di Mario Baldassarri, presidente del Centro Studi Economia Reale, pubblicato l’11 agosto 2020 da “Il Sole 24 Ore” – Una subdola vecchietta offrì a Biancaneve una bellissima mela avvelenata. Ebbene, almeno negli ultimi venti anni all’economia e dalla società italiane sono state propinate centinaia e centinaia di mele, apparentemente attraenti, ma tutte avvelenate. Si chiamano deduzioni, agevolazioni e bonus fiscali, dette «Tax Expenditure».
Una prima rilevazione ufficiale del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) qualche anno fa certificò che queste ammontavano a 160 miliardi di euro all’anno.
Nel 2018 il Rapporto della Commissione Marè, sempre del Mef, ha rivisto tale elenco e ha limitato le voci per una eventuale revisione a circa 80 miliardi di euro.
Nelle quasi duecento pagine del Rapporto del Mef si descrivono analiticamente le centinaia di agevolazioni e riduzioni a pioggia introdotte con centinaia di leggi e provvedimenti sedimentati nei decenni scorsi come stratificazioni geologiche delle diverse ere politiche e delle lobby che di volta in volta sono riuscite a ottenerle.
All’interno di quei numeri emergono agevolazioni e riduzioni fiscali in palese contraddizione tra loro.
Faccio soltanto due esempi:
Il primo è l’incentivo fiscale al trasporto merci su gomma e quello al trasporto merci su ferrovia. Se si incentiva tutti, non si incentiva nessuno, ma si fa un favore a tutte le consorterie contrapposte;
il secondo sono i sussidi ambientali che, per il 2017 il Ministero dell’Ambiente ha certificato in quarantuno miliardi di euro. Di questi, diciannove sono stati considerati «ambientalmente dannosi» poiché concessi prevalentemente a favore di settori energivori e alle produzioni di energia con combustibili fossili), quindici miliardi, invece «ambientalmente favorevoli», sono stati concessi ai settori che producono energia mediante il ricorso a fonti rinnovabili e circa sette miliardi sono di incerta attribuzione.
Un’altra cesta di mele avvelenate è rappresentata dai circa cinquanta miliardi di euro all’anno di trasferimenti a fondo perduto in conto corrente e in conto capitale, mille miliardi negli ultimi venti anni.
A fronte della pandemia il Governo ha introdotto un’ulteriore pioggia di agevolazioni fiscali e bonus: dalle biciclette e monopattini elettrici fino ai recenti bonus casalinghe e agli sgravi contributivi di sei mesi per chi assume o di quattro mesi per chi richiama lavoratori dalla cassa integrazione.
Tanti piccoli secchi d’acqua con la pretesa di vedere spuntare l’erba nel deserto economico e sociale del prossimo autunno. L’effetto economico di tutte queste agevolazioni, sgravi e bonus è assolutamente modesto, i miliardi impegnati sono soldi in deficit con debito futuro da ripagare, che non attivano crescita e occupazione e quindi sono in gran parte buttati al vento.
Ma, al di là degli effetti economici, queste agevolazioni fiscali, bonus e fondi perduti erogati a pioggia ledono un sacrosanto principio costituzionale, che è quello della libertà economica dei cittadini e delle imprese.
Non sono un costituzionalista e quindi mi limito a ragionare da economista.
In Italia il reddito prodotto da famiglie e imprese viene “incamerato” dal Bilancio pubblico con entrate totali di 850 miliardi di euro, pari al 47% del Pil (43% di pressione fiscale e 4% di altre entrate).
Se si considerano gli oltre cento miliardi di evasione, si vede che chi paga onestamente tutte le tasse subisce una pressione fiscale che sfiora il 60 per cento. Più semplicemente, con un lavoratore che “costa” all’impresa 3.000 euro al mese si ritrova in busta paga un netto di 1.500 euro.
Dopodiché, lo Stato, dopo avergli dimezzato lo stipendio, pretende con agevolazioni e bonus di dire a quel lavoratore cosa farne dei restanti 1.500 euro e cioè se andare in vacanza o in pizzeria o se comprare un monopattino o un mobile da cucina.
Qualche anno fa è stato introdotto in costituzione un vincolo sull’azzeramento del deficit pubblico. Da senatore non l’ho votato, per due motivi.
Il primo è che il vincolo sul deficit imposto da Maastricht – come hanno affermato autorevoli europeisti – era «stupido», perché lasciava governi e parlamenti liberi di aumentare sia le tasse che la spesa pubblica, di aumentare cioè il “peso” dello Stato rispetto alle libertà di scelta dei cittadini.
Il secondo è che il problema non è il deficit di per sé, ma “cosa” si fa con quel deficit. In sostanza, il deficit pubblico va riferito esclusivamente ad investimenti.
Il vero patto costituzionale tra Stato e cittadini deve allora riguardare il tetto al totale delle entrate in rapporto al Pil. Questo è infatti lo spartiacque tra scelte individuali dei cittadini per acquisto di beni privati e dovere di partecipare alle scelte collettive per la forniture di servizi e beni pubblici.
Pertanto, di fatto, siamo tutti cittadini e imprese a mezzadria con lo Stato, esclusi ovviamente gli evasori. Siamo cioè vicini a un paese a “socialismo reale” di sovietica memoria.
Si ricorderà che in quella esperienza lo Stato “decideva” cosa e quanto i cittadini potevano e dovevano comprare, lo faceva attraverso la fissazione di prezzi politici decisi dal pianificatore centrale. Ma si ricorderà anche che andavano esaurite in pochi giorni le scarpe numero quaranta e rimanevano invendute nei magazzini quelle numero quarantotto. Per di più si affermava che fosse stata sconfitta l’inflazione – come qualcuno in Italia ha annunciato in pompa magna la «sconfitta della povertà» -, quando in realtà era solo stata mascherata nelle file di attesa davanti ai negozi vuoti e nei magazzini gonfi di merci invendibili.
È allora evidente che se quelle decine e decine di miliardi di Tax Expenditure e fondi perduti fossero invece utilizzate per varare una seria, forte e strutturale riforma dell’Irpef e della tassazione delle imprese, gli effetti sulla ripresa dei consumi e degli investimenti sarebbero molto più forti e, soprattutto, famiglie e imprese sarebbero “più libere” di decidere come spendere il reddito da loro faticosamente prodotto, rispettando meglio il sacrosanto principio della nostra Costituzione.