CONFLITTI, Nagorno-Karabakh. Armenia in difficoltà sul campo di battaglia, ma nessuno media seriamente tra i belligeranti

La denuncia dei cristiani: «È in atto anche un genocidio culturale». Non solo i morti, contati già nelle migliaia, la guerra avrebbe portato nel corso degli anni a un vero e proprio genocidio di natura culturale. Scelte errate e svantaggi a livello internazionale di Erevan

L’attacco dello scorso 8 ottobre alla cattedrale di Sushi, simbolo della cristianità armena in Nagorno-Karabakh, era già un primo segnale. Il 13 ottobre, era stata una chiesa battista a venire colpita dalle bombe, ma nel corso di questi anni di conflitto numerosi edifici della cultura armena nel territorio che gli essi chiamano Artaskh sono stati oggetto di attacchi, al punto che in un recente studio ha parlato di un vero e proprio «genocidio culturale» in atto.

Dalla fine del mese di settembre il Nagorno-Karabakh è teatro della ripresa del sanguinoso conflitto. Finora l’Armenia ha dichiarato un migliaio di morti, mentre non risultano dichiarazioni ufficiali relative alle perdite da parte azera.

Pulizia «culturale» nella regione. L’Azerbaijan è un paese popolato in massima parte da musulmani, a differenza dell’Armenia, che è invece cristiana. La prima nazione cristiana cresciuta nel culto del Libro e in una incrollabile fede mantenuta dal suo popolo anche nella diaspora causata dal genocidio perpetrato dai turchi.

Ad Ankara vengono attribuite responsabilità proprio in ordine alla cosiddetta «pulizia culturale» nella regione. Il periodico d’arte “Hyperallargic” aveva trattato questo argomento già nello scorso febbraio attraverso un’inchiesta giornalistica di Simon Maghakyan e Sarah Pickman dai cui risultati emergeva come il governo di Baku negli ultimi trenta anni si era impegnato nella sistematica cancellazione della storica eredità culturale armena.

«Una distruzione coperta che ha superato in grandezza persino quella di Palmira in Siria a opera del sedicente Stato Islamico», hanno scritto Simon Maghakyan e Sarah Pickman.

Il sito archeologico di Djulfa. In particolare, Maghakyan, analista residente a Denver, in Colorado, è partito dalle testimonianze rese dal proprio padre riguardanti un sito chiamato Djulfa, che si trova nell’enclave azera di Nakhichevan, sulle rive del fiume Araxes, una necropoli medievale che era il più grande cimitero armeno nel mondo.

Tra i visitatori del sito, scrittori come Alexandre de Rhodes e William Ouseleym che avevano potuto ammirare i 10.000 krachkar, le tipiche croci armene che si trovano un po’ ovunque, e che risalivano indietro nel tempo fino al VI secolo.

Dal 1920, anno in cui il Nagorno Karabakh e Nakhichevan furono formalizzate dai sovietici come regioni autonome, il sito ha vissuto decenni di saccheggio. Quando nel 2000 l’Unesco lo inserì tra i patrimoni tra preservare, erano rimasti solo 3.000 krachkar.

Però, le iniziative dell’Unesco sortirono scarsi effetti. Il 15 dicembre 2005, il vescovo Nshan Topuzian, della Chiesa armena di Iran, filmò dal confine iraniano militari azeri che metodicamente abbattevano con le ruspe tutto ciò che rimaneva di Djulfa. Il filmato è finito nel documentario del 2006 “Le nuove lacrime di Araxes”.

Il governo dell’Azerbaijan non ha mai permesso agli ispettori internazionali di visionare il sito e ha sempre negato che gli armeni abbiano mai vissuto in Nakhichevan.

Le testimonianze. Il rapporto pubblicato da“Hyperallargic” fa anche riferimento al lavoro di Argam Ayvazyan, ricercatore dell’Artsakh che tra il 1964 e il 1987 ha fotografato 89 chiese armene, 5.840 krakchkar e 22.000 pietre tombali su quel territorio, oggi tutte scomparse.

Altri documenti di un passato cancellato: le 80.000 diapositive di Steven Sim, uno scozzese che aveva viaggiato per trentacinque anni nei territori documentando, dal 1984 in poi, antiche vestigia armene, anche di quelle, difficile trovare traccia.

Non si tratta di un conflitto per ragioni religiose, eppure tocca le questioni religiose, poiché per gli armeni essere cristiani è parte della propria mentalità nazionale. Il pontefice, nel suo appello al termine dell’angelus della prima domenica di novembre ha fatto riferimento alla questione denunciando le «distruzioni di abitazioni, infrastrutture e luoghi di culto» e il «coinvolgimento sempre più massiccio delle popolazioni civili» nel conflitto.

Un conflitto che nessuna grande potenza ha tentato seriamente di mediare al fine di, quanto meno, attenuare la crisi in atto nel Nagorno-Karabakh. Al contrario, alcuni attori di rilievo sullo scacchiere internazionale e regionale hanno invece contribuito attivamente a mantenere la situazione incandescente.

I due clienti di Mosca. Nei primi giorni del conflitto l’Armenia si allineò con la Russia e i suoi interessi nella regione, un approccio che ha pagato nei primi anni 1990 nei termini della fornitura di attrezzature militari, addestramento e, financo, assistenza militare diretta. Questa eccessiva dipendenza da Mosca continuò a costituire il pilastro principale della politica estera di Erevan, che culminò in un patto di mutua difesa.

Tuttavia, la Russia negli ultimi decenni è divenuta anche un importante fornitore di hardware militare per l’Azerbaigian, oltreché fondamentale partner economico nel campo energetico.

Rispetto All’Azerbaigian l’Armenia è relativamente povera, condizione che, data la duplicità di interessi dei russi, ha infine posto il Paese caucasico cristiano in un significativo svantaggio in questo triangolo politico.

Lev Stesin, analista che collabora con il BESA Center, ritiene che questo non sia stato l’unico fallimento dell’Armenia, poiché forse un errore strategico ancora più grande sarebbe stato il proprio isolamento sulla scena mondiale.

Un aspetto apparentemente sorprendente data la collocazione internazionale della diaspora armena, che riveste posizioni consolidate ed è finanziariamente potente in Occidente, in particolare in Francia e negli Stati Uniti.

Diaspora e lobby armene. Queste comunità, prospere e politicamente influenti, non sarebbero tuttavia riuscite a rappresentare adeguatamente le necessità in termini di sicurezza del proprio paese di origine ai rispettivi governi e presso l’opinione pubblica in generale.

In un suo recente studio Stesin afferma che la potente diaspora armena sarebbe in grado di esercitare una leva strategica che solo pochi altri paesi delle sue dimensioni possono vantare, ma questo vantaggio lo ha però sprecato.

Vani, ad esempio, sono stati i recenti tentativi di sfruttare le relazioni con gli Usa e l’Europa, ma le opinioni pubbliche occidentali non hanno però familiarità con il conflitto caucasico e non sono pronte a fare proprie le argomentazioni di entrambe le parti in conflitto. Inoltre, non aiutano in questo senso le relazioni amichevoli intrattenute da Erevan con Teheran.

L’Azerbaigian ha il petrolio. È un paese gestito da una sola famiglia, gli Aliyev. Si tratta di un feudo a maggioranza sciita che governa il Paese sulla falsariga di come lo fanno gli emiri negli Emirati Arabi Uniti, però – sempre secondo Stesin -mantenendo un regime autoritario a tratti inetto e cleptocratico che acquista armi sia dalla Russia che da Israele.

Il coinvolgimento turco. Erdoğan, con la sua strategia imperiale revanscista, vuole presentare la Turchia come il difensore di tutto il popolo musulmano e turcofono, ma nel Caucaso le sue ambizioni si scontrano con gli interessi di Vladimir Putin.

Ankara sta aumentando il suo coinvolgimento diretto nel conflitto e si ritiene che la sua caccia abbia abbattuto alcuni Suchoi SU-25 dell’aeronautica di Erevan nello spazio aereo armeno. Inoltre, sta reclutando e inviando mercenari siriani al fronte in supporto alle forze di Baku, una sostanziale replica dell’approccio adottato in Libia.

«Tutti aspettano la risposta della Russia – asserisce Stesin – ma Putin è molto attento e non si farà coinvolgere in questo pantano, nonostante l’accordo militare con l’Armenia. Il conflitto, dopo tutto, gioca a suo favore, nel quadro della strategia del Cremlino sul cosiddetto estero vicino».

La strategia di Mosca. L’obiettivo di Mosca sarebbe dunque quello di destabilizzare i suoi vicini favorendo la creazione di stati semi-indipendenti in grado di venire gestiti con relativa facilità, conferendo al Cremlino la facoltà di regolare la temperatura politica in quei paesi.

La Russia potrebbe voler sostenere l’attuale conflitto allo scopo di indebolire l’Armenia e quindi svolgere il ruolo di pacificatore, rendendo in questo modo anche Erevan ancora più dipendente da  lei.

«La Russia non permetterà all’Armenia di sconfiggere sul campo l’Azerbaigian – ha concluso nella sua analisi Lev Stesin -, poiché ciò trascinerebbe inevitabilmente la Turchia nel conflitto, fatto che costringerebbe a sua volta a un intervento diretto sul campo di battaglia di Mosca».

Attualmente una risoluzione pacifica di questo conflitto non è dunque nelle agende dei suoi protagonisti.

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