MEDIO ORIENTE, accordi di pace. Muta l’equazione strategica nel Golfo Persico

Dopo gli Emirati Arabi Uniti è il Bahrain a raggiungere un accordo con Israele. Per alcuni si tratterebbe di un «poker d’assi per la pace»; insidertrend.it ha raccolto l’opinione del generale Giuseppe Morabito, analista della NATO College Foundation (*)

Ci sono voluti più di settanta anni (precisamente settantadue) perché gli Emirati Arabi Uniti (EAU) stabilissero, primo Stato del Golfo Persico, relazioni diplomatiche con Israele. Per avere un secondo stato che aderisse a tale “gruppo” sono bastate solo quattro settimane.

L’11 settembre il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha infatti annunciato su Twitter che il Bahrain avrebbe riconosciuto lo Stato di Israele.

Il piccolo regno sunnita nel nord del Golfo Arabico, ha come capitale Manama, una superficie territoriale di 765 km², una popolazione di circa un milione e mezzo di abitanti.

Bisogna notare subito che la data dell’annuncio non è causale, infatti, esattamente diciannove anni prima avveniva il più terribile attacco terroristico che la storia ricordi. Una data che gli americani non scorderanno mai e che ha segnato per sempre la storia delle democrazie occidentali.

Solo un mese fa, il 13 agosto, gli EAU hanno raggiunto un accordo simile con lo Stato ebraico. Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e Abdullah bin Zayed, ministro degli esteri emiratino, sono attesi alla Casa Bianca il 15 settembre per una cerimonia ufficiale.

Il ministro degli esteri del Bahrain si unirà alla delegazione, quasi a voler sottolineare l’esistenza di un fantastico “poker di assi per la pace”.

Se la decisione degli EAU è stata una sorpresa, quella del Bahrein era maggiormente prevedibile. In effetti, molti osservatori avevano supposto che sarebbe stato il primo Stato del Golfo a riconoscere Israele per il fatto che i rispettivi ministri degli esteri si erano incontrati pubblicamente a Washington l’anno passato.

Entrambi i paesi considerano l’Iran una seria minaccia per la propria integrità. Il Bahrain, infatti, vede i legami con Israele come un rafforzamento della sua posizione di favore rispetto a Washington.

Anche se ampiamente previsto, l’annuncio del Bahrein potrebbe rivelarsi strategico per l’area. Gli EAU non si preoccupano del consenso interno per la decisione presa, visto che il sostegno ai regnanti è assoluto.

Il Bahrain, per contro, ha una storia di proteste interne non da sottovalutare. La maggioranza sciita della popolazione lamenta da tempo la discriminazione da parte della famiglia reale sunnita.

I disordini, fomentati dall’Iran, hanno raggiunto il livello massimo nel 2011 durante le settimane di proteste ispirate alla primavera araba, sono stati controllati con l’aiuto delle truppe di altri paesi del Golfo, soprattutto saudite.

I critici della normalizzazione con Israele potrebbero provare ad avere voce in capitolo a Manama ma c’è la ragionevole certezza che i regnanti sunniti non concederanno spazio alle critiche.

Un’altra domanda è se il Bahrain possa essere considerato quale luogo di prova per il suo grande vicino, l’Arabia Saudita.

Il Bahrein, oltre all’ottimo rapporto con gli Usa, da molto tempo ormai fa assoluto affidamento sull’Arabia Saudita per il sostegno politico ed economico. I turisti sauditi sono un pilastro dell’economia del Bahrein e la maggior parte delle entrate petrolifere del Bahrein proviene da un giacimento off shore congiunto gestito dalla compagnia saudita Saudi Aramco.

C’è ragionevole convinzione che i regnanti di Manama non avrebbero “azzardato” una decisione cosi strategicamente importante senza l’assenso dell’Arabia Saudita.

Ho visitato personalmente il Bahrain una mezza dozzina di volte negli anni passati e ho constatato di persona che in tutta l’isola, un paradiso di libertà anche dal punto di vista religioso, sono presenti sia unità delle forze armate saudite (a garanzia dell’integrità dello stato minacciata, come detto, dall’Iran) sia numerosissimi potenti turisti sauditi.

È improbabile che Riyadh segua Emirati e Bahrain, almeno finché re Salman, che ha ottantaquattro anni ed è malato, sarà ancora in vita.

A sostegno del futuribile cambio di approccio depone il fatto che Muhammad bin Salman, il principe ereditario, sia molto meno legato del padre alla vecchia ortodossia araba nei confronti di Israele.

Quanto ai Palestinesi, sebbene si lamentino e considerino ancora una volta frustrati da questa decisione, non possono dirsi sorpresi, perché a gennaio, quando il presidente Trump ha svelato un piano di pace in Medio Oriente, da loro giudicato ingiusto, l’ambasciatore del Bahrein era tra il pubblico e non era certo presente per caso.

Finalmente visitatori da Israele potranno raggiungere gli hotel e le spiagge di Dubai e Manama e gli aerei di linea israeliani potranno sorvolare la penisola arabica, invece di dover fare una deviazione lunga ore intorno a essa.

Israele, quindi, si trova improvvisamente più gradito nella regione, quindi se opererà con le giuste modalità diplomatiche e accetterà qualche compromesso, sarà più vicino a risolvere i conflitti alle sue porte.

L’Iran si opporrà sfruttando i terroristi di Hezbollah ed Erdoğan farà di tutto per intralciare la pace in quell’area del Mediterraneo che disturba l’arroganza turca che si “rigenera” con l’aiuto economico del Qatar.

In particolare è possibile supporre una forte opposizione del movimento estremistico con importanti frange armate, come i Fratelli musulmani, sostenute proprio da Turchia e Qatar.

Per concludere, ormai è chiaro che la vecchia ortodossia araba sta rapidamente cedendo terreno e che questa volta, in una regione in cui la diplomazia si è sempre mossa come una lumaca, le ultime settimane sono invece caratterizzate da una velocità estrema come quella di un leopardo.

Intanto e questo è un dato incontrovertibile, si voglia o no, il Presidente Trump ha «calato un poker d’assi».

(*) Generale Giuseppe Morabito (BG Giuseppe Morabito, ITA A), Director of the Rome Capitol Training School

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