Khalifa Haftar ha annunciato la riapertura dei pozzi e dei terminal petroliferi che, attraverso i suoi alleati in Cirenaica, mantiene bloccati dallo scorso mese di gennaio. La riattivazione, che avrebbe una durata di un mese, è stata tuttavia vincolata alla stringente condizione che gli introiti delle esportazioni di greggio vadano a finanziare le milizie che controllano Tripoli, che lui definisce «terroriste».
A stretto giro e apparentemente in netto contrasto con la posizione assunta dal resto del proprio esecutivo, il vice primo ministro Ahmed Maitig ha poi confermato la decisione relativa alla riavvio delle attività estrattive e commerciali del settore idrocarburi, rassicurando parzialmente il “Maresciallo” di Bengasi.
Infatti, il compito di vigilare sull’equa ripartizione dei ricavi delle vendite della materia prima energetica tra i belligeranti verrà demandato a una commissione congiunta.
Anche se la produzione libica di greggio negli ultimi mesi ha conosciuto un crollo abissale, si tratterà in ogni caso di miliardi di dollari che fluiranno nel senso opposto a quello del petrolio verso i «terminali» politici e clanici dei due schieramenti che si combattono in una guerra senza esclusione di colpi ormai da anni, cioè quello della Tripolitania «governata» del premier dimissionario Fayez al-Serraj e la Cirenaica del generale reduce da grandi sconfitte, a partire da quella in Ciad subita molti anni fa per mano dei francesi e dei loro alleati locali.
A quel tempo a Tripoli comandava Muhammar el-Gheddafi e la Libia era una Jamahiriyya. Oggi, invece, nel Paese nordafricano scrigno di preziose materie prime energetiche, Haftar non è più l’uomo forte della Cirenaica, almeno non lo è più allo stesso modo di come lo era all’inizio della crisi.
Pesano i quindici mesi del suo temerario assalto e assedio alla capitale Tripoli, destinato a fallire dopo quindici mesi di sanguinosi combattimenti su una linea del fronte ballerina e, sovente, a macchia di leopardo.
Non è chiaro quanta insoddisfazione egli abbia suscitato tra i suo sponsor e i suoi padrini, compresi quelli che dai piani alti del ministero della difesa al Cairo seguivano dappresso con estrema attenzione le sue gesta in Tripolitania, contestuali all’incremento dell’impegno militare della Turchia in Mediterraneo e nella stessa Libia.
Ebbene, ieri Haftar ha dichiarato ufficialmente dai teleschermi che: «Abbiamo deciso di riprendere la produzione di petrolio e l’export a condizione di una equa distribuzione degli introiti», aggiungendo che, tuttavia, questa decisione verrà limitata temporalmente «per un mese».
Si è trattato di un comunicato che, secondo l’opinione espressa da alcuni osservatori della realtà libica, sottolineerebbe un ruolo guida del vicepresidente Maitig, generando per altro contrasti e alimentando la controversia a causa dell’indicazione nella persona del capo dell’Alto Consiglio di Stato, cioè Khaled al-Mishri, colui che a Tripoli starebbe remando contro il vicepremier.
Alla riapertura dei pozzi Haftar ha inoltre posto una seconda condizione, quella che gli introiti miliardari derivanti dalla vendita del petrolio non vengano utilizzati allo scopo di «sostenere il terrorismo», sinonimo che per il Maresciallo di Bengasi indica le milizie che attualmente sostengono il suo nemico, il presidente dimissionario al-Serraj e che contribuiscono a rendere inattaccabile l’area di Misurata, il cui controllo che un’importanza strategica ai fini dello sviluppo e dello stesso esito del conflitto.
Il blocco delle attività di pozzi e terminali, mantenuto dallo scorso mese di gennaio grazie all’azione delle Guardie degli impianti e delle milizie tribali che sostengono Haftar, ha finora generato perdite (mancati guadagni) pari a un ammontare di dieci miliardi di dollari, incidendo oltremodo negativamente sulle esangui casse dello Stato libico.
Ora è stato dunque annunciato che le compagnie petrolifere sono nuovamente autorizzate a riprendere le loro attività finalizzate alle esportazioni, ma tutto resta però molto difficile e incerto.
Molte cose sono accadute in Libia nell’arco di pochi giorni, come se da un lato certe parabole personali stessero conoscendo una precipitosa fase discendente e, tutt’intorno, si divarichino le posizioni dei vari protagonisti locali, principalmente a Tripoli.
Bisognerà dunque attendere i prossimi sviluppi della situazione per comprendere se la dichiarazione resa in televisione d di Haftar avrà concretamente seguito oppure no.
Nel frattempo dalla compagnia petrolifera nazionale libica, la NOC, giunge un segnale negativo. Essa ha infatti reso noto che non revocherà lo «stato di forza maggiore» che impedisce di operare normalmente, poiché «l’attuale militarizzazione di campi e terminal presidiati da “mercenari stranieri” non rende possibile le normali attività», né quelle estrattive e neppure quelle logistiche.
Mercoledi’ sera da tripoli al-Sarraj ha annunciato l’intenzione di dimettersi entro la fine ottobre, consentendo in questo modo l’insediamento di un nuovo esecutivo che dovrebbe venire formato a seguito dei negoziati in atto nel quadro del Dialogo politico libico sotto l’egida dell’Onu.
Da Roma, la Farnesina ha commentato il gesto comunicando che «si tratta di una decisione di grande responsabilità assunta in una fase critica della storia della Libia», sottolineando contestualmente l’auspicio «che tutte le parti sostengano con responsabilità il percorso di dialogo verso una soluzione concordata alla crisi nell’alveo del Processo di Berlino».
Approfittando degli effetti negativi prodotti da una produzione petrolifera crollata a 100.000 barili al giorno (dalla quota di 1,22 milioni precedente al blocco delle attività), quali i frequenti black-out che incidono sulla popolazione civile, Haftar tenta di alimentare l’opposizione delle fazioni politiche e della stessa NOC a suo vantaggio.