di Giuseppe Morabito, generale in ausiliario dell’Esercito italiano e analista presso la NATO College Defence Foundation – Tutti in queste ora parlano delle elezioni negli Stati Uniti, tuttavia, prima di affrontare l’analisi dell’ultima guerra scoppiata nel Caucaso forse è il caso di fare delle premesse.
C’è sicuramente differenza tra un presidente Biden e un presidente Trump e ci saranno molteplici differenze in politica estera, soprattutto in materia di stile e approccio alle controparti.
Una superpotenza, due presidenti. Trump ha sempre utilizzato il potere americano nelle relazioni internazionali e nelle trattative di grandi affari in ambito globale convinto da una semplice verità: gli Stati Uniti non hanno alternative. Questo perché il mondo libero ha ancora bisogno della leadership americana e quella leadership deve sia responsabilizzare il suo popolo a livello nazionale sia i suoi alleati a livello globale.
Pertanto se gli Usa, chiunque ne sia alla loro guida, e soprattutto se sarà confermata la vittoria di Joe Biden, avranno ancora la volontà e la coesione politica per guidare il mondo libero, potranno farlo, ma solo di concerto con alleati impegnati e capaci. Nell’Indo-pacifico ciò significherà legami più profondi con l’Australia, la Corea del Sud, Taiwan e, ovviamente, il Giappone e forse anche l’India. Quanto all’Europa, gli americani hanno bisogno della NATO, ma solo se la NATO può essere trasformata in un gruppo di alleati capaci che possono condividere adeguatamente rischi, costi e oneri. Tuttavia, se una tale nuova NATO deve essere realizzata, l’America deve volerla guidare ed essere disposta a continuare a sostenere i costi di tale leadership, che rimarranno sostanzialmente alti. La cosa difficile al momento si concreta nel dover parlare di «alleati»: Francia, Turchia e Grecia lo sono ancora? Washington dovrà anche dimostrare la pazienza strategica necessaria per ricostruire e mantenere le alleanze delle quali ha sempre più bisogno. Biden lo sa, ma non sa ancora a quale costo e forse non ha la personalità sufficiente.I conflitti nel Caucaso. Intanto nel Caucaso, alle porte dell’area di responsabilità europea della NATO, si è riaperta la disputa tra Armenia e Azerbajan. Guerra che non potrà essere ignorata dalla nuova amministrazione per non lasciare pure quest’area sotto il potere decisionale di Putin ed Erdoğan.L’ultimo round di ostilità è scoppiato il 27 settembre, quando le forze azere, secondo quanto riferito e sotto lo sprone della Turchia, hanno effettuato attacchi contro gli insediamenti nella regione del Nagorno-Karabakh, compresa la capitale regionale Stepanakert. A seguito dei contrattacchi di ritorsione da parte delle forze separatiste, l’Azerbaigian ha lanciato quella che ha affermato di essere una «controffensiva» in risposta. Sia Armenia che Azerbaigian hanno fatto ampio ricorso alle armi pesanti durante gli scontri, tra le quali l’artiglieria, e hanno pubblicato filmati in cui mostravano la distruzione di veicoli corazzati e installazioni nemiche. Uno stato di guerra, legge marziale e mobilitazione sono stati dichiarati in Armenia, Azerbaigian e nell’autoproclamata Repubblica di Artsakh. Oltre mille persone, inclusi civili, sono state uccise dallo scoppio delle ostilità che si sono svolte lungo la linea di contatto/confine, nei pressi delle città del Nagorno-Karabakh e hanno coinvolto centri abitati al di fuori della zona di conflitto.Il 10 ottobre, entrambe le parti avevano concordato un cessate il fuoco per consentire lo scambio di prigionieri, il recupero dei corpi delle persone uccise nel conflitto e la cessazione delle ostilità. A questo dovevano seguire ulteriori colloqui volti a raggiungere una soluzione. I combattimenti proseguono. Nonostante ciò i combattimenti sono continuati e entrambe le parti si sono accusate a vicenda di violare il cessate il fuoco. Sabato 17 ottobre, le autorità azere hanno dichiarato che almeno dodici persone sono state uccise e altre quaranta ferite in attacchi missilistici che hanno preso di mira la città di Ganja. I belligeranti hanno successivamente concordato un secondo cessate il fuoco a seguito di consultazioni con il governo russo.L’Armenia e il vicino Azerbaigian hanno una disputa di lunga data sul possesso del Nagorno-Karabakh, che ospita circa 150.000 abitanti (per lo più di etnia armena) e si trova nell’ovest dell’Azerbaigian. Questo problema ha alimentato le tensioni tra i due paesi dal 1988; con circa 30.000 persone uccise nei combattimenti dal 1990 al 1994. I due paesi avevano dichiarato un cessate il fuoco nell’aprile 2016 dopo che la regione aveva vissuto quattro giorni di violenti scontri che avevano a suo tempo causato centinaia di morti. Anche oggi le tensioni tra i due paesi rimangono alte e ciascuna parte accusa spesso l’altra di violare gli accordi di cessate il fuoco.
In particolare, sabato 7 novembre sono proseguiti i combattimenti tra le forze etniche armene fedeli all’autoproclamata Repubblica di Artsakh e le truppe azere, con combattimenti incentrati sulla città strategicamente importante di Shusha (Nagorno-Karabakh). La città, che si trova su una direttrice principale che collega la capitale Stepanakhert all’Armenia, è stata teatro di aspri combattimenti negli ultimi giorni mentre le forze azere tentano di ottenere il controllo dell’importante arteria di trasporto.
Le cifre del conflitto. Cinquanta giorni di combattimento e tre accordi di cessate il fuoco che però non sono riusciti a fermare lo spargimento di sangue.
90.000 persone sono state sfollate dallo scoppio delle ostilità a settembre, di cui 40.000 sono fuggite dalla regione. Funzionari armeni hanno dichiarato che 1.177 dei loro militari sono stati uccisi, insieme a 54 civili.
L’Azerbaigian non ha ancora diffuso statistiche sulle perdite militari, diversamente da quelle civili, che ammontano a novantuno morti.
Il 22 ottobre, il presidente russo Vladimir Putin, intervenuto nella contesa in veste di mediatore diplomatico, ha affermato che oltre 5.000 persone hanno perso la vita. Ulteriori scontri all’interno e intorno alla regione del Nagorno-Karabakh sono altamente probabili nel breve termine e non se ne possono escludere lungo il confine armeno-azero al di fuori della regione contesa. Logicamente, le cancellerie occidentali sconsigliano ai loro cittadini di viaggiare in Nagorno-Karabakh e al confine tra l’Azerbaigian e l’Armenia.
Il coinvolgimento della Turchia. I negoziati per arrivare a una cessazione definitiva delle ostilità sono fortemente limitati dalle accuse dell’evidente coinvolgimento diretto della Turchia, sospettata di aver inviato miliziani siriani in supporto all’Azerbaigian, probabilmente gli stessi sanguinari terroristi utilizzati nei combattimenti in Libia.
Ankara, che è tuttora membro della NATO, ha respinto le accuse, ma i dubbi permangono e sono più che fondati.
Un comportamento scorretto e ambiguo quello di Ankara, da sempre legata all’Azerbaigian e ostile all’Armenia, di là dal becero negazionismo rispetto al genocidio degli armeni perpetrato poco oltre un secolo fa. L’appoggio militare, al ricchissimo Azerbaigian appare evidente soprattutto nel momento di crisi interna turca dovuto sia alla pandemia da «Virus di Wuhan», sia alla crisi economica acuita dal recente devastante terremoto.
In conclusione, quanto avviene nel Caucaso sarà uno dei primi dossier di politica estera a venire sottoposto all’attenzione del neo eletto presidente americano, anche perché la NATO, lo si voglia o no, è già coinvolta nel conflitto a causa della partecipazione di Ankara alla guerra armeno-azera.