È oltremodo noto che la speranza è l’ultima a morire, un adagio popolare di estrema validità anche in questi difficili tempi di crisi, nei quali, un po’ per l’affidamento che l’essere umano (giocoforza) fa nelle possibilità offerte dalle circostanze del momento, un po’ per effetto della comunicazione e della propaganda, ci si aggrappa a soluzioni apparentemente salvifiche che appaiono date per efficaci a priori.
È il caso dei provvedimenti di contenimento e uscita dalla crisi economica e sociale definiti in sede europea, come il famoso Next Generation EU, che dovrebbe portare nelle casse dello Stato italiano 209 miliardi di euro tra prestiti e sovvenzioni.
Tutti lo aspettano, ovviamente, e tutti pensano che questa enorme massa di denaro piomberà nelle mani dei decisori politici di questo Paese a cominciare dai primissimi giorni del prossimo mese di gennaio. Tuttavia sarà difficile che questo potrà avvenire, almeno non nei termini auspicati.
Il possibile slittamento dei finanziamenti. Ormai se ne parla apertamente sia nei corridoi di Bruxelles che nei palazzi della politica romani, tant’è che la stampa inizia a riportare i commenti ufficiosi dei funzionari e dei diplomatici dell’Unione europea.
delle Istituzioni comunitarie e le esperienze maturate nel recente passato, allo stato attuale delle cose indicano un’unica possibilità: il quasi certo rinvio dell’erogazione dei finanziamenti del cosiddetto Recovery Fund.
Scordiamoci dunque la fatidica data del 1 gennaio 2021, perché come minimo, se tutto andrà bene, per vedere il 10% di acconto di quei 209 miliardi – ammesso che resteranno 209 e che, a fronte del finanziamento, si forniranno le necessarie garanzie in ordine all’adeguatezza dei progetti nel frattempo avviati – si dovrà attendere maggio o giugno.
Negoziati e tempi di approvazione. A Bruxelles si tratta sul prossimo bilancio pluriennale dell’Unione e sulle condizionalità imposte ai Paesi beneficiari degli aiuti finanziari che dovranno venire reperiti sui mercati internazionali emettendo titoli del debito europeo. Ma questo sarà possibile soltanto quando verrà raggiunto un accordo sul quadro finanziario pluriennale e sul nodo irrisolto del massimale di risorse proprie, cioè su quella quota del reddito complessivo dei Paesi membri dell’Unione europea, attualmente pari all’1,2%, che consente la copertura del bilancio comunitario.
A causa degli effetti negativi generati dalla pandemia da Covid-19 i 1.100 miliardi di euro disponibili sulla base di questa percentuale non sono più sufficienti, poiché per intervenire in maniera risolutiva nei confronti di questa crisi economica e sociale ne occorrerebbero altri 750, che l’Europa è in grado di raccogliere obbligandosi sui mercati internazionali dei capitali, ma soltanto dopo aver incrementato al 2% il proprio bilancio pluriennale.
Bruxelles contro Strasburgo. Un’operazione che è resa possibile solo a seguito della decisione (assunta all’unanimità) dal Consiglio europeo e della ratifica di essa da parte di tutti i ventisette parlamenti nazionali degli Stati membri entro il 31 dicembre 2020.
Alquanto difficile, se si pensa che l’ultima volta che si dovette decidere in merito ci vollero oltre due anni.
Ma la Commissione e il Parlamento non sono d’accordo su alcuni dirimenti aspetti della questione, come i tagli decisi dalla prima il 21 giugno scorso, quando decise di intervenire in sostegno delle economie dei Paesi membri in crisi mediante il Next Generation EU, che però ha comportato il taglio di 15 programmi europei preesistenti, tra i quali figurano quello relativo alla ricerca (Horizon), l’Erasmus e altri nei settori dell’immigrazione, della difesa e della sanità.
Il Parlamento chiede che vengano ripristinati i 39 miliardi tagliati, ma non è soltanto questo l’ostacolo sulla strada del Recovery Fund, perché ci sono anche le condizionalità subordinate al rispetto dello stato di diritto, certamente una complicazione di più semplice e breve soluzione, che però non va sottovalutata. In questo caso, i paesi sotto osservazione sono l’Ungheria e la Polonia.
Una situazione di incertezza. Tutto permane dunque nell’incertezza, a cominciare dal bilancio pluriennale europeo, che non essendo stato ancora approvato, se non lo sarà entro la fine di quest’anno implicherà un suo esercizio in maniera provvisoria, dodicesimo per dodicesimo, con l’Unione europea che potrà spendere soltanto non più di una frazione corrispondente pari a quanto speso l’anno precedente.
E questa situazione comporterà ulteriori difficoltà nel funzionamento dei meccanismi istituzionali europei, fino al momento dell’approvazione del bilancio.
Sta di fatto che tutti questi ritardi avranno un impatto ancora più negativo sulle economie dei Paesi europei, principalmente su quelle maggiormente colpite dalla crisi generata dalla pandemia, i cui contagi stanno per altro riprendendo nel numero.
E l’Italia? Nel frattempo in Italia è stato presentato dal Governo il Documento programmatico di bilancio, una delle prime attività della sessione di bilancio dopo la NaDef (Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza).
In quest’ultima era stata annunciata per grandi linee una manovra dell’ammontare di 40 miliardi di euro relativa alla legge di bilancio per il 2021, ammontare composto per 21 miliardi ricavati dall’aumento del deficit dello Stato, ma dall’ultimo documento diffuso dall’esecutivo (quello programmatico di bilancio, appunto) a manovra risulta ridimensionata a 30,5 miliardi, mentre la corrispondente quota di deficit sale invece a 25 miliardi, con la parte residua che – sempre sulla base delle indicazioni fornite da Palazzo Chigi e via XX Settembre – verrebbe finanziata in buona parte (3,5 o 4 miliardi) mediante il ricorso alle risorse europee del Next Generation EU.
Una manovra in deficit. «Una manovra tutta in deficit – afferma Mario Baldassarri, presidente del Centro studi economia reale (Cser) -, che in più si riferisce a effetti derivanti dalla detrazione fiscale, cioè, da una maggiore crescita prevista dal Governo deriverebbero corrispondenti maggiori entrate fiscali, contabilizzate ex ante a copertura della manovra stessa».
Si tratta di cifre affatto trascurabili che «questi effetti di maggiori entrate fiscali dovute alla detrazione dell’impulso, che la manovra dovrebbe imprimere alla ripresa della crescita economica, vengono riportate per circa 13 miliardi addirittura nel 2023 e 7 miliardi nel 2024».
Una crescita fra tre anni. In sostanza, il Governo Conte 2 proietta tutto sulla eventuale crescita che dovrebbe verificarsi fra tre anni. «Ma – sempre ad avviso di Baldassarri -, operazioni del genere non sono mai state consentite in passato, poiché non è possibile contabilizzare a maggiore copertura sui tre anni futuri le maggiori entrate dello Stato derivanti da una ipotetica maggiore crescita così lontana nel tempo».
Una operazione potenzialmente pericolosa con riguardo, sia all’equilibrio di bilancio dello Stato che come effetto annuncio sui mercati data l’alea insita in essa.
«Già di per sé la NaDef era di ridotte dimensioni rispetto alla gravità della crisi economica – commenta in conclusione il presidente del Cser -, oltreché dispensatrice a pioggia e fatta in deficit pubblico con scarsa definizione delle fonti di finanziamento, ora, con questo ultimo Documento programmatico di bilancio la manovra appare ridimensionata, l’incremento del deficit più elevato e il ricorso ai fondi europei ammonta a quasi 4 miliardi. Tutto il resto lo si dovrà raccogliere sul mercato, questo a fronte di una virulenta ripresa della pandemia».