MiniBook Utilitatis, focus economia: le società a partecipazione pubblica, evoluzioni nell’ultimo decennio e profili di governance; di Sauro Mocetti e Giacomo Roma (*) – Le utilities rappresentano una quota significativa delle società pubbliche e si caratterizzano per una maggiore rilevanza degli enti locali nella loro struttura proprietaria.
Sebbene in misura inferiore rispetto al resto delle partecipate, il loro numero si è ridotto nell’ultimo decennio, anche per effetto di processi di aggregazione volti a sfruttare le economie di scala.
Permane cruciale puntare sulla buona governance per incrementare l’efficienza di queste società e i benefici per la collettività che ne possono derivare.
Per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia, favorendo al tempo stesso la doppia transizione ecologica e digitale che vuole essere la cifra dei programmi europei messi in campo in questa fase, è stato da più parti invocato un ruolo attivo delle imprese pubbliche. Le utilities (dall’energia al trasporto pubblico locale), per motivi diversi, intervengono nei settori economici più interessati dalle grandi trasformazioni in corso.
Un dibattito informato sul perimetro e il funzionamento delle imprese pubbliche e, in particolare, di quelle operanti nei servizi pubblici locali necessita tuttavia di un quadro statistico cui ancorare riflessioni e valutazioni.
Anche a tale fine, in un recente lavoro abbiamo ricostruito, incrociando diversi database, l’universo dei soggetti partecipati dal pubblico, ne abbiamo indagato l’evoluzione nel tempo e abbiamo approfondito l’analisi sulla loro performance e governance.
Le utilities nel panorama delle società a partecipazione pubblica. Secondo le nostre stime, nel 2018 le partecipate (direttamente e indirettamente) dal settore pubblico erano circa 7.300; più della metà era controllata (spesso al 100%) da pubbliche amministrazioni, ma in un numero significativo di casi la partecipazione era marginale. Le partecipazioni «polvere» (inferiori all’1%) riguardavano all’incirca una società su dieci.
Le partecipate organizzate in società sono circa tre quarti del totale, mentre il restante quarto è rappresentato da associazioni, fondazioni e consorzi. Le utilities si concentrano nel primo di questi due gruppi, in virtù degli interventi legislativi che hanno imposto la forma societaria per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
A livello settoriale, le imprese con partecipazioni pubbliche sono diffuse in quasi tutte le attività, sia nell’industria sia nel terziario. Tra le partecipate, quasi una su quattro opera nei servizi professionali e, in particolare, in attività di direzione aziendale (ad esempio holding) e di ricerca e sviluppo (partecipate in prevalenza dalle università). Tra le controllate, al contrario, l’incidenza delle public utilities è più elevata; la gestione dell’acqua, delle reti fognarie e dei rifiuti rappresenta il 15%, le attività di trasporti il 10 e la fornitura di energia elettrica e gas il 9.
Le public utilities, identificate sulla base del settore di attività economica, si caratterizzano rispetto alle altre partecipate pubbliche per una maggiore dimensione (il numero di addetti è in media più del doppio) e una maggiore incidenza del socio pubblico (che è più spesso un ente locale e, in particolare, un comune).
Tra il 2011 e il 2018 il numero delle partecipate pubbliche è diminuito di oltre un quinto. Sono state dismesse soprattutto imprese piccole (oltre la metà aveva meno di cinque addetti) e non profittevoli (nella maggioranza dei casi registravano risultati di esercizio negativi).
Non sorprendentemente, tra le società di capitali dismesse circa il 60% non era più attiva nel 2018, o perché uscita dal mercato o perché inglobata in altre società.
La flessione del numero delle partecipate pubbliche è stata lievemente inferiore nei settori dove operano le public utilities. Quest’evoluzione è stata determinata da diversi fattori.
Gli interventi che si prefiggevano specificamente la razionalizzazione delle partecipazioni, con una riduzione del loro numero, hanno avuto effetti limitati. Il Testo unico del 2016 per la prima volta ha previsto dei criteri quantitativi che avrebbero dovuto condurre alla dismissione: fatturato inferiore a 500.000 euro, numero di dipendenti inferiore a quello degli amministratori, società in perdita per quattro esercizi nei cinque anni precedenti.
Tuttavia, esso non ha avuto gli effetti attesi: tra le partecipate che dovevano essere oggetto di razionalizzazione in base a questi criteri, solo il 14% era stato effettivamente dismesso al 2018.
Il Testo unico del 2016. Dati i criteri fissati dal Testo unico, ancor più limitato è stato l’impatto per quanto riguarda le utilities: essi erano di fatto destinati alla razionalizzazione delle partecipazioni in società di piccole dimensioni, mentre le utilities hanno una dimensione generalmente maggiore; inoltre, il Testo unico prevede che il criterio sul risultato di esercizio non si applichi alle società che gestiscono servizi pubblici locali.
Per il settore delle utilities la dinamica osservata è piuttosto attribuibile ai processi di aggregazione che, seppur non del tutto completati, hanno interessato il comparto a seguito dell’organizzazione dei diversi servizi in ambiti territoriali ottimali. L’importanza della buona governance L’enfasi sulla necessità di razionalizzare le partecipate pubbliche non si è accompagnata ad altrettanta attenzione al miglioramento della governance – aspetto su cui si sofferma anche l’OCSE, evidenziando con specifiche linee guida l’importanza sia degli strumenti di governo societario (es. la selezione degli amministratori), sia delle modalità con cui i soggetti pubblici esercitano il loro ruolo di socio.
L’importanza di una buona governance delle imprese pubbliche emerge anche in molti aspetti della nostra analisi, coerentemente con analoghi approfondimenti svolti con riferimento al mondo delle utility.
Il numero degli amministratori delle società controllate, pur essendo diminuito tra il 2011 e il 2018, rimane superiore a quello osservato in imprese private simili per dimensione, localizzazione e settore di attività. Gli amministratori, inoltre, si caratterizzano per una minore esperienza professionale e una maggior probabilità di aver svolto ruoli politici.
Questi elementi sono rilevanti per la performance delle imprese: la presenza di manager con maggiore esperienza si associa a una maggiore profittabilità e a una minore incidenza del costo del lavoro sul fatturato.
Una più elevata quota di amministratori che hanno svolto attività politica, al contrario, si associa a una maggiore incidenza del costo del lavoro. Anche la qualità del socio pubblico conta. Per verificarne gli effetti abbiamo sfruttato un indicatore di corruzione a livello locale – basato sull’incidenza dei reati di corruzione, sulla fiducia dei cittadini verso le istituzioni pubbliche locali, sulla percezione del grado di integrità delle amministrazioni e sulla qualità della spesa pubblica.
Abbiamo diviso il campione in cinque aree geografiche caratterizzate da un rischio di corruzione crescente e analizzato come si modifica il differenziale di performance tra le imprese controllate e quelle simili operanti nel privato. I risultati mostrano che all’aumentare del rischio di corruzione peggiora significativamente, per le società controllate dal pubblico, sia la profittabilità, sia l’efficienza operativa, come mostrato dall’incremento dell’incidenza del costo del lavoro.
Sia la profittabilità sia l’incidenza del costo del lavoro sono misurati in percentili. Un contributo alla diminuzione del numero di società pubbliche può essere derivato dalla cosiddetta «amministrativizzazione», ossia l’applicazione di regole proprie della pubblica amministrazione (ad es. in materia di appalti e assunzioni) anche a soggetti di diritto privato, che ha ridotto la “convenienza” del ricorso a questi ultimi. Tuttavia, per la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica l’utilizzo della forma societaria non è frutto di valutazioni discrezionali da parte dell’ente pubblico, ma è imposto dalla legge.
Considerazioni conclusive. L’attenzione del legislatore e dell’intero dibattito pubblico sul tema delle partecipate si è a lungo concentrata sulla dimensione quantitativa del fenomeno, poiché il loro numero veniva considerato eccessivo. I vari interventi di razionalizzazione, rimasti ampiamente inattuati, si sono concentrati sull’eliminazione delle società più piccole, colpendo solo marginalmente le sacche di inefficienza.
Inoltre essi hanno riguardato in sostanza solo le società strumentali. Il settore dei servizi pubblici locali ha anche scontato la travagliata evoluzione della normativa di riferimento – da ultimo, con il mancato completamento della riforma avviata con la legge 124/2015 (a seguito della nota sentenza 251/2016 della Corte costituzionale).
In questo comparto, più che da norme puntuali che prevedano la dismissione di società al realizzarsi di specifici parametri, la razionalizzazione potrebbe derivare dal quadro regolatorio nel suo complesso, con un corretto bilanciamento tra apertura alla concorrenza e perseguimento degli altri interessi pubblici.
In particolare essa dovrebbe conseguire dalla definizione della modalità per la gestione del servizio, con il disegno di adeguati ambiti territoriali – che può influenzare, indirettamente, il numero “ottimale” di operatori – e una scelta del gestore trasparente ed efficace – che selezioni le società, pubbliche o private, maggiormente meritevoli di offrire il servizio.
In caso di gestione pubblica, è inoltre importante garantire una buona governance delle partecipate, aspetto al quale è stata storicamente dedicata scarsa attenzione, mentre sia la qualità dei soci pubblici sia le competenze degli amministratori possono influenzare in misura significativa la performance di queste società.
Per le società quotate, benefici in tale direzione possono invece derivare dalla maggiore pressione concorrenziale cui sono sottoposte e da una più consolidata adozione di standard internazionali.
(*) Le idee e le opinioni espresse in questo minibook sono da attribuire agli autori e non investono la responsabilità dell’Istituzione di appartenenza