NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (4)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

XI

   Quel mattino, durante il tragitto verso il palazzo di giustizia Zorzon non smise di pensare a Jaffna. Istintivamente percepiva che il giovane extracomunitario fosse estraneo a quella brutta vicenda, infatti la lite degenerata in violenza brutale gli parve poco plausibile, mentre a suo avviso lui quella storia mostrava tutti i contorni di una esecuzione a freddo.

«Si capisce benissimo che non è un criminale – si lasciò sfuggire bisbigliando mentre fissava un punto imprecisato dell’orizzonte attraverso il parabrezza dell’autovettura – quello è solo un povero fesso, un ladro di polli. Non si rende conto della gravità della situazione nella quale è precipitato e continua a coprire il suo complice, il ladro del telefonino e del documento».

Il soliloquio del capo della Squadra Mobile si trasformò in un dialogo con l’ispettore che era alla guida del veicolo.

«Battaglia, scolta ‘na roba e poi dimmi se per te fila, però segui bene il ragionamento eh… Uno del mestiere al massimo si sarebbe accollato il furto ma non la ricettazione, giusto!?! Ecco, un “dritto” farebbe di tutto almeno per beccarsi la pena edittale più lieve, non so se rendo l’idea… invece lui fa tutto il contrario e si mette ancora di più nei casini finendo per pagare di più. A me sembra tutto così illogico. Questo con l’omicidio non c’entra una mazza. Dai retta a me, è solo un povero coglione che neanche sa cosa sia una Glock».

Alle dieci e tre quarti i Carabinieri della Sezione Investigativa si trovavano già in Procura, accomodatisi alla meno peggio nell’ufficio della dottoressa Rosalba Catalano, della quale si attendeva l’imminente arrivo.

Quando Zorzon fece ingresso nella stanza la prima persona che notò fu il capitano Cadrella. Era in piedi accanto a un colonnello Borlacco visibilmente tronfio, a sua volta seduto su una poltroncina.

Con un cenno della mano salutò i presenti, venendo subito ricambiato dagli astanti. Soltanto Cadrella non rispose al saluto, riuscì soltanto a disegnare una smorfia a denti stretti che neppure lontanamente somigliava a un convenevole.

Erano così diversi fra loro Zorzon e Cadrella. Il secondo, malgrado il suo pessimo carattere non era poi un cattivo ufficiale. Al contrario, spesso in operazioni si dimostrava assai brillante, tuttavia la sua immagine veniva puntualmente rovinata dai suoi fastidiosi atteggiamenti. Cadrella nutriva invidia nei confronti di coloro i quali avevano maggiore successo di lui. Era per questo che il capo della Mobile proprio non gli andava giù e nei confronti di quest’ultimo si esprimeva sempre con una punta di spocchia, repressa a fatica solo quando lo imponevano le circostanze.

La dottoressa Catalano arrivò alla riunione con cinque minuti di anticipo. Raggiunta la sua scrivania si liberò con sollievo delle due borse ricolme di carte che recava con sé poggiandole a terra, quindi, sfinita, finalmente si sedette. Dopo un giorno e una notte di lavoro a Padova avrebbe voluto andarsene di corsa a casa a farsi una doccia e a mettersi a letto per recuperare il sonno perduto, invece fu costretta a fare tappa in Procura per discutere di questo nuovo caso. Esordì algida, senza concedere alcuno spazio a digressioni di sorta dei suoi interlocutori, ponendo subito con decisione in scaletta gli argomenti da trattare.

«Bene signori, stamane abbiamo tre o quattro punti principali da affrontare, poi eventualmente ci dedicheremo ai dettagli. Colonnello, lei mi ha trasmesso gli esiti dei primi riscontri e la ringrazio. Dal rapporto emerge che una persona rivestirebbe particolare interesse ai fini dell’indagine. Ho avuto modo di sfogliare le carte soltanto velocemente e non mi sono ancora fatta un quadro preciso del soggetto… se non ricordo male si tratta di un pregiudicato noto all’Ufficio, vero?»

Si riferiva a Miro Kovacich, del quale aveva letto alcune note nel rapporto redatto da Zincone.

«Sì dottoressa – replicò con soddisfazione Borlacco – non ne abbiamo ancora la piena certezza, ma potrebbe avere avuto dei contatti con la vittima poco prima dell’assassinio. Forse è stata una delle ultime persone a vedere il Calegaro».

Borlacco proseguì nella sua esposizione estraendo dal mazzo la sua carta vincente.

«Veda dottoressa, se lei lo consente avremmo da mostrarle qualcosa di più su questo Kovacich, informazioni che a nostro avviso potrebbero rivelarsi decisive ai fini di una rapida e positiva conclusione dell’indagine».

L’ufficiale fece una pausa, come se attendesse il beneplacito dal pubblico ministero per continuare a parlare, quindi proseguì.

«I nostri carabinieri sono risaliti alle tracce digitali della possibile presenza del Kovacich nei paraggi del luogo del delitto proprio all’ora in cui veniva commesso. Siamo in possesso delle registrazioni video di alcune telecamere a circuito chiuso installate presso le pompe di benzina e nell’autogrill di un’area di servizio sull’autostrada A28, sia quelle per la sorveglianza esterna che quelle interne alla caffetteria. Inoltre, gli uomini in forza alla Sezione Investigativa del Reparto hanno visionato le immagini riprese dalle telecamere esterne del sistema di sorveglianza della caserma Forgiarini di Tauriano e anche da quelle risulta il transito di un suv di modello e colore corrispondente a quello di proprietà del pregiudicato triestino».

Le conclusioni del colonnello non tardarono.

«Dunque, ricapitolando: un fuoristrada del tutto e per tutto identico a quello del Kovacich transita davanti alla caserma di Tauriano, quindi a pochissima distanza dal luogo del delitto, circa quarantacinque minuti dopo la mezzanotte di domenica. Di tale automezzo, data la loro posizione e il loro orientamento, le telecamere della caserma non sono state in grado di riprenderne la targa. Sebbene le immagini siano state registrate di notte, del suv siamo comunque venuti in possesso di particolari abbastanza nitidi. Diverso il discorso relativo all’autogrill, dove invece risulta perfettamente leggibile l’alfanumerico della targa, corrispondente a quello del veicolo immatricolato in provincia di Trieste e attualmente di proprietà del Kovacich. Per altro, il soggetto in predicato è stato anche riconosciuto mediante un raffronto delle immagini ricavate dalle zoomate effettuate sulle registrazioni video con le foto segnaletiche del nostro schedario. All’una e ventisette ha fatto ingresso insieme ad altre due persone nell’autogrill dell’area di servizio Gruaro Ovest, sita a un chilometro circa dallo svincolo per Portogruaro e a due dal raccordo di immissione nell’autostrada A4 Torino-Trieste, da dove presumibilmente potrebbe aver raggiunto il capoluogo giuliano e, successivamente, la frontiera con la Slovenia. Sempre nella medesima area di servizio, ma una decina di minuti dopo, quindi all’una e quaranta circa, anche le telecamere installate presso le pompe dei carburanti hanno ripreso il suv mentre faceva rifornimento di gasolio, dopodiché la macchina è ripartita. I tempi coinciderebbero quindi con l’ora dell’omicidio del Calegaro Nevio».

Kovacich era un pregiudicato e questo rendeva i suoi comportamenti relativamente prevedibili agli inquirenti. Furono sempre i Carabinieri a occuparsi dell’articolata proposizione del soggetto. Essi tratteggiarono i contorni della personalità del pusher triestino descrivendone i trascorsi e le non poche ambiguità. Nell’ultima parte del summit vennero esaminati anche gli altri elementi disponibili e vagliate tutte le piste residuali. Si tornò nuovamente su Jaffna, ma alla luce di queste novità la posizione del marocchino non appariva più cardinale. Se fosse risultato negativo all’esame dello stub sarebbe uscito di scena con un paio di denunce a piede libero. Era Kovacich adesso il principale indiziato dell’omicidio.

«Droga? – si inserì la dottoressa Catalano – Potrebbe entrarci?»

Un ipotesi niente affatto peregrina, dato che il pregiudicato nel passato  aveva avuto a che fare proprio con gli stupefacenti. Ma in che modo poteva risultare coinvolto in faccende del genere un insospettabile come Calegaro?

Per interrogare Kovacich avrebbero dovuto mettergli le mani addosso, ma per riuscirci non si doveva allarmarlo, quindi bisognava mantenere un basso profilo con la stampa, magari depistandola un po’ per alcune ore. A questo scopo la storia del marocchino andava proprio a pennello, infatti pareva fatta apposta per confondere le idee. Se lo spacciatore di Servola fosse rimasto tranquillo lo si sarebbe potuto beccare dalle sue parti, mentre al contrario, qualora fossero emerse delle indiscrezioni sui giornali con ogni probabilità si sarebbe reso irreperibile.

La Catalano concluse il summit delineando le linee guida per gli investigatori.

«L’autorizzazione alla visura dei tabulati dal Gip ve l’ho fatta avere subito, però adesso bisogna sbrigarsi. Sono dell’idea che sia il caso di disporre una serie di captazioni a “tappeto” delle conversazioni telefoniche di tutti i possibili sospettati. Non solo Kovacich, ma anche i pusher che la vittima contattava abitualmente e, se necessario, anche la sua cerchia familiare e suoi conoscenti. I parenti di Calegaro li avete già sentiti?»

La piemme si rivolse direttamente al capo della Mobile.

«Zorzon, lei cosa ne pensa?»

«Vada per le intercettazioni dottoressa».

La Catalano aveva fretta di chiudere l’inchiesta. Aveva iniziato a condurre le danze accentrando tutto su di sé, perfettamente consapevole che la pista giusta doveva essere imboccata nell’immediatezza dei fatti. Oltre le trentasei-quarantotto ore sarebbe stato forse troppo tardi e a Pordenone il tempo ormai trascorso cominciava a essere troppo, un aspetto che la innervosiva non poco.

   «Un colpevole a tutti i costi non ci serve – concluse la piemme – non abbiamo certo bisogno di infilarci nei casini per finire presto e fare bella figura. Coordinerò personalmente il lavoro in aderenza con gli organi di polizia giudiziaria. Allo scopo di aggiornarci reciprocamente terremo degli incontri qui in Procura oppure nelle varie sedi. Per quanto mi riguarda se non ci sono osservazioni o domande è tutto».

  

XII

   Nel piccolo negozio di Piazza Borgolucido da sempre le attività si susseguivano con estrema monotonia. Dietro il bancone di legno e cristallo dal design antiquato Luisella trascorreva il tempo in attesa dell’ingresso di un cliente pensando al prossimo fine settimana di là da venire.

Con i ragazzi della comitiva legava abbastanza bene, seppure non avesse stretto profonde amicizie con nessuno di loro. Tranne che con Dorina, un’esile ragazza di Baseglia dai capelli biondo cenere che lavorava come portantina all’ospedale civile. Con lei aveva legato in modo particolare, però un giorno, improvvisamente, era avvenuto il distacco. Un allontanamento reciproco apparentemente privo di motivi. Entrambe avevano continuato poi a frequentare lo stesso gruppo, ma la confidenza di prima era andata attenuandosi. Un saluto, due parole di circostanza e le conversazioni finivano lì. Qualcuno opinò che dietro quel raffreddamento ci fosse stato un contrasto di natura sentimentale, una rivalità in amore. Era iniziata a circolare la voce che il presunto comune oggetto del desiderio fosse stato Giorgio, un trentenne che faceva il benzinaio nella stazione di servizio poco fuori Dignano, frequentatore anche lui del bar di via Cavour.

La realtà era invece ben altra. Luisella custodiva un segreto che la rendeva diversa dalle sue amiche. Un turbamento che la consumava da anni ormai aveva raggiunto la forza tale da imporsi prepotentemente su quella artefatta naturalezza che fino ad allora era riuscita a esibire esteriormente a costo di grandi sforzi. Luisella da alcune settimane era riuscita finalmente ad accettarsi, anche se per il momento, nonostante questo enorme passo in avanti, aveva continuato a mantenere integre le apparenze, mantenendo ancora imprigionati i propri sensi.

Si era segretamente innamorata di una ragazza e ciò la rendeva felice, tuttavia, allo stesso tempo la turbava. Come avrebbero potuto reagire i suoi genitori una volta venuti a conoscenza di tale diversità?

Era una lesbica in un piccolo centro di provincia. Una società dove, malgrado la gente si fosse gradualmente affrancata da certe forme di discriminazione, al di sotto di una superficiale patina di ipocrisia aleggiavano ancora i pregiudizi. Luisella voleva evitarli, non si sentiva pronta per il passo decisivo. Per dichiararsi ci sarebbe voluto ancora tempo e forse lo avrebbe fatto lontano da Spilimbergo, in un altro luogo dove poter vivere liberamente la propria sessualità.

Per lei tutto era cambiato da quando aveva conosciuto Antonella. La prima volta che la vide fu al negozio, quando entrò per informarsi sul prezzo di un paio di sandali di cuoio.

   «Ciao, potresti dirmi quanto costano quei sandali avorio esposti in vetrina?»

La sua inflessione dialettale ne aveva tradito le origini meridionali. Luisella l’aveva guardata fissa negli occhi scuri e poi le aveva risposto.

   «Quarantacinque euro, sono a saldo… belli vero!?! Quanto porti di piede? Vieni che te li faccio provare, siediti qui».

Avrebbe voluto trattenerla con sé senza farla andare via, desiderava ardentemente conoscerla, prenderci confidenza per poi farsi dare il suo numero di telefono. Antonella era una ragazza piacente, non troppo alta e con qualche chilo di troppo accumulato però nei punti giusti, un sovrappeso che non comprometteva la sua linea aggraziata; portava i capelli mori mossi sciolti sulle spalle, a coprire due grandi orecchini ad anello pendenti dai lobi ed evidenziava con un tratto di rossetto vermiglio la forma a cuore della sua bocca sensuale.

Dopo avere osservato accuratamente le calzature fece intendere alla commessa di non essere intenzionata all’acquisto.

   «Ti ringrazio, ma volevo soltanto sapere il prezzo… sì, in effetti sono molto belli».

Luisella pensò che fosse una soldatessa di qualche caserma del circondario, ma nonostante ciò le pose egualmente la domanda in un ultimo tentativo di agganciarla.

   «Sei di giù, vero?!? Si sente subito dalla parlata. Ti trovi a Spilimbergo per lavoro?»

Antonella le rispose frettolosamente che proveniva dalla provincia di Salerno ed era in ferma triennale nell’Esercito.

   «Mi hanno mandata qui da voi a Tauriano».

   «Torna – disse Luisella sorridendole – noi ogni tanto scontiamo la merce, magari puoi trovare qualche articolo carino… comunque, ciao! Io sono Luisella e se hai bisogno mi trovi sempre qui».

Da dietro la cassa le si fece incontro per stringerle la mano. Si salutarono e la soldatessa uscì dal negozio. Lei la osservò andare via ancheggiando a passo veloce attraverso Piazza Borgolucido.

Dopo circa un mese, un tardo pomeriggio la caporalessa fece nuovamente ingresso nel negozio di scarpe, trovando la commessa arrampicata su una scaletta con delle scatole di cartone in mano mentre era intenta al riordino di uno scaffale.

   «Grandi pulizie di stagione? – Le chiese – Tante volte avessi ancora quei sandali dei quali ti chiesi il prezzo qualche tempo fa… io porto il trentotto. Dai, ti prego, dà un’occhiata in magazzino, magari li trovi».

Il cuore di Luisella prese a battere forte. Antonella era tornata: adesso non avrebbe dovuto perdere l’occasione per farci amicizia.

   «Guardo subito, aspetta qui!»

Si precipitò nel magazzino sottostante e dopo poco risalì di sopra con una scatola che sul lato recava stampata la scritta sandalo mod. Capri avorio 38.

   «Ah, Capri! – esclamò Antonella con simulato compiacimento – allora questi li fanno dalle parti mie…»

   «Mi spiace deluderti – replicò Luisella giocando a infrangere quel sentimentalismo di maniera – ma queste le fabbricano in Romania per conto di una ditta delle Marche, di napoletano qua c’è solo il nome».

Invitò la soldatessa a sedersi su una panca e le sfilò dolcemente uno degli stivaletti che calzava. Nell’infilarle il leggero sandalo di cuoio le carezzò leggermente con la mano il piede dalle unghie curate. Pensò che fosse un stranezza che li avesse così belli, con quegli scarponi pesanti che portano i militari se li immaginava tutti rovinati.

Antonella acquistò quelle scarpe e le due ragazze si rividero presto, quando la soldatessa ritornò ancora nel negozio a chiedere altri prezzi di scarpe. Tra loro nacque un’amicizia. I casuali incontri durante il passeggio in Corso Roma fecero poi aumentare la reciproca confidenza.

Uscirono insieme alcune volte al sabato sera, ma al di fuori della cerchia di amici del bar di Via Cavour.

Antonella voleva allargare il giro delle sue conoscenze in quel luogo lontano da casa dove era stata trasferita dopo il corso di addestramento. Aveva sperato in una destinazione diversa, più vicina alla sua regione, invece l’avevano spedita lassù, in quella enorme caserma immersa nella pianura a ridosso delle Alpi, una terra piatta e stepposa coltivata a vigneti e granoturco.

Lei non possedeva certo la vocazione della “guerriera”, al contrario soffriva non poco l’ambiente castrense. Si era arruolata solo perché quella era l’unica maniera di trovare un lavoro sicuro. Si capiva a prima vista che quella ragazza così carina e simpatica aveva un gran desiderio di divertirsi.

In un primo momento non comprese la passione che infuocava l’amica, ma ormai era perennemente nei pensieri di Luisella, nei suoi sogni più morbosi. Quest’ultima un bel giorno riuscì a vincere le proprie inibizioni. Mentre erano insieme in auto ferme al semaforo di Ponte Meduna, sulla statale Pontebbana, spostò lentamente la mano dal pomello della leva del cambio e le carezzò dolcemente la coscia spingendosi fino all’inguine.

Attese la sua reazione. Attimi infiniti di trepidante speranza. La caporalessa fece volutamente trascorrere alcuni istanti senza mai abbassare lo sguardo dagli occhi dell’amica, poi a un tratto scattò il verde e Luisella dovette ingranare la prima e svoltare a sinistra in direzione di Zoppola.

Antonella continuò a non far trasparire emozioni, non un commento, non una rimostranza: nulla. Trascorsero altri interminabili secondi, fino a quando Luisella non prese con decisione la situazione nelle mani. Condusse velocemente la Panda all’imboccatura di una strada poderale, quindi con una brusca manovra svoltò a destra senza neanche mettere la freccia e dopo una decina di metri arrestò la marcia davanti alla sbarra metallica abbassata che ostruiva l’accesso al fondo. Si osservarono ancora studiandosi, come per scrutare all’interno delle menti per carpirne i reciproci pensieri. Fu solo allora che Antonella ammiccò un sorriso complice.

«Ti piacciono le femmine eh!?! Lo avevo capito sai… mi mancava solo la conferma».

Baciò la commessa sulle labbra infilandole la lingua in bocca.

   «Guarda che mica mi spaventa fare sesso con una donna – le sussurrò prima di dare inizio a un voluttuoso amplesso – però deve assolutamente restare fra noi».

In quel momento Luisella pensò che finalmente avrebbe potuto vivere appieno la propria sessualità al riparo da occhi indiscreti anche in un piccolo centro di provincia. Sarebbe bastato cautelarsi durante gli incontri, evitando il ripetersi di quanto accaduto con Dorina, quando i sentimenti provati per la portantina di Baseglia trasparirono dai suoi comportamenti. In quel caso, come per un tacito accordo, si allontanarono l’una dall’altra mantenendo esclusivamente dei rapporti formali all’interno della comitiva di Via Cavour. Dal canto suo, anche Antonella aveva tutto l’interesse a non far emergere la sua bisessualità, il frutto del desiderio, il piacere di trasgredire con una lesbica.

In seguito le due ragazze si incontrarono in luoghi appartati fuori da Spilimbergo, mantenendo sempre le apparenze esteriori di due amiche che si frequentavano assiduamente. Il loro flirt clandestino si consumò attraverso una serie di frettolose “sveltine” all’interno dell’abitacolo della Panda di Luisella, nell’intimità occasionale di volta in volta offerta dai boschetti e dagli anfratti nei magredi.

  

XIII

   Primo non amava fare lunghi viaggi alla guida dell’automobile, la usava soltanto per brevi percorsi e soltanto di giorno, quando era proprio necessario al massimo si spingeva fino a Udine dalla sorella. Non ci vedeva più bene, con la vecchiaia la sua vista era peggiorata e al volante si stancava presto. Inoltre, era costretto a delle frequenti soste intermedie nel primo bar che incontrava lungo la strada a causa della minzione provocata dal farmaco che assumeva per abbassare la pressione arteriosa. Quando invece si serviva dell’autobus, la partenza dell’ultima corsa per Spilimbergo alle otto di sera gli imponeva un ferreo timing durante le sue giornate udinesi: dopo aver pranzato con Ada si sedeva sul divano per riposare un poco; lei gli copriva amorevolmente le gambe con un plaid e poi si sedeva accanto a lui ad ascoltare i concerti trasmessi dal quinto canale della filodiffusione. Era sempre Ada a svegliarlo con dolcezza dopo mezzora, avvisandolo che avrebbe dovuto prepararsi a uscire. Primo era solito raggiungere a piedi l’autostazione di viale Europa Unita, lì prendeva la corriera prima dell’ora di punta per evitare di farsi il viaggio di ritorno in piedi. Quella delle visite settimanali alla sorella era divenuta una consuetudine.

Primo, Ada e Nevio erano i figli di una coppia di insegnanti. Arrigo Calegaro, professore di matematica, che durante la guerra era stato inviato sul fronte orientale, reduce dalla tremenda ritirata di Russia con una gamba rovinata da un principio di cancrena, aveva ritrovato la moglie e i suoi due bambini a Spilimbergo. Nel 1943 Nevio non era ancora nato, l’ultimo dei Calegaro avrebbe visto la luce un anno dopo.

Dopo l’armistizio, seppure non più giovanissimo, aveva preso parte alla Resistenza nella zona destra Tagliamento. Con la pace, Arrigo e sua moglie Elvira tornarono a insegnare a scuola. Ispirati da una visione integralista della fede, formarono una coppia che fuse la dimensione intimistica del proprio credo con quella sociale, fatta di volontariato in parrocchia.

Nel clima di dura contrapposizione ideologica che caratterizzò l’immediato dopoguerra si iscrissero alla Democrazia Cristiana. Nel 1948, convinti che la struttura del loro partito fosse inadeguata al confronto con la massiccia e capillare organizzazione del Partito comunista italiano, si accostarono ai Comitati civici di Luigi Gedda, che in quel periodo andavano inquadrando parte dei militanti nei cosiddetti nuclei di prevenzione, preparandoli a un’eventuale contrasto del Fronte popolare se si fosse affermato alle elezioni. Col sostegno del Vaticano, degli ambienti confindustriali e degli americani, questi nuclei si moltiplicarono fino a divenire oltre ventimila, disponendo di un proprio servizio informazioni e di un’emittente radiofonica clandestina attraverso la quale sarebbe stata decretata la mobilitazione se avessero vinto i rossi. Articolati sul territorio nazionale attraverso le parrocchie, i comitati di Gedda si avvalsero del lavoro svolto da un centinaio di responsabili provinciali e da una nutrita schiera di fiduciari comunali. Tra questi figurava anche Arrigo, che però a un certo punto si distaccò dalla politica, continuando comunque a frequentare gli ambienti parrocchiali di Spilimbergo.

Fu in quel periodo che rinsaldò la sua amicizia con don Verzotto, il prete di Tarcento mite e riflessivo dal grande carisma e la notevole cultura. In occasione di eventi importanti dal seminario di Udine raggiungeva il duomo di Spilimbergo per coordinare le attività dei volontari. Alto, dal fisico asciutto e dallo sguardo penetrante, aveva tutte le caratteristiche dell’asceta. Quando si rivolgeva ai suoi interlocutori lo faceva con pacatezza, misurando attentamente ogni espressione e trovando sempre i termini appropriati che lo rendevano esplicito e convincente. Un leader dalle spiccate doti pastorali che, per il locale gruppo dell’Azione cattolica, fu molto più di un sacerdote, piuttosto un uomo in grado di leggere con lucidità gli avvenimenti del proprio tempo attraverso una visione cristiana della vita.

La generazione di Primo, Ada e Nevio si formò in questa temperie culturale. La figlia secondogenita dei Calegaro decise di seguire le orme materne e divenne una maestra elementare. Alcuni anni più tardi avrebbe lasciato la cittadina sul guado del Tagliamento per trasferirsi a Udine. I due maschi invece rimasero sempre a Spilimbergo, allontanandosene soltanto per lo svolgimento del servizio militare, entrambi come ufficiali di complemento nel reggimento alpino di Cividale.

Alla morte dei genitori Ada mantenne stretti rapporti esclusivamente con Primo, evitando gli incontri con Nevio. Si recò spesso a Spilimbergo in visita al fratello maggiore, lo fece fino al giorno della tragica scomparsa di don Verzotto, poi non vi ritornò più e la casa paterna venne venduta.

Nessuno dei tre Calegaro ebbe mai relazioni sentimentali stabili con un partner, furono sempre delle persone estremamente riservate, eccezion fatta per l’occasionale frequentazione del circolo della pesca da parte Nevio negli ultimi anni della sua vita. Ora erano rimasti in due: Primo e Ada.

La mattina seguente si sarebbero dovuti presentare dai Carabinieri per essere ascoltati in merito all’assassinio del loro fratello. L’anziana donna avrebbe voluto chiudersi nel proprio dolore, desiderava solamente che venisse accordata l’autorizzazione al funerale. Per lei il caso era chiuso, d’altro canto aveva smesso di interessarsi alla sorte di Nevio ormai da molto tempo.

(4 – continua)

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