L’OPINIONE, esteri. Cina, il presunto abbattimento di un Sukhoi Su-35 di Pechino è una «fake news»?

Secondo le autorità di Taipei nessun aereo della Repubblica Popolare sarebbe stato colpito, tuttavia – secondo il generale Giuseppe Morabito - le mire egemoniche di Pechino continuerebbero a scaldare le acque dello stretto di Taiwan (*)

«La nostra capacità di creare il falso ora supera la nostra capacità di scoprirlo» (Viktor Taransky). È stata da poche ore smentita ufficialmente dalla Forza aerea di Taiwan la «balla» – o, per chi preferisce la lingua inglese, la «fake news» – secondo la quale la difesa aerea di Taiwan avrebbe abbattuto un cacciabombardiere cinese penetrato nello spazio aereo della “Cina democratica”.

Il caccia, che avrebbe dovuto essere un Sukhoi Su-35, velivolo di cui Pechino dispone in ventiquattro esemplari, tutti acquistati dalla Russia. L’aereo militare sarebbe poi – sempre secondo quanto riferito nella falsa notizia – precipitato sull’isola.

Purtroppo la «balla» è stata ripresa da alcuni siti d’informazione italiani, che si sono affrettati a condannare il governo di Taipei e il suo alleato americano. Una dimostrazione, come se ce ne fosse ancora bisogno, di asservimento a Pechino di larghe aree del nostro Paese, le stesse che spesso condannano la presidenza statunitense a priori.

La Cina comunista non ha mai rinunciato a quello che afferma essere il suo diritto di “riunificare” Taiwan anche con la forza se i suoi “cosiddetti” mezzi pacifici fossero ostacolati. Quindi gli eserciti di entrambe le parti devono continuamente tenersi in stato di allerta, per quanto remota una guerra possa sembrare.

Negli ultimi tempi il numero di esercitazioni navali condotte dalla marina militare della Repubblica Popolare ha destato allarme, tanto più in un momento di peggioramento delle relazioni tra Pechino e Washington su diversi fronti.

Lo status quo è delicato. La Cina comunista insiste che Taiwan fa parte del suo territorio, ma l’isola funziona come un paese indipendente e si sta logorando. Come afferma il “Global Times”, tabloid ufficiale cinese, «la possibilità di una riunificazione pacifica sta diminuendo drasticamente». Per fortuna, però, questo non significa che la guerra sia imminente.

Il 28 agosto il presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, ha partecipato all’apertura di un impianto di manutenzione per i caccia F-16 di fabbricazione americana sull’isola. Nel discorso che ha pronunciato per l’occasione ha affermato di desiderare che il mondo vedesse la forte volontà dei taiwanesi di proteggere il proprio paese.

Nonostante quanto precede, Pechino ha organizzato una serie di esercitazioni, definite “realistiche”, su tre diverse aree marittime nello Stretto di Taiwan, sia all’estremità nord sia a quella sud dell’isola.

In particolare, la stampa cinese ha descritto queste manovre come una “massiccia” esercitazione nello stretto all’inizio del mese, concepita sia come «deterrenza chiara e senza precedenti» sia come addestramento militare.

Senza dubbio, con lo stesso arrogante messaggio di sfida, il 10 agosto, i caccia con la stella rossa hanno attraversato la linea mediana nello stretto che simboleggia il confine aereo non ufficiale.

Le esercitazioni sembrano intese a ricordare a Taiwan e all’America quanto seriamente Pechino tratti la sua “sacra missione” di riportare Taiwan sotto la sua sovranità, ma anche a ostentare che la capacità militare cinese sia in rapido miglioramento.

È difficile non vedere quest’ostentazione di capacità militare come parte di un approccio cinese più deciso alla sua regione. Ciò è stato evidente nel Mar Cinese Meridionale, dove Pechino ha costantemente rafforzato la presenza militare in acque contese in tutto o in parte con Brunei, Malesia, Filippine, la stessa Taiwan e Vietnam.

Le rivendicazioni cinesi sul controllo del mare sono state respinte sia da un tribunale internazionale nel 2016 sia, il mese scorso, da Washington.

Pechino è estremamente sensibile a qualsiasi segnale indicatore relativo aun miglioramento delle relazioni statunitensi con Taiwan, ad esempio attraverso i contatti ufficiali con il suo governo.

Ciò è stato evidenziato particolarmente sotto la presidenza di Donald Trump, che ha subito accettato una chiamata di congratulazioni da parte della signora Tsai dopo la sua elezione nel 2016.

Nelle ultime settimane un membro del gabinetto di Trump, Alex Azar, segretario alla sanità, ha visitato Taiwan e ha incontrato la presidente Tsai (apparentemente creando le condizioni per l’ennesima provocazione di Pechino che ha organizzato in quelle ore di visita un’incursione di un jet da combattimento nello spazio aereo di Taiwan).

Ancora più preoccupanti, dal punto di vista della Cina, sono gli appelli di alcuni politici ed ex funzionari americani affinché il governo se impegni più chiaramente a difendere Taiwan. Al momento tale difesa è vincolata solo da una legge approvata nel 1979 che s’impegna – letteralmente – «a considerare qualsiasi sforzo per determinare il futuro di Taiwan con mezzi diversi da quelli pacifici, inclusi boicottaggi o embarghi, una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’area del Pacifico occidentale e di grave preoccupazione per gli Stati Uniti».

Nel suo libro di memorie pubblicato quest’anno, John Bolton, uno dei consiglieri per la sicurezza nazionale licenziati da Trump, ipotizza che Taiwan potrebbe essere il prossimo alleato americano a essere “scaricato” dal suo ex capo.

Come ha affermato questo mese un commentatore del “Global Times”: «Taiwan per gli Stati Uniti è solo un pezzo degli scacchi negoziabile».

Dopo tutto, il presidente Trump ha sempre messo «l’America al primo posto». Le concessioni commerciali gli sono sempre sembrate più importanti delle alleanze. Credere anche a Bolton si può, ricordando però che ha scritto tutto questo dopo essere stato esautorato.

Guardando un’America consumata dal virus di Wuhan, altro «regalo» cinese, una per ora limitata crisi economica e una feroce campagna elettorale che è improbabile che possa sanare le ferite politiche con Pechino, ma si può, comunque, forse più realisticamente ipotizzare che la sua disponibilità a combattere per difendere la libertà di Taiwan sia destinata a diminuire.

La Cina, al contrario, non ha elezioni, ha sconfitto la “autoprodotta” pandemia ed è tornata a una seppur minima crescita economica, e considera Taiwan non negoziabile. Vedremo cosa accadrà dopo le elezioni di novembre.

Facendo specifico riferimento proprio alla pandemia da virus di Wuhan, gli esiti tragici degli errori di Pechino hanno, si spera abbiano reso la comunità internazionale profondamente consapevole dell’ingiusta esclusione e discriminatoria di Taiwan dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal sistema delle Nazioni Unite.

La Repubblica Democratica di Cina e in particolare il governo di Taipei, democraticamente eletto, continuano a fare pressioni sull’Onu affinché ponga fine al blocco di Taiwan che, ricordiamolo sempre contro ogni falso storico o balla mediatica, non è mai stata parte della Cina Popolare.

Il presidente e il parlamento di Taipei sono eletti direttamente dal popolo taiwanese chiedono, con forza e a ragione, che l’Onu riconosca che solo il governo eletto di Taiwan possa rappresentare i suoi 23,5 milioni di persone.

In sintesi: Pechino non ha il diritto di parlare a nome di Taiwan.

(*) Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano, attualmente è analista presso la NATO College Defense Foundation; egli ricopre inoltre l’incarico di responsabile della Protezione civile di Roma Capitale

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