di Alberto Clô (*), pubblicato da “L’Astrolabio”, newsletter degli Amici della Terra il 23 gennaio 2021 http://astrolabio.amicidellaterra.it/node/2261 – Quello che segue è il contributo – tratto da RivistaEnergia.it – fornito dal espresso dal professor Alberto Clô in un’editoriale scritto per “L’Astrolabio”, newsletter online degli Amici della Terra. Si tratta di un commento seguito alla pubblicazione della Carta sulle aree potenzialmente idonee ad accogliere il deposito nazionale dei nostri rifiuti radioattivi.
Clô ricorda sinteticamente i ritardi che hanno riguardato questa decisione negli ultimi diciassette anni, in gran parte determinati da atteggiamenti irresponsabili della classe politica, dei mezzi di informazione ma anche della cosiddetta società civile.
A questo proposito, ci teniamo a ricordare che gli Amici della Terra, ambientalisti e antinucleari della prima ora, su questo argomento, hanno sempre tenuto la barra ferma nel reclamare una soluzione sicura alle poche scorie prodotte, ai rifiuti derivati dallo smantellamento delle centrali e dalle normali attività di ospedali e centri di ricerca.
Fu il nostro fondatore Mario Signorino, da presidente dell’ANPA, l’ente tecnico allora responsabile dei controlli, a porre per primo, nel 1995, un problema che nessuno voleva affrontare.
E gli Amici della Terra, da soli fra gli ambientalisti, denunciarono la proposta sbagliata di Scansano nel 2003 e le proteste sbagliate che le vennero opposte. In questi anni non hanno mai mancato di denunciare ritardi colpevoli e opposizioni capziose.
Oggi, ci auguriamo che il percorso di consultazione pubblica possa aiutare a definire una localizzazione opportuna e a superare le residue resistenze pregiudiziali a quello che, oltre ad essere un impianto irrinunciabile per la sicurezza di tutti, potrebbe rappresentare anche un polo di ricerca attrattivo di qualificate professionalità.
Nella migliore delle ipotesi ci saranno voluti 49 anni per arrivare avere un deposito idoneo per i nostri rifiuti nucleari
Una Carta redatta a distanza di trentatré anni dall’uscita del nostro paese da questa tecnologia a seguito del referendum del 1987. Si prevede che i tempi possano proiettarsi tra consultazione pubblica, redazione della Carta definitiva, aggiudicazione dei lavori, loro esecuzione sino al 2036.
Considerando che nel nostro Paese il rispetto dei tempi di ogni progetto pubblico è cosa unica più che rara, si pensi al MOSE di Venezia, non è esagerato ritenere che si possa andare fin quasi alla metà del secolo.
Per comprendere le severe critiche che ne sono immediatamente seguite – dagli enti e popolazioni locali, dai capi partito, da ministri stessi del Governo, financo dai movimenti ambientalisti – è utile riavvolgere il nastro della storia energetica del nostro Paese, per rimediare ad una memoria sempre corta.
Un po’ di Storia per un Paese dalla memoria corta
Risalendo al 2003, quando il II Governo Berlusconi dichiarò col DPCM del 14 febbraio 2003 lo «stato di emergenza» nelle regioni Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Basilicata, Piemonte in cui sono disseminate le scorie, «considerata l’ineludibile esigenza di assumere iniziative straordinarie e urgenti volte a realizzare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi dislocate nelle centrali nucleari presenti sui loro territori».
In modo improvvido e improvvisato SOGIN individuò il Comune di Scanzano Jonico (provincia di Matera) come sito per la realizzazione del deposito. Ne derivò una sollevazione popolare con immediata marcia indietro del Governo che reiterò il decreto togliendo, in modo ridicolo, il nome di Scanzano Jonico.
Da allora il problema è rimasto irrisolto e lo «stato di emergenza» stancamente protratto di anno in anno, quasi che le ragioni d’urgenza fossero venute meno.
Da uno stato di emergenza pluriennale…
La questione fu ripresa dal II Governo Prodi nel 2007 con la definizione da parte del ministro Pierluigi Bersani di una road map per giungere, dopo un accordo con la Conferenza Stato-Regioni, a una definitiva soluzione del problema entro il 2008.
La cosa non avvenne perché pochi giorni dopo l’insediamento del III Governo Berlusconi nel maggio 2008 l’allora ministro dell’Industria Claudio Scajola annunciò la «rinascita nucleare italiana».
«Entro questa legislatura – dichiarò enfaticamente all’assemblea generale di Confindustria – porremo la prima pietra per la costruzione nel nostro Paese di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione».
Entusiastico fu l’immediato assenso, quasi liberatorio, dell’industria elettrica; della grande stampa, delle associazioni industriali, del mondo della ricerca. I presupposti, a dire di ENEL e del Governo, c’erano tutti: un basso costo delle centrali (tre miliardi di euro ciascuna); rapidi tempi di costruzione (tre anni); quasi interamente realizzate da imprese italiane! Obiettivo: portare la quota del nucleare da zero al 25% della generazione elettrica.
Fu un ennesimo fallimento, per ragioni politiche ma anche perché quei vantati presupposti erano totalmente errati. La centrale in costruzione in Francia verrà a costare diciannove miliardi euro mentre i tempi di realizzazione di quella finlandese hanno già superato i quindici anni.
… a una rinascita nucleare improvvisata
Altro fallimento – e qui ci riallacciamo alla proposta di SOGIN – fu l’incapacità della Conferenza Stato-Regioni a individuare un sito per il deposito delle scorie radioattive e la decisione del Governo di rinviare la decisione che, a suo dire, si sarebbe dovuta tassativamente prendere entro la fine del 2008. Quel che non avvenne con l’annuncio del nuovo governo di voler riprendere la costruzione di centrali nucleari.
Come fosse possibile una loro ripresa, che avrebbe aggravato il problema delle scorie, senza essere riusciti a dare una soluzione a quelle sin lì accumulate, dà conto dell’assoluta improvvisazione con cui si prospettò la «rinascita nucleare».
Soluzione, peraltro, estremamente complessa da raggiungere in un Paese caratterizzato da un confuso assetto delle responsabilità decisionali non riconducibile alla sola riforma del Titolo V della Costituzione, ma ancor prima al venir meno di ogni spirito di solidarietà nazionale col prevalere di logiche localistiche fomentate dalla politica incapaci nell’energia di realizzare una qualsiasi infrastruttura, impianto, investimento, a prescindere dal loro impatto ambientale.
Prospettando magari che siano altri paesi a farsi carico delle nostre scorie o, come sostenuto da Legambiente, di individuare «per quelle ad alta intensità un deposito europeo». Quel che significherebbe aprire un nuovo capitolo, avviare trattative tra i numerosi Stati membri, sui siti idonei e sulle compensazioni. Il tutto, nel tentativo di non tenere in casa nostra i nostri stessi rifiuti. In altre parole, equivarrebbe a lasciare le cose allo stato attuale indefinitamente.
Una minaccia reale
Nel guardare al futuro bisognerebbe quindi partire dallo stato di emergenza dichiarato circa vent’anni fa, osservando la precarietà dell’attuale sistemazione delle scorie. Uno stato che perdura a dimostrazione dell’ignavia del nostro Paese e di chi lo governa a rimediare a una reale minaccia per le popolazioni. Un rischio largamente maggiore di quello che si avrebbe con la sistemazione definitiva delle scorie.
Chi oggi si oppone alla proposta di SOGIN dovrebbe spiegare allora alle popolazioni perché l’attuale loro precaria sistemazione sia migliore di quella prospettata e perché la salute della gente sia meglio salvaguardata con quella che, dichiarò nel 2003 l’allora ministro dell’Industria Antonio Marzano, «non è degna di un paese civile».
(*)Alberto Clô è direttore di ENERGIA e RivistaEnergia.it