STRATEGIA, Artico. I venti di guerra fredda che spazzano il permafrost

In un recente articolo di Corrado Fontana pubblicato da valori.it analizzata la graduale militarizzazione della regione e gli interessi delle varie potenze per i transiti commerciali e lo sfruttamento delle risorse

È evidente come il permafrost (cioè il suolo ghiacciato che copre il 25% delle terre dell’emisfero settentrionale) e il Circolo Polare Artico costituiscano uno scrigno di risorse, alcune note e altre delle quali se ne ipotizza la presenza sotto i fondali marini, tuttavia, oggi sono divenuti a rischio.

Altre risorse ancora, invece, si renderanno disponibili con il surriscaldarsi del clima, che allenterà la presa dei ghiacci, così come diverranno praticabili rotte commerciali che ora non lo sono, collegamenti tra Asia ed Europa che consentiranno un risparmio in termini di chilometri e di carburante alle navi, evitando per altro il ricorso alle rompighiaccio.

Questo è l’argomento trattato in un articolo a firma di Corrado Fontana pubblicato dal periodico online valori.it il 6 ottobre scorso, che affronta l’intero spettro delle tematiche legate allo scioglimento dei ghiacci e alla sempre maggiore militarizzazione dell’Artico.

«Il climate change apre i ghiacci dell’Artico alle meganavi da trasporto – vi si afferma -, Putin rivendica, la Cina scommette sulla Polar Silk Road e intanto Total gongola»

L’analisi rivela che le grandi potenze mondiali avrebbero anche altre mire, infatti, Russia, Usa e Canada, Stati del Nord Europa, Cina (benché Pechino non abbia uno sbocco territoriale in loco), stanno conducendo una vera e propria guerra di posizione nella regione. «Una competizione a bassa intensità bellica, almeno per ora, per imporsi sull’Artico oggi e in futuro».

La Russia nell’Artico. Soltanto pochi mesi fa, l’assistente segretario alla Difesa statunitense Victorino Mercado dichiarava al riguardo che: «La porta è aperta per aumentare l’attività nell’Artico da parte degli Usa, di nostri alleati e partner, ma anche dei nostri concorrenti strategici». Una sottolineatura, secondo Fontana, che riguardava innanzitutto l’eterno convitato di pietra russo, «che ricaverebbe quasi il 25% del proprio prodotto interno lordo dal Circolo Polare Artico grazie all’estrazione di idrocarburi».

Mosca rafforza ormai da anni la propria presenza militare nell’area, nonostante essa sia notevolmente inferiore a quella sovietica negli anni Ottanta ha comunque investito massicciamente sull’Artico, riattivando e aggiornando una cinquantina di postazioni militari precedentemente abbandonate e cercando di assumere uno stretto controllo sui suoi confini settentrionali, «sia attraverso sistemi radar Sopka-2 sull’isola di Wrangel, a 300 miglia dall’Alaska, che a Capo Schmidt, nella Siberia orientale, sia posizionando nell’Artico occidentale, a Severomorsk, la flotta settentrionale, che vanterebbe le risorse terrestri, aeree e navali artiche più avanzate».

Il riarmo norvegese. Numerose sono state le esercitazioni militari di Mosca tra i ghiacci, anche in cooperazione con altre potenze. Il comandante delle forze di terra russe, Maresciallo Alexander Postnikov, vorrebbe schierare una brigata artica nei pressi del confine con la Norvegia, quale bilanciamento delle attività condotte dagli statunitensi.

L’intenzione ha elevato lo stato di tensione con Oslo dopo anni di calma apparente seguita agli Accordi di Murmansk, che avevano posto fine a un aspro contenzioso territoriale.

Il primo ministro norvegese Erna Solberg, in una conferenza stampa congiunta con il ministro della Difesa, ha parlato della «crescente e minacciosa influenza di Russia e Cina nella regione», presentando contestualmente il Piano di Difesa 2019-20, nel quale le due potenze concorrenti vengono citate decine di volte. In esso vengono previsti stanziamenti nel settore della Difesa pari a 1,46 miliardi di euro nei prossimi otto anni, investimenti mirati principalmente sulla Brigata Nord e la Finnmark Land Defense, veicoli corazzati, armi di precisione a lungo raggio, un’unità mobile per la difesa CBRN e otto nuove unità destinate alla marina militare tra sottomarini e fregate.

Cosa fanno a Washington? È noto che Donald Trump rifiuti il concetto di mutamenti climatici, e il suo segretario di Stato Mike Pompeo nell’ultimo vertice del Consiglio Artico, che si è svolto a Rovaniemi nel maggio del 2019, ha affermato che «altri attori sullo scacchiere artico costituiscono una minaccia militare», bollando inoltre come illegittime sia le rivendicazioni di Mosca sulle rotte del Mare del Nord, sia la sovranità canadese sul passaggio a Nord-Ovest, considerandolo su acque internazionali.

Secondo la sintesi elaborata da alcuni analisti strategici citati da Fontana nel suo articolo, pur consapevoli dell’importanza della regione, gli americani si troverebbero in netto ritardo nello sviluppo di tecnologie e nell’esercizio di pratiche adatte alla guerra in quel particolare ambiente.

L’Usaf è tra le forze armate statunitensi quella maggiormente presente nella regione artica, con dispiegamenti di propri assetti sia in Alaska (territorio Usa) che in Groenlandia. Washington ha molto investito in questo campo, sviluppando e acquisendo sistemi radar avanzati a lungo raggio e velivoli da combattimento di quinta generazione come gli F-35, effettuando al contempo esercitazioni militari in ambito Nato.

In Artico tutti «si guardano in cagnesco». Nel suo articolo pubblicato su valori.it Fontana conclude che la situazione «è quella di un gruppo di soci che si guardano in cagnesco, nella migliore delle ipotesi».

La potenza economica e militare, gli interessi dichiarati per la Polar Silk Road e gli  accordi che la Cina Popolare sta stringendo con la Federazione russa ovviamente preoccupano Washington. Tuttavia, se è vero che Pechino non può rivendicare sovranità territoriali sulla regione, la sua influenza geopolitica appare in ogni caso sempre più ingombrante per tutti.

«Sotto il ghiaccio nell’Artico abbiamo alcune delle armi più pericolose del mondo», alla fine del suo articolo l’autore cita Jens Stoltenberg – già primo ministro norvegese, negoziatore in Bosnia e attualmente Segretario generale della Nato –  affiancando a questa sua asserzione i timori riguardo al processo di progressiva militarizzazione dell’Artico recentemente espressi dal Segretario generale dell’Onu.

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