a cura del professor avvocato Roberto De Vita e dell’avvocato Antonio Laudisa – Il ripensamento in chiave realmente digitale della Giustizia nel nostro Paese non può più fare a meno di una condivisa strategia di sviluppo metodologico delle e-Courts, anche e soprattutto nell’ambito della giurisdizione penale.
La pandemia – definita da numerosi studiosi, a ragione, un «acceleratore di processi» – ha reso inevitabile il ricorso a strumenti di semplificazione digitale dei rapporti tra i vari attori della giustizia penale.
Finalmente, infatti, è possibile interloquire via PEC (!) con una cancelleria o con la segreteria di un Pubblico Ministero per richiedere ed estrarre copia degli atti di un processo o di un’indagine; grazie all’emergenza (ossimoro doloroso), si possono anche avere online informazioni sul deposito di sentenze e provvedimenti o, addirittura, depositare memorie, istanze o opposizioni.
E se la situazione ante covid può sembrare grottesca ai non addetti ai lavori, questa amara realtà suggerisce a chi vive i Tribunali penali del Paese di cristallizzare l’impiego di “nuove” risorse digitali, indiscutibilmente più efficaci ed efficienti, ben oltre le necessità imposte dall’emergenza sanitaria.
Sebbene gli esempi citati appartengano ad aspetti pressoché gestionali, le semplici questioni accennate sono state sufficienti a squarciare il velo di Maya dietro cui si (mal)celavano le aride resistenze culturali di alcuni: infatti, la digitalizzazione del procedimento penale è ineludibile e rappresenta, principalmente, un tema tecnico ed organizzativo, non una frontiera culturale.
Nell’introduzione al suo saggio “Online Courts and the future of justice” (2019), Richard Susskind si chiede cosa avrebbe ipoteticamente pensato, solo venti anni dopo, la sua nipote Rosa di quel saggio: perché suo nonno ha avvertito l’esigenza di sprecare il suo tempo argomentando di un tema così ovvio?
Bisogna davvero discutere del fatto che in una società digitale abbia senso che la maggior parte del lavoro dei Tribunali sia realizzato Online?
L’interrogativo vale anche (e soprattutto) per la giustizia italiana, da un lato imbrigliata nello schematismo burocratico di modelli del secolo scorso (vedasi il processo penale telematico), dall’altro paralizzata da battaglie di principio che, seppur meritevoli di considerazione nei presupposti, disvelano una strenua difesa dello status quo ante, rassicurante nel suo essere “sempre uguale a se stesso”.
Tuttavia, almeno per ciò che concerne il procedimento penale, il reale punto critico della disputa sussiste e risiede nella fase del processo vero e proprio: l’aula e il dibattimento digitali rappresentano il confine ideologico che rischia di ostacolare ed impedire il governo di un cambiamento inevitabile.
È noto che la remotizzazione dell’udienza penale (che, in verità, rappresenta un aspetto addirittura marginale dell’ideale modello di e-Courts) sia al momento una vera e propria chimera per numerosi avvocati penalisti, preoccupati che la smaterializzazione della giustizia penale – più che riguardare atti, depositi e fascicoli, come già accennato – possa di fatto realizzare una evanescenza della figura del difensore.
In verità, è proprio l’udienza – architrave dei principi costituzionali che governano il dibattimento – a rappresentare, de facto e nella percezione individuale, il luogo in cui l’avvocato difensore realizza il significato più profondo della sua presenza; pertanto, il timore di veder scomparire il proprio ruolo, assieme all’aula ed alle sue consolidate regole e garanzie, non deve essere sottovalutato.
D’altra parte, il Pubblico Ministero baricentra inevitabilmente la propria attività sulla fase delle indagini preliminari: queste sono il fulcro del suo operato, di cui il dibattimento testa validità, accuratezza, resistenza.
Il Giudice, invece, orienta la propria visione del processo al provvedimento: l’elaborazione e la scrittura di decreti, ordinanze, sentenze indirizza la visione dell’organo giudicante, che percepisce la responsabilità di dover adottare una decisione giusta.
Parafrasando un famoso adagio, la vera essenza del processo penale è negli occhi dei vari attori che lo osservano, lo animano e lo vivono: sulla base di ciò, il processo penale digitale non può fondarsi sulla mera telematicizzazione di istituti tradizionali, ovvero sulla semplice creazione di nuove regole procedimentali, esclusivamente orientate dal fine a cui tende lo strumento.
Pertanto, la scelta di migliorare un sistema (già) disfunzionale ed inefficiente, adeguandone le regole agli strumenti, è il più grande dei pericoli e rischia di rappresentare la più beffarda delle vittorie di Pirro: migliorare “le prestazioni” della giustizia non può costare il sacrificio delle garanzie costituzionali su cui indagati e imputati, persone offese e danneggiati possono contare.
Al contrario, il cambio di paradigma culturale deve poter prendere le mosse dai diritti e dalle garanzie, con l’obiettivo di accostare al modello tradizionale un nuovo, ed alternativo, schema: il “rito digitale”.
Come per altri riti speciali, il “rito digitale” si affiancherebbe al dibattimento tradizionale, caratterizzato per essere nella disponibilità dell’imputato e, magari, con una connotazione premiale: garantendo l’equilibrio tra le necessarie limitazioni rispetto al giudizio ordinario (nonché le conseguenti efficienze organizzative) e le opportune garanzie suppletive del nuovo rito, la citata sede processuale rappresenterà un concreto e graduale superamento delle ontologiche differenze tra regole tradizionali e giustizia digitale.
Questa proposta consente di elaborare un nuovo approccio alla digitalizzazione delle risorse della giustizia: non si tratta dell’affannata reazione ad un’emergenza o della frettolosa ricerca di soluzione ad un bisogno temporaneo.
Al contrario, le più credibili analisi di scenario rilevano un inevitabile consolidamento di questa “accelerazione del digitale” nel Paese, come nel resto del mondo: la ricerca di una soluzione concreta e stabile consentirebbe di governare un cambiamento che, altrimenti, tutti saremo, prima o poi, costretti a subire.
D’altro canto, questa nuova soluzione favorisce nuovi (e graduali) dibattiti ed analisi su altri campi di interesse: tra questi, spicca il necessario confronto tra esigenze di pubblicità dell’esercizio della giustizia e istanze di riservatezza degli individui; in altri termini, si dovrà discutere del bilanciamento tra partecipazione al controllo democratico della giustizia da parte dei cittadini e tutela della dignità sociale e libertà morale dei soggetti, parti di un giudizio.
E ciò soprattutto alla luce della enorme differenza che c’è tra partecipare, in maniera fisica, diretta e momentanea, a tale controllo e poterlo invece conservare, rivedere, valutare: un tema ostico, che necessita di un approccio laico e di una conoscenza approfondita di principi giuridici, prima che di soluzioni tecniche.
Sovvengono, perciò, nuovamente le parole di Susskind ed il suo dubbio sull’utilità di una discussione in merito al tema della “giustizia digitale” in una società digitale.
Sul punto, egli stesso ricorda il pensiero del premio Nobel Max Planck: secondo quest’ultimo, una verità scientifica non trionfa necessariamente convincendo i suoi oppositori e consentendo loro di “vedere la luce”, ma – più probabilmente – ha la meglio perché i suoi avversari alla fine muoiono, lasciando il posto ad una nuova generazione di menti che hanno maggiore familiarità (e propensione) all’idea medesima.
Tuttavia, nel caso della giustizia penale, l’impegno ed il confronto attuali permetterebbero di fondare un modello processuale nuovo, ma pienamente rispettoso delle istanze (e dei dubbi) dei detrattori e di quelle precedenti generazioni, che hanno contribuito a fondare e costruire il sistema vigente.
E allora, la migliore soluzione – per il processo penale – è proprio una sede in cui sperimentare un nuovo modo di intendere il Tribunale, l’udienza ed il contraddittorio, senza però rinunciare in toto a quei baluardi che la tradizione giuridica ha eretto a tutela dell’individuo ed a garanzia di un giusto processo.