CORONAVIRUS, scuola. L’insegnante prigioniero, tra diritto allo studio e tutela della salute

l dibattito sulla scuola ha fatto da sfondo al tema della pandemia di Covid-19 sin da marzo scorso, quando è stato immediatamente chiaro che l’emergenza sanitaria non sarebbe durata pochi giorni o poche settimane

a cura di Roberto De Vita (professore e avvocato), Antonio Laudisa (avvocato) e Marco Della Bruna – Il dibattito sulla scuola ha fatto da sfondo al tema della pandemia di Covid-19 sin da marzo scorso, quando è stato immediatamente chiaro che l’emergenza sanitaria non sarebbe durata pochi giorni o poche settimane.

Sulla bilancia del decisore, in equilibrio precario, si sono ammassati pericoli ed esigenze diverse: da una parte la necessità impellente di ridurre i contagi, dall’altra l’ostinata resistenza a modalità alternative alla didattica in presenza; da una parte l’assenza di programmazione nella gestione dell’emergenza, dall’altra le prevedibili resistenze dei genitori e le comprensibili difficoltà degli insegnanti. Sullo sfondo, il rischio di togliere istruzione e formazione ad un’intera generazione di bambini ed adolescenti.

Didattica a distanza. Prima del lockdown primaverile, i primi dirigenti scolastici che – piuttosto che prendere passivamente atto della necessaria sospensione delle attività scolastiche – proposero il ricorso alla didattica da remoto, si mossero in un contesto ignoto e non disciplinato [1]. Le iniziative, seppur lodevoli, richiedevano consapevolezza e regole, in primis da parte del Ministero dell’Istruzione.

Il tema della didattica a distanza ha immediatamente reso evidente uno dei sintomi più gravi della crisi del sistema scolastico: nonostante un chiaro e preoccupante scenario di lungo periodo, le risposte istituzionali in tema di istruzione (e non solo) hanno sempre inseguito le evoluzioni dell’emergenza, senza mai riuscire ad anticipare i problemi e le sfide in arrivo.

Tuttora, dopo ben otto mesi dalle prime sospensioni dell’attività didattica, manca un piano organico che chiarisca ai singoli istituti scolastici come gestire il rapporto tra didattica in presenza e didattica digitale: non si può più parlare di emergenza, ma eventualmente di disorganizzazione e sottovalutazione dei problemi, che non possono essere giustificati dal digital divide.

La scuola, così come altri settori nevralgici del Paese, è stata vittima del sistematico scarico di responsabilità che ha visto protagonisti lo Stato e le Regioni, rimasti di fatto silenti di fronte alle numerose istanze dei dirigenti scolastici, posti di fronte all’enorme responsabilità derivante dalle scelte sull’apertura degli istituti d’istruzione.

Insegnanti soli. Schiacciati in questa battaglia politica e burocratica, gli insegnanti, invece, si sono ritrovati soli: abbandonati prima ad una didattica a distanza (DaD) “fai da te”, dove le scelte originali e virtuose di pochi docenti “illuminati” non potevano sopperire al diffuso pressappochismo sistemico, sventolato con fiera miopia da chi ha ritenuto che, per insegnare e apprendere a distanza, fosse sufficiente un tablet ed una connessione internet (tra l’altro non disponibile su tutto il territorio nazionale, nonostante i copiosi investimenti sulla banda larga).

Dall’altro lato, anche per merito degli strenui oppositori della didattica digitale, gli insegnanti si sono poi trovati esposti, una volta riaperti gli istituti, al contatto quotidiano diretto con gli studenti, che, con la nuova crescita dei contagi, ha acuito il rischio per la salute di tutti (si tenga in conto che il 59% degli insegnanti italiani ha più di 50 anni [2]).

Il dibattito si è concentrato sull’individuazione di soluzioni temporanee e di dubbia efficacia, dai banchi con le rotelle fino ai surreali progetti sugli ingressi scaglionati. Tuttavia, sembra che nessuno si stia veramente occupando di due temi molto legati tra di loro: il ruolo dell’insegnante e le modalità di svolgimento della didattica.

Il ritorno allo status quo ante è, al momento, pura utopia: didattica frontale tradizionale ed in presenza, aule da venti o trenta studenti, giornate da cinque o più ore in classe sono solo alcuni degli aspetti che non solo è impossibile realizzare, ma diventa anche complicato sostituire, limitare o adattare. In questo quadro sconfortante, l’insegnante diventa il protagonista, suo malgrado, della mediazione e del bilanciamento tra due delle più grandi responsabilità che vive il nostro Paese: diritto allo studio e diritto alla salute.

Scuole chiuse o aperte? Le cronache attuali raccontano di una battaglia contro la chiusura delle scuole portata avanti in primis dal ministro dell’Istruzione: una lotta che spesso, tra numeri travisati [3] e dichiarazioni avventate, appare di principio, più che pratica e responsabile. Ad esempio, valorizzare il calo settimanale della percentuale di focolai riconducibile alle scuole come un segno della maggiore sicurezza dei luoghi d’istruzione è inesatto, se lo stesso report citato dal ministro spiega che la diminuzione è dovuta alla difficoltà di ricostruire i contatti. Allo stesso modo, è stata prematura (e forse avventata) la diffusione dei numeri sui contagi nelle scuole dopo sole due settimane di apertura, per di più parziale [4].

Spesso, dietro l’alibi della protezione del diritto allo studio dei ragazzi (soprattutto quelli più piccoli) si nasconde la preoccupazione dell’eventuale paralisi delle attività lavorative, laddove i genitori fossero chiamati a prendersi cura dei figli in didattica a distanza.

Viene, al contrario, da domandarsi se gli stessi insegnanti non preferiscano la didattica digitale, laddove messi in condizione di poterne usufruire al meglio. Le alternative, infatti, al momento sono poco confortanti, tra pericoli di contagio ad alto rischio ed esposizione a potenziali responsabilità, anche di natura penale.

Inoltre, non è stato certamente d’aiuto per il loro ruolo formativo quanto dichiarato nel corso del lockdown, ossia che gli studenti sarebbero stati promossi anche con insufficienze [5]: in un contesto già demotivante per i più giovani è stato reso ancora più difficile il lavoro degli insegnanti, il cui rapporto quotidiano con gli studenti non si esaurisce dopo la conferenza stampa di un ministro.

Il problema dei trasporti pubblici. Inoltre, sembra ormai evidente come l’apertura delle scuole non possa prescindere dal tema del trasporto pubblico. Infatti, attualmente circa il 40% degli studenti di medie e superiori dichiara di affidarsi ai mezzi pubblici per raggiungere la propria scuola [6]. Nonostante ciò fosse noto ben prima della riapertura, solo con il DPCM 24 ottobre 2020 è stato introdotto l’obbligo per le istituzioni scolastiche superiori di secondo grado di utilizzare la “didattica digitale integrata” per almeno il 75% delle attività, unitamente al divieto di organizzare l’ingresso a scuola prima delle 09:00 [7].

Tuttavia, l’organizzazione delle singole scuole, al fine di rispettare le indicazioni del CTS e la normativa emergenziale, ha comportato e continuerà a comportare una riduzione del monte orario di didattica di cui gli studenti usufruiscono. Il frazionamento dell’attività per fasce orarie può risolvere il problema dell’affollamento all’interno delle scuole, ma ne produce altri, meno manifesti, ma altrettanto dannosi.

Da un lato, è indubbio che questo approccio comporti un danno evidente alla formazione degli studenti; dall’altro, non potendo essere scaricato sui genitori il controllo costante sui ragazzi che normalmente si troverebbero a scuola, il risultato delle ridotte ore di lezione è la formazione di assembramenti di alcuni studenti che si incontrano nel tempo libero, in assenza delle misure di sicurezza, che li garantiscono maggiormente a scuola.

Fino ad ora, il dibattito sulla scuola e il lavoro del Ministero non si sono minimamente concentrati sulla possibilità di proporre una didattica a distanza disegnata sugli strumenti per le lezioni da remoto, possibilmente integrata con una didattica in presenza molto ridotta, concepita come un reale momento di confronto “fisico” con la classe, e non soltanto come un’opzione per ridurre l’affollamento scolastico. Soprattutto, non si è mai avuta l’impressione che potesse essere intrapresa una strada chiara e definita, capace di sopravvivere all’incertezza della pandemia.

Le categorie più fragili e bisognose. Vittime silenziose di questa grottesca improvvisazione sono, come sempre, le categorie più fragili, eppure più bisognose di attenzione: infatti, la condizione dei ragazzi necessitanti di sostegno o con disturbi dell’apprendimento – i quali, evidentemente, sono ancor più penalizzati dall’azzeramento della dimensione sociale e formativa rappresentata dalla scuola – non è stata oggetto di specifica analisi, in relazione ai protocolli emergenziali.

Una ulteriore conferma della disorganizzazione del comparto scuola riguarda, poi, le soluzioni adottate a fronte degli isolamenti fiduciari e delle quarantene, che hanno interessato sia alunni che docenti. Alcune scuole, infatti, a causa degli inevitabili contagi sorti a seguito della riapertura di settembre, si sono trovate ad affrontare carenze di organico; inoltre, non hanno potuto utilizzare la didattica a distanza per gli alunni a casa, poiché gli insegnanti in isolamento venivano considerati “in malattia”: questi, non andando fisicamente a scuola, non potevano nemmeno fare lezione [8].

Solo di recente il Ministero è corso ai ripari nei confronti di questo problema (che, come altri, era facilmente prevedibile), chiarendo come i docenti in quarantena con sorveglianza attiva o in isolamento fiduciario, in assenza di sintomi, non siano da considerare “in malattia” (come i soggetti positivi) e possano dunque regolarmente svolgere l’attività didattica in forma digitale [9].

Covid-19 e profili di responsabilità (anche penale). A complicare il quadro gestorio e organizzativo in tempo di pandemia, c’è il tema più spinoso, che affligge tutte le organizzazioni complesse: i profili di responsabilità (anche penale) che, nel contesto pandemico, aleggiano su dirigenti scolastici ed insegnanti impegnati nel garantire la prosecuzione delle attività scolastiche in presenza.

Il generale riconoscimento, in capo a dirigenti e insegnanti, di una posizione di garanzia rispetto agli allievi, pone entrambi nella condizione di essere ritenuti responsabili per quanto accaduto ai soggetti sottoposti al loro controllo, in via diretta o indiretta.

A tal proposito, la principale differenza riguarda la natura delle specifiche attività delle due categorie, che vede, in particolare, gli insegnanti esposti ad una vera e propria responsabilità da “culpa in vigilando”. Infatti, sull’insegnante grava un obbligo di vigilanza diretta rispetto a tutte le attività che i minori compiono e i comportamenti che pongono in essere sotto il controllo del docente: appare intuitivo il grado di esposizione (e rischio di contenziosi) che tale previsione sistemica può generare se associata all’imponderabile e sfuggente rischio di contagio in ambito scolastico.

E ciò ancor più per quelle realtà (scuole elementari e medie) dove la posizione di garanzia dell’insegnante è rafforzata. Realtà in cui, tuttavia, la didattica digitale necessita di maggiore consapevolezza e organizzazione, ma che viene sistematicamente evitata per paura degli effetti collaterali sulle famiglie, derivanti dalla necessità per i genitori di gestire ed organizzare la vita di “figli senza scuola”.

Obbligo di vigilanza. Secondo la Cassazione, ad esempio, l’obbligo di vigilanza del docente è esteso anche al momento dell’uscita dall’edificio scolastico, se gli alunni devono essere presi in consegna da altri soggetti [10]. In tempo di pandemia, appare lecito domandarsi se gli insegnanti che accompagnano gli alunni all’uscita da scuola possano essere, in futuro, ritenuti responsabili per gli assembramenti che si vengono a creare in prossimità dell’edificio, qualora da questi siano derivati dei contagi.

I dirigenti scolastici, invece, sono gravati da una responsabilità di carattere organizzativo, ma su questi ricade anche la responsabilità derivante dall’operato dei dipendenti – gli insegnanti e il personale ATA – nonché nei confronti di questi ultimi per eventuali infortuni sul lavoro (e dunque anche per eventuali contagi). Mesi orsono, infatti, aveva destato preoccupazione tra i dirigenti scolastici la presunzione di contagio avvenuto sul lavoro operata dall’INAIL a fini infortunistici, per la quale era dovuto intervenire il Ministero dell’Istruzione per chiarire come fosse solo “un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio” [11].

Tema importante sul punto è la limitazione di responsabilità prevista dall’art. 29-bis del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 [12], per cui l’obbligo di tutela contro il rischio di contagio da Covid-19 è adempiuto “mediante l’applicazione, l’adozione e il mantenimento delle prescrizioni e delle misure contenute nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Evitare l’effetto «boomerang». Espressamente prevista per i soli dirigenti scolastici, tale previsione rischia di generare un “effetto boomerang”, potenzialmente devastante: così come denunciato in ambito sanitario, l’attuale condizione del sistema scolastico soffre di carenze e problemi che vengono da lontano; parametrare l’adempimento dell’obbligo di tutela avverso il contagio sulla base del rispetto di previsioni generali quali quelle contenute nel Protocollo, rischia di non tenere conto delle condizioni di specifici contesti territoriali e dei singoli istituti scolastici. Il divario infrastrutturale ha già evidenziato come in alcuni contesti non vi siano le condizioni materiali per adempiere puntualmente alle regolamentazioni previste, in assenza di alternative valide alla semplice chiusura.

In questo caso, di chi è la responsabilità? Non possiamo accettare che sia il dirigente scolastico o, addirittura, il singolo insegnante a pagare il prezzo di una stratificata logica di disorganizzazione e lassismo; né la pandemia può identificarsi nell’alibi di chi, anziché programmare soluzioni alternative, ha agito nella cieca speranza dell’“andrà tutto bene”.

Da questo punto di vista, la gestione della “didattica digitale integrata” è sintomatica: lo strumento, indubbiamente, permetterebbe di risolvere parte dei problemi, se correttamente disciplinato. In primis potrebbe consentire di perdere un minor numero di ore, che attualmente sono insufficienti a garantire una formazione anche solo paragonabile a quella offerta prima della pandemia. Inoltre, l’esposizione dei docenti al rischio di contagio, per loro particolarmente pericoloso, verrebbe notevolmente ridotta, così come la creazione di cluster all’interno degli istituti.

Effetti del DPCM del 24 ottobre 2020. Ebbene, pochi giorni addietro il Ministero – dopo essersi strenuamente opposto alla stabile introduzione dello strumento – ha emanato delle linee guida per indicare le modalità di svolgimento della didattica e della verifica dell’apprendimento in digitale, in conseguenza dell’emanazione del DPCM 24 ottobre 2020. Tuttavia, si tratta di un sistema pensato solo per le scuole superiori di secondo grado, quindi insufficiente a far fronte pienamente alle future chiusure generalizzate: ancora una volta un’affannata rincorsa, un espediente temporaneo avverso un virus che rischia di paralizzare l’attuale sistema scolastico e, quindi, di soffocare il futuro delle nuove generazioni.

La pandemia ha costretto il Paese a proiettarsi in una rivoluzione digitale in relazione alla quale aveva accumulato dei ritardi straordinari, principalmente a causa della miopia politica e della resistenza delle pubbliche amministrazioni. Le disarmonie possono però produrre opportunità e l’Italia, costretta all’improvviso alle relazioni digitali, allo smart working, ai processi civili telematici, alla telemedicina, alle ricette elettroniche, poteva trasformare il lockdown precedente in uno straordinario laboratorio di innovazione tecnologica e, soprattutto, culturale.

Aveva la possibilità, perché costretta dalle necessità, di guidare lo sviluppo delle competenze digitali e della cultura digitale di intere generazioni, assicurandone il futuro. Aveva la possibilità di investire tempo e denaro per un sistema di didattica integrata che avrebbe arricchito l’offerta formativa scolastica in tempo di pace (senza pandemie) ed avrebbe potuto rappresentare il sistema di recovery di fronte alla probabile (molto, e già prevedibile) seconda ondata pandemica, scongiurando i danni della scelta radicale tra diritto allo studio e diritto alla salute. Ed invece, tra luddismi, miopie e negazionismi, si è preferito investire nell’“andrà tutto bene sui banchi a rotelle”.

Riferimenti

[1] V. Santarpia, Coronavirus, al via le prime lezioni virtuali: dal Tosi di Busto Arsizio all’Ungaretti di Melzo, 24 febbraio 2020.

[2] OECD, Education at a Glance 2020 – OECD Indicators, 8 settembre 2020.

[3] C. Zunino, “Azzolina: “Nelle scuole i focolai dal 3,8% al 3,5%”. Il rapporto Iss: “Scendono anche nel resto del Paese”, 24 ottobre 2020.

[4] C. Zunino, Numeri azzardati, oggi non si può dire che la scuola sia al sicuro, 6 ottobre 2020.

[5] G. Galeazzi, Coronavirus, Azzolina: “Tutti promossi se non in casi particolari”. Maturità al via dal 17, niente scritti e colloquio di un’ora, 16 maggio 2020.

[6] Covid a scuola: dentro (quasi) tutto bene, ai cancelli e sui mezzi pubblici restano gli assembramenti, 14 ottobre 2020.

[7] DPCM 24.10.2020.

[8] V. Lupia, Coronavirus Roma, 24 positivi in una scuola al Trionfale. Lo sfogo del preside: “Come una zona rossa”, 25 ottobre 2020.

[9] Ministero dell’Istruzione, “Indicazioni operative per lo svolgimento delle attività didattiche nelle scuole del territorio nazionale in materia di Didattica digitale integrata e di attuazione del decreto del Ministro della pubblica amministrazione 19 ottobre 2020”, 26 ottobre 2020: “Il decreto, all’articolo 4, comma 2, stabilisce infatti che “nei casi di quarantena con sorveglianza attiva o di isolamento domiciliare fiduciario, ivi compresi quelli di cui all’articolo 21-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, il lavoratore, che non si trovi comunque nella condizione di malattia certificata, svolge la propria attività in modalità agile”.

Per quanto attiene lo status del personale collocato in quarantena con sorveglianza attiva o di isolamento domiciliare fiduciario (QSA), il decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, dispone, all’articolo 87, che “il periodo trascorso in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, dai dipendenti delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dovuta al COVID-19, è equiparato al periodo di ricovero ospedaliero e non è computabile ai fini del periodo di comporto. Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-2019, […] il lavoro agile è una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni […]”.

Anche l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, con proprio messaggio del 9 ottobre 2020, n. 3653, ha evidenziato che lo stato di quarantena “non configura un’incapacità temporanea al lavoro per una patologia in fase acuta tale da impedire in assoluto lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Seppure la nota si riferisca al settore privato, individua uno stato inequivocabile che riguarda la persona del lavoratore.

Ne deriva che, fino all’eventuale manifestarsi dei sintomi della malattia, benchè il periodo di quarantena sia equiparato, come si è visto, al ricovero ospedaliero, il lavoratore non è da ritenersi incapace temporaneamente al lavoro ed è dunque in grado di espletare la propria attività professionale in forme diverse. […]

Occorre precisare, in ultimo, che la condizione del personale posto in QSA non è assimilabile a quella concernente il personale effettivamente contagiato da COVID-19, il quale, a prescindere dalla gravità della sintomatologia, in nessun caso può prestare attività didattica o educativa, neanche dal proprio domicilio. Essa, infatti, è una condizione di malattia certificata a tutti gli effetti, per la quale sono previste e garantite – dalla Costituzione fino ai contratti di lavoro di comparto – specifiche forme di tutela e salvaguardia dello stato di salute.”

[10] Cfr. Cass. civ. n. 21593 del 19 settembre 2017.

[11] Ministero dell’Istruzione, Responsabilità dei DS in materia di prevenzione e sicurezza – Covid-19, 20 agosto 2020.

[12] Convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020

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