CORONAVIRUS, emergenza autunno. «Triage di guerra»: i medici posti di fronte alla scelta se ricoverare o meno un malato

L’operatore sanitario è solo nelle trincee dei pronto soccorso e dei reparti di terapia intensiva degli ospedali. Oltre al dramma di una scelta del genere, su di lui incombe anche l’eventuale giudizio derivante dalla possibile denuncia di qualche parente di un malato deceduto. Il quadro generale delle informazioni sull’argomento è incompleto e confuso, dunque, allo scopo di comprenderlo meglio, insidertrend.it ha interpellato due professionisti che hanno padronanza della materia: il dottor Natale De Falco e il professor Roberto De Vita

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha parlato nel corso della consueta conferenza stampa di annuncio dei suoi provvedimenti – in questo caso in occasione dell’ultimo Dpcm – che è stata trasmessa da radio e televisioni proprio mentre stavamo registrando questo dibattito, iniziata con un sintetico riepilogo della situazione nel Paese.

Una situazione difficile. Una situazione certamente non facile, poiché, per restare allo «stretto» ambito sanitario, a questi ritmi di contagio la disponibilità di posti letto all’interno dei reparti di terapia intensiva degli ospedali sarà destinata a esaurirsi in non molti giorni.

Senza contare poi la carenza di anestesisti in queste stesse strutture, l’aumento dei decessi registrati negli ultimi giorni e – aspetto affatto indifferente evidenziato dalle statistiche sanitarie – l’allungamento dei tempi intercorrenti tra il momento del ricovero di un malato e il suo decesso, cioè dei tempi di degenza. Per non parlare poi delle possibili conseguenze sui piani economico e sociale di questa recrudescenza dei contagi.

Insomma, quello che si prospetta a breve termine se non si invertiranno le dinamiche in atto sarà uno scenario terrificante, in qualche modo anticipato dal parallelo aumento dei casi di violenza a danno di medici e paramedici verificatisi ultimamente nei pronto soccorso.

«Siamo giunti quasi ai limiti», ha esordito il dottor De Falco, medico che fino a due mesi fa ha prestato servizio presso l’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, aggiungendo che «è necessario rallentare immediatamente l’epidemia». Egli, inoltre, sottolinea che adesso questo virus lo si comincia a conoscere meglio e questo fa sì che si abbiano anche idee più chiare sul da farsi, aggiungendo poi che «i pazienti vanno trattati dall’inizio, altrimenti le conseguenze possono essere disastrose, questo vuol dire che vanno intercettati subito tutti i soggetti risultati positivi oppure sintomatici per sottoporli immediatamente a una terapia, sia essa domiciliare, con i medici curanti, la guardia medica, eccetera, ovvero ospedalizzandoli».

Triage di guerra. Nelle vesti di sindacalista della sua categoria, De Falco ha quindi lamentato la perdita di tempo di questi mesi e le croniche carenze della Sanità (oggi «Salute») italiana. «Gli anestesisti non si trovano – ha affermato -, mentre i medici di emergenza di pronto soccorso praticamente non esistono, perché la scuola di specializzazione è stata istituita nel 2009 e i primi medici si sono specializzati da qualche anno, però di essi ne vengono formati soltanto cinquanta all’anno, personale destinato a tutto il territorio nazionale. Conseguentemente ci vorranno decenni per soddisfare pienamente le esigenze di medici di prima linea».

Si tratta della figura professionale che serve oggi, aggiunge De Falco, «poiché il virus va intercettato immediatamente e trattato nei reparti ospedalieri e in sub-intensiva, perché in questi casi quando il paziente arriva in rianimazione purtroppo c’è poco da fare, il danno è fatto».

Medici in prima linea, sembra il titolo di una serie di telefilm americani, tuttavia si tratta di una gergalità che a causa degli effetti dell’epidemia di Covid-19 in questi mesi si è andata imponendo. Come la locuzione «triage di guerra», alla quale hanno fatto ripetutamente riferimento gli intervistati durante la loro interlocuzione.

La scelta. E poi c’è il dramma della scelta: chi ricoverare se non ci sono letti liberi in terapia intensiva? Una persona anziana oppure un giovane? Un diabetico cinquantenne con maggiori probabilità di decesso o una ragazza? Una persona con sindrome di Dawn o una normodotata?

«In molti casi si rischia di dover applicare il “triage di guerra” – sottolinea De Falco -, oggi ancora riusciamo ad attribuire un codice sulla base della necessità di colui che si presenta al pronto soccorso, ma se la situazione dovesse peggiorare ancora saremo costretti a far passare avanti chi ha maggiori possibilità di farcela, ma questo, ovviamente, aprirebbe problemi di natura medico-legale immensi».

È stato rilevato che nel Paese il 98% delle persone, seppure accusi sintomi lievi del Covid, non andrà comunque incontro a gravi conseguenze, al contrario del residuale 2% della popolazione, del quale, però, data la consistenza in termini numerici, le strutture sanitarie presenti sul territorio nazionale non saranno in grado di curare contemporaneamente.

Impiegando anch’egli la medesima efficace terminologia, il professor Roberto De Vita – docente e avvocato penalista che si occupa da tempo della specifica materia -, ha definito l’attuale dimensione ospedaliera come «di frontiera», aggiungendo che «per comprendere bene quello che sta accadendo non dobbiamo vivere le preoccupazioni e le rassicurazioni dei numeri astratti, ma dobbiamo calarci nella concretezza dell’esperienza degli ospedali italiani».

Il medico abbandonato al contagio delle responsabilità. «Questa – ha evidenziato De Vita – è una malattia dai percorsi ingravescenti e imprevedibili che investe non soltanto i pronto soccorso, ma anche gli altri reparti ospedalieri che scarica notevoli tensioni sul Sistema sanitario nazionale», tensioni che, già nello scorso mese di aprile non trovavano una giusta collocazione di indirizzo normativo e di linee guida.

«In quel momento – ha aggiunto De Vita -, il riferimento principale era rappresentato dalle raccomandazioni della Società italiana di rianimazione e terapia intensiva, che non sono linee guida consolidate e che per la prima volta si confrontavano con un tema di eccezionalità straordinaria, caratterizzato da due connotazioni precedentemente mai esplorate, neppure in tempo di guerra: la prima è l’imprevedibilità e la rapidità con la quale si è manifestata l’emergenza, che per altro è diacronica, la seconda è la riduzione delle diponibilità di risorse, problema che non può trovare una soluzione sul territorio, perché esso è interamente coinvolto, globalmente».

Una situazione che si va aggravando e che è anche frutto della sistematica distruzione del Sistema sanitario nazionale, che ha ridotto quest’ultimo a uno stato di debolezza strutturale che si evidenzia in modo particolare alla luce di un evento pandemico di questa natura, che non può che amplificare criticità e complessità preesistenti che conducono allo stress sistemico, soprattutto nel Meridione.

Una condizione emergenziale straordinaria. «Quotidianamente – ha al riguardo proseguito De Vita – il medico si trova a dover fare delle scelte quando si trova di fronte a due esigenze da emergenza ma dispone di una sola risorsa, si tratta di una cosa assolutamente normale, dato che esistono una serie di criteri ai quali fare riferimento, che consentono di gestire, anche attraverso il triage, l’allocazione secondo un criterio di tempo, ragionando dapprima sulla base delle indifferibilità, quindi, in caso di indisponibilità, sul territorio».

Ma oggi tutto questo non è possibile e, allora, il medico che si trova costretto a scegliere in una condizione emergenziale straordinaria ed essi si trovano a operare in un contesto dove non esistono linee guida consolidate in grado di consentire al medico di assumere anche buone pratiche clinico-assistenziali riconosciute dalla comunità scientifica, necessarie a una gestione di un numero elevatissimo di casi eccezionali di scelta alla quale l’operatore è posto di fronte.

«Il risultato è che in assenza di un chiaro indirizzo – ha concluso De Vita  -, il medico si troverà inevitabilmente di fronte a delle scelte che avranno delle conseguenze giuridiche. In una condizione del genere, la scelta su chi curare deve essere dal punto di vista medico del medico, ma dal punto di vista strutturale e delle risorse deve essere normativa. In questo momento il medico non ha un punto di riferimento, tuttavia, poiché sappiamo che il numero dei malati aumenterà, evidentemente ci dobbiamo assumere tutte le responsabilità di una occasione mancata dalla precedente esperienza. Qualcuno ha affermato che “attualmente ci troviamo in una situazione di emergenza”: no, la situazione di emergenza era quella di marzo, mentre questa qui è una condizione di impreparazione, non soltanto rispetto alla pandemia, ma anche degli strumenti per gestire le situazioni estreme».

Di seguito è possibile ascoltare l’audio integrale del dibattito (A271)

A271 – SANITÀ, EMERGENZA CORONAVIRUS: «TRIAGE DI GUERRA», I MEDICI POSTI DI FRONTE ALLA SCELTA SE RICOVERARE O MENO UN MALATO. L’operatore sanitario è solo, abbandonato al contagio delle responsabilità nelle trincee dei pronto soccorso e dei reparti di terapia intensiva degli ospedali italiani.

Infatti, oltre al dramma di una scelta del genere, su di loro incombe anche l’eventuale procedimento giudiziario derivante dalle possibili denunce dei parenti di un malato deceduto, questo nel corso dell’ennesima fase di incremento esponenziale dei contagi nel Paese.

Il quadro generale delle informazioni sull’argomento è incompleto e confuso, dunque, allo scopo di comprenderlo meglio, insidertrend.it ha interpellato due professionisti che hanno padronanza della materia: il dottor NATALE DE FALCO (medico ospedaliero del pronto soccorso dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli e sindacalista del CIMO) e il professor ROBERTO DE VITA (docente e avvocato penalista). (25 ottobre 2020)

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