosivi che dovrete venire a prendervi da me in Italia».

Preso in contropiede, Plavi diede corda all’interlocutore mostrando di essere interessato all’argomento, tuttavia preferì aggiornare il capitolo a una data da destinarsi. Per giustificarsi affermò che gli sarebbe occorso del tempo per organizzare un affare del genere e, infine, si congedò da Nevio lasciandolo nelle mani di Kovacich.

I due italiani uscirono dal Grand Hotel. Una volta in strada il triestino entrò nei dettagli.

«Nevio, tu vivi in Friuli e conosci tanta gente: qualcuno di questi potrebbe aver bisogno di quattrini e perciò magari vendere la propria macchina. Mettiamo che questa macchina, a due o tre anni dall’immatricolazione. abbia perso valore di mercato.. ecco, qui entri in gioco tu: devi farti sotto e lavorarti queste persone per farti affidare la macchina e portarcela qui da noi in Croazia. Noi a questi gli diamo duemila marchi tedeschi di anticipo in contanti. Ma attento: la macchina deve essere “pulita” e assicurata per il furto, altrimenti non se ne fa niente. Una volta che vi sarete messi d’accordo in Italia e che noi qui in Croazia avremo approvato l’affare, tu ti metterai alla guida e ce la porterai. Altre volte, invece, saremo noi a metterti direttamente in contatto con chi vuole vendere. In questo caso dovrai occuparti esclusivamente del viaggio e, ovviamente, beccherai di meno rispetto a quando l’affare lo condurrai da solo. Una volta consegnata la macchina, passati un paio di giorni, il proprietario potrà fare la denuncia per furto alla polizia italiana, così oltre ai nostri soldi incasserà pure quelli dell’assicurazione».

  

XXIV

   All’una di notte erano tutti cotti, però non potevano mollare proprio adesso che Kovacich era diventato un fiume in piena.

Il pregiudicato stava raccontando ogni minimo particolare della vita criminale di Nevio Calegaro, continuando però a negare le sue responsabilità in ordine al suo omicidio. Alla luce di quelle dichiarazioni il profilo della vittima assumeva una fisionomia diversa: il pensionato apparentemente al di sopra di ogni sospetto era in realtà un delinquente incallito. La storia delle armi apriva una nuova pista e, con ogni probabilità, si trattava solo dell’inizio. Infatti, si andava sempre più radicando negli inquirenti il sospetto che l’anziano friulano avesse avuto le mani in pasta anche in altre attività illecite.

Dopo quindici minuti di pausa trascorsi alla macchinetta automatica del caffè nel corridoio, Borlacco ripartì alla carica riaprendo il capitolo dei traffici.

«Dai Miro che è tardi… insomma, queste armi alla fine ve le ha vendute oppure no?»

«Non erano un gran che – rispose Kovacich, visibilmente provato dalla stanchezza e dalla tensione –, era roba vecchia. Ci disse che ne aveva una quantità, ma non in che modo se le fosse procurate».

«Roba vecchia? – chiese l’ispettore Battaglia – Che vuoi dire?»

«Robaccia. Pistole d’ordinanza dell’Esercito, mitra MAB… cose così».

«Piano, piano – si inserì Zorzon reinquadrando il discorso –; dicci chi fu a vedere queste armi e dove le vide».

«Dopo una serie di viaggi in Croazia con le macchine, il capo decise che era venuto il momento di dargli un contentino e allora andammo a vedere queste famose armi che ci voleva vendere. Le nascondeva in una cava in Friuli. Partimmo da Rijeka in tre: io, Plavi e Dragan, uno della banda che si intendeva di esplosivi».

«E va bene – disse Borlacco –, arrivaste in Italia: e dopo?»

«Incontrammo Calegaro vicino a Spilimbergo. Prendemmo un caffè nella strada centrale del paese e dopo risalimmo subito in macchina per andare alla cava. Era sera. Mi ricordo che le prime armi che tirò fuori furono le sue».

A questo punto Zorzon pretese però delle risposte più precise.

«Cosa vuol dire le sue? Intendi dire le sue pistole personali? Quelle che aveva regolarmente denunciato?»

«Proprio quelle. Ce le fece vedere in macchina mentre andavamo alla cava. Ricordo che il capo eccepì cortesemente, ma con fermezza, che se avesse voluto continuare a lavorare con noi, armi dietro non se ne sarebbe dovute portare mai più, e che se, eventualmente, si fossero verificati problemi, a risolverli ci avrebbe pensato la banda».

«Continua».

«Niente di particolare. Facemmo qualche chilometro e cominciò a piovere a dirotto. Nella cava c’erano delle baracche, un piccolo ufficio e il magazzino degli attrezzi. Una volta nel capannone non ne uscimmo fino a quando Dragan non terminò di esaminare i materiali».

Nevio aveva piena libertà di accesso al sito estrattivo. I nuovi titolari dell’impresa concessionaria a loro tempo subentrati a Ulrico Magris (il Consegnatario) erano completamente all’oscuro delle attività svolte dal loro dipendente e tanto meno conoscevano i suoi trascorsi nel Dispositivo Friûl.

«La roba – proseguì Kovacich – la teneva nascosta dentro al capannone degli attrezzi, però secondo me quello non era il vero deposito, ma si trattava solo di un punto di appoggio utilizzato occasionalmente. Il vecchio non si fidava di nessuno, quindi non fece vedere il vero nascondiglio, ci mostrò soltanto alcuni pezzi. Plavi rimase deluso, in macchina durante il viaggio di ritorno si lamentò con noi perché avevamo fatto un viaggio a vuoto».

Borlacco insistette: era interessato alla provenienza delle armi.

«In che condizioni vi apparvero quelle armi? Calegaro vi disse da quanto tempo le conservava? Gli esplosivi erano da cava oppure militari?»

«Io non ci capivo molto signor colonnello – rispose Kovacich –, però vidi Dragan prendere in disparte il capo e bisbigliarli qualcosa all’orecchio. Dopo, ma solo quando fummo in macchina da soli, cioè senza il vecchio tra i piedi, ci rivelò che si trattava di tritolo probabilmente appartenuto all’Esercito italiano, aggiungendo che era stato conservato molto male. In ogni caso Plavi non liquidò Calegaro in malo modo, ma gli fece capire chiaramente che l’affare non gli interessava».

Le armi e gli esplosivi mutavano per l’ennesima volta i termini della questione. Fioccarono inquietanti gli interrogativi: da quanto tempo la vittima era dedita a traffici del genere? Quali potevano esserne stati i destinatari? E infine, dove si era rifornito di quei materiali?

Ma le sorprese non sarebbero finite lì. Infatti, come Zincone aveva sospettato, il profilo criminale di Nevio Calegaro andava assumendo maggiore spessore. Kovacich intanto non smetteva di parlare.

«Il vecchio faceva di tutto. Dopo aver trafficato con le macchine, Plavi decise che avrebbe potuto accompagnare gli extracomunitari clandestini in Italia facendogli attraversare di nascosto la frontiera oppure prelevandoli sulla costa non appena venivano sbracati dagli scafisti. Fu in questo campo che Calegaro diede il meglio di sé».

Adesso appariva tutto più logico: i transiti clandestini si attagliavano bene anche al traffico di stupefacenti e i contatti avuti dalla vittima con i pusher friulani si potevano connettere con le attività della banda croata. Restava da inquadrare il tutto con la massima precisione possibile. Allo scopo, Zorzon si alzò di scatto dalla sedia e chiese l’attenzione degli altri, tuttavia, per poterlo fare dovette necessariamente sovrapporre la propria voce a quella del capitano Cadrella, che in quel momento stava parlando con un suo sottoposto. La cosa infastidì non poco l’ufficiale. Il capo della Mobile pose comunque a Kovacich due precise domande.

«Calegaro ha fatto il passeur? Dove e quando lo ha fatto?»

«Lo faceva saltuariamente – rispose remissivo il pregiudicato -, all’inizio soltanto quando sostituiva qualche sloveno che era stato beccato dalla polizia o che si era reso indisponibile per altri motivi. Il vecchio prendeva gli ordini per telefono da Plavi e poi guidava gli scafisti salpati da Rijeka verso i punti di approdo sulla costa italiana».

«Bravo Miro – esclamò Zorzon carezzando paternalisticamente la testa del pregiudicato –, adesso devi dirci della droga, perché noi lo sappiamo che la trattavate».

«Già, la droga – annuì Kovacich –. All’inizio pareva non volesse sporcarcisi le mani, poi però superò presto le remore. Fu sempre il Plavi a convincerlo, lui era bravo a coinvolgere le persone. Una sera lo blandì dicendogli che lui sarebbe stato un corriere ideale».

La banda di Plavi trafficava anche in droga, però non era chiaro a quale livello, sebbene tutto facesse presumere che si trattasse di un’organizzazione di tipo “esecutivo”, cioè soltanto il segmento terminale di una filiera criminale di maggiore spessore. Di sicuro, quella trentina di malavitosi orfani della guerra non avevano compiuto il salto di qualità all’interno dell’universo mafioso balcanico e consapevoli dei loro limiti, avevano accettato di buon grado un ruolo ancillare. Ma perché avevano ucciso uno come Nevio Calegaro?

Inaspettatamente, quasi in simultanea dai telefonini di Borlacco e di Zorzon echeggiò un segnale acustico: il pubblico ministero Catalano aveva inviato lo stesso sms a entrambi.

Se siete d’accordo il summit di domattina (!) pardon… di stamattina, direi di farlo direttamente al Reparto Operativo dell’Arma, così avrò anche l’opportunità di vedere il fermato. Vi raggiungerò alle 10:30;  fatemi sapere se ci sono impedimenti. Saluti.

Si erano fatte le tre e mezza della notte. Borlacco e Zorzon parlottarono un paio di minuti per accordarsi sul crono programma: si sarebbe interrotto l’interrogatorio per un po’. Però, prima il capo della Mobile volle rivolgere allo stremato Kovacich un’ultima domanda.

«Senti un po’, ma quale era il ruolo del marocchino nella banda?»

Il pregiudicato lo guardò in viso stralunato.

«Chi?»

«Mahmoud Jaffna – insistette Zorzon -, quello che abbiamo beccato coi documenti del morto».

Kovacich allargò le braccia scuotendo allo stesso tempo il capo, poi, esaurite totalmente le energie fisiche, biascicò:

«Di che marocchino parla dottore? Mai sentito parlare di marocchini, per davvero».

Per il funzionario di polizia fu sufficiente.

Un’ultima appendice di quella estenuante nottata si consumò in seguito sulle scale.

«Signor colonnello… – chiese Zincone a Borlacco – che dobbiamo fare con la Marconaro?»

Il comandante del reparto Operativo aveva già staccato completamente la spina e sulle prime a quel nome non riuscì a collegare una faccia.

«Zincò, e chi è sta’ Marconaro?»

«Comandante – spiegò il maresciallo –, si tratta della ragazza che i colleghi di Spilimbergo hanno fermato a un posto di blocco vicino a Tauriano domenica notte poco dopo il delitto. Avremmo dovuto prenderla a verbale domani pomeriggio, ma poi è stato fermato Kovacich e ci è stato ordinato di sospendere tutto e di rientrare in sede»

«No, no… ragazzi portate pazienza – supplicò Borlacco – fate uno sforzo, perché ormai ci siamo: domani pomeriggio se non ci sono esigenze prioritarie tornate là e sentitela. Chi lo sa, magari questa è al corrente di qualche particolare utile, non possiamo permetterci di trascurare nulla. Buonanotte Zincò, adesso vatti a buttare in branda un po’ pure tu…»

(8 – continua)

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