LIBANO, instabilità. Dopo l’esplosione al porto di Beirut giungono le dimissioni del governo Diab

Nel Paese dei Cedri si innescano dinamiche pericolose, con Hezbollah che rischia di rimanere nell’angolo nella sua “ridotta” del Libano meridionale. Forse il nitrato di ammonio ha accelerato l’epilogo della strategia concepita a Teheran da Qasem Soleimani. Ma le incertezze gravano anche sugli interessi italiani, in particolare nel settore Oil & Gas, compromesso dall’assenza di valide infrastrutture alternative

Dopo l’esplosione al porto di Beirut e i conseguenti disordini di piazza sono stati in molti a ritenere che quella dell’esecutivo presieduto da Hassan Diab era ormai «una morte annunciata» e, infatti, nella giornata di ieri il premier libanese ha rassegnato le proprie dimissioni da capo del governo.

Lo ha fatto dopo aver promesso ai cittadini del suo paese un’indagine approfondita sulle reali ragioni dell’immagazzinamento di quegli esplosivi nel porto della capitale, ma soprattutto dopo il duro monito lanciato dalle gerarchie ecclesiastiche cristiane.

«Le dimissioni di un deputato o di un ministro di lì non sono sufficienti – aveva infatti dichiarato il giorno precedente il cardinale Bechara Boutros Rai, patriarca maronita -, piuttosto il governo dovrebbe dimettersi se non è in grado di governare e fare avanzare il Paese».

Nell’omelia di domenica scorsa, il cardinale aveva parlato di una situazione generale peggiorata a causa dell’aumento della corruzione e «i movimenti popolari rabbiosi a cui abbiamo assistito confermano l’impazienza del popolo libanese oppresso e umiliato e indicano la determinazione a cambiare in meglio».

Diab ha provato quindi a recitare il copione della solidarietà con una popolazione sempre più infuriata (una parte di essa almeno), nel tentativo di scaricare tutte le responsabilità in ordine alla disastrosa situazione nella quale versa il Paese su di una classe politica e dei centri di potere corrotti.

Un esercizio di retorica scarsamente efficace, anche nei confronti di gente ormai esasperata dalla crisi economica e dagli effetti destabilizzanti della presenza di masse di profughi giunti dalla confinante Siria, dilaniata dalla guerra.

Migliaia di libanesi sono scesi in piazza negli ultimi giorni inneggiando alla rivoluzione e chiedendo le dimissioni di una classe politica la cui corruzione e la cattiva gestione della cosa pubblica affermano avere fatto precipitare il paese in uno stato di rovina economica, anche prima delle esplosioni della scorsa settimana.

Nel frattempo la comunità internazionale ha promesso 300 milioni di dollari di aiuti umanitari per la ricostruzione, un’attività che – affermano i donatori – dovrà essere coordinata dalle Nazioni Unite.

Tuttavia, si tratta di finanziamenti che le petromonarchie del Golfo Persico erogheranno soltanto qualora verrà soddisfatta la condizione che impone al governo di Beirut di riformare il suo settore pubblico, definito «gonfio, inefficiente e corrotto».

Ma questo significa una cosa ben precisa e chiara: l’esclusione dal potere degli sciiti di Hezbollah e dei loro alleati, cioè di quelli che per interesse o per scelta obbligata non potranno che restare al fianco di Narsrallah.

Beirut è in fiamme, ma non a causa della coda degli incendi del porto, bensì per i nuovi roghi, quelli appiccati dai manifestanti infuriati (o anche da qualche provocatore, ma in questi frangenti succede sempre così) agli edifici pubblici, nonostante la caduta del governo.

Ci sono molte incertezze e una certezza sul futuro del Libano, fattori sui quali ragionano disperatamente anche uomini d’affari e broker, sia locali che stranieri.

Partiamo dalle incertezze. Se, fino al momento del disastro del porto, il sistema di potere che ha espresso l’alleanza tra cristiano-maroniti e sciiti di Hezbollah (emblematizzata dal vecchio generale Michel Aoun) aveva retto, adesso la situazione è mutata, con tutte le incertezze del caso, poiché non è affatto chiaro quale alchimia etnico-proxi-politica governerà il Paese dei cedri in una fase critica e delicata come quella che si sta aprendo adesso, gestendo per altro l’auspicato processo di ricostruzione qualora esso avrà concretamente luogo.

Per provare a percepire quello che è il sentimento attualmente diffuso tornano utili le disperate parole di un operatore del settore imprenditoriale dell’Oil & Gas, Michele Marsiglia, presidente di FederPetroli Italia, che nella giornata di ieri ha diffuso un comunicato alla stampa affermando che: «Con il porto di Beirut devastato, gran parte dell’export italiano derivato dalla raffinazione con destinazione Libano sarà compromesso, con forti perdite».

Aggiungendo poi che «diverse raffinerie italiane fanno salpare petroliere con destinazione Beirut, cioè il Libano, un paese che ha sempre rappresentato un mercato proficuo per l’Oil & Gas italiano. Parliamo non solo di raffinazione ma siamo in gara per diversi asset nell’offshore nelle acque a largo delle coste di quel paese. Ma con la chiusura del porto della capitale, lo scalo di Tripoli, più a nord, non rappresenterà una sostituzione ottimale per lo scarico e la logistica dei prodotti».

I turchi si sono subito affrettati a offrire ai libanesi la disponibilità del porto di Mersin, sulla costa dell’Anatolia sud-orientale, poco sopra il confine con la Siria, evidente segno, non solo di un protagonismo attivo in Mediterraneo, ma anche di una soluzione alternativa che possa evitare che la dinamica avviatasi con l’esplosione di martedì scorso nella capitale libanese non comprometta eccessivamente lo statu quo.

Infatti, l’importanza dell’infrastruttura portuale andata in fumo assieme a duecento esseri umani non si esaurisce nella funzionalità di un sistema economico come quello libanese, poiché quel porto costituiva anche il cuore pulsante di organismi di natura politica, militare e financo criminale esistenti in quella martoriata e complicata terra.

Infatti chi controlla un porto con quel pescaggio e quegli impianti di caricamento e stoccaggio controlla anche ciò che entra e che esce dal Paese, sia lecitamente che illecitamente.

Quindi certamente business, ma anche armi, droga, denaro, persone (tra le quali terroristi, mafiosi e uomini delle intelligence) e altro ancora.

La caduta del governo di coalizione sciita-maronita significherà – con ogni probabilità – la perdita del controllo di quel fondamentale punto di ingresso nel Libano, con tutto ciò che ne consegue, ad esempio, nei termini della logistica della milizia armata del Partito di Dio di Nasrallah.

Hezbollah, stremato dal defatigante e oneroso (principalmente in termini di perdite umane) impegno nel sanguinoso conflitto siriano in sostegno di Bashar al-Assad, si trova oggi praticamente chiuso nelle sue storiche “ridotte”: i popolari quartieri meridionali di Beirut e il Libano Meridionale, dove è molto forte ma non più invincibile e dove potrebbe trovarsi costretto ad asserragliarsi per vivere una esistenza dai toni molto più ridimensionati rispetto al recente passato.

Già, perché quelli di oggi non sono più i tempi in cui era in grado di far saltare in aria l’auto del generale israeliano Gerstein, provocando la decisione di Tel Aviv di ritirare Tsahal dal territorio libanese che occupava. La sua “spina nel fianco”.

Seppure Gerusalemme non desideri e non pensi a un ennesimo impegno militare in grande scala oltre la «linea blu», è comunque un dato di fatto che ad Hezbollah siano state ulteriormente “spuntati gli artigli”.

Magari, con una certa dose di cinismo e di dietrologia – mai comunque ai livelli di quei propagandisti e disinformatori che hanno fatto circolare la voce che a provocare lo scoppio sia stata una mini-nuke lanciata dagli israeliani -,potrebbe anche risultare possibile pensare che la devastante esplosione al porto di Beirut (accidentale o meno che possa essere stata) concluda un ciclo iniziato con la eliminazione del potente generale e stratega iraniano Qassem Soleimani, portata a termine in Iraq, con un Iran sempre più in difficoltà sullo scacchiere regionale.

È la fine di un’era? Forse. Come probabilmente sono degli illusi coloro i quali – in perfetta buona fede, per carità -, auspicano che dai violenti disordini di piazza di Beirut sorga un Libano democratico e unito.

Quando l’iperattivo presidente francese Emmanuel Macron, nell’immediatezza del disastro si è recato nella capitale libanese per dimostrare la solidarietà della Francia ha parlato a tutta la popolazione, ma probabilmente con la riserva mentale che i destinatari della sua amicizia fossero in particolare i cristiano-maroniti.

È nei loro quartieri infatti che si è recato, che erano certamente tra quelli maggiormente danneggiati dall’esplosione, un aspetto che possiede comunque una elevata valenza simbolica, soprattutto in vista di una possibile nuova frantumazione del quadro politico libanese, in una quadro nel quale i maroniti potrebbero staccarsi dal loro attuale ingombrante alleato, per ricostituire un solido fronte comune cristiano in vista di rimodulazioni e sviluppi futuri della situazione.

Auspicabilmente privo della presenza di Falangi, Tigri e formazioni guerrigliere rispondenti ad altre confessioni e “centrali” estere.

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