di Mario Baldassarri, pubblicato da “Il Sole 24 Ore” il 31 luglio 2020 – All’Italia potrebbero arrivare circa 280 miliardi di fondi europei: 76 da MES-BEI Fondo Disoccupazione e 209 dal Recovery Fund, circa 90 dei quali a fondo perduto.
Queste risorse si possono però ottenere a fronte di riforme strutturali e concreti piani di investimento, un cronoprogramma su «come» e «dove» spenderli.
Purtroppo governo, maggioranza e opposizione si sono subito accapigliati sul «chi» dovrà gestire i fondi, rinviando ad ottobre avanzato il «come» e il «dove».
La premessa a tutte le riforme è comunque una profonda ristrutturazione del bilancio pubblico, delle spese e delle entrate.
Un abbassamento permanente delle tasse degli italiani non può essere tecnicamente finanziato con fondi europei perché sono comunque una tantum e politicamente perché un’ipotesi del genere darebbe solo forza ai paesi cosiddetti «frugali» che hanno già pesanti preconcetti verso l’Italia.
Ecco perché la riforma fiscale deve essere finanziata da noi con tagli agli sprechi, malversazioni, ruberie, agevolazione fiscali corporative e a pioggia e lotta all’evasione che dovranno fornire le risorse per sgravi a famiglie e imprese per almeno 60 miliardi di euro.
Se introducessimo una Irpef con una no-tax area sotto i 20.000 euro e tre aliquote, al 20% da 20.000 a 50.000 euro, al 30% tra 50.000 e 100.000 euro e al 43% sopra i 100.000 euro, si avrebbe un “abbassamento delle tasse” di circa 40 miliardi di euro. Questi sgravi andrebbero per l’80% ai redditi medio bassi inferiori ai 55.000 euro. Questa Irpef sarebbe pertanto progressiva e socialmente molto più equa.
Per la copertura finanziaria basterebbe tagliare 40 miliardi, cioè la metà delle attuali Tax Expenditure a pioggia che, purtroppo, sono aumentate con un diluvio di goccioline piccole, piccole.
Alla riforma Irpef si deve poi affiancare l’azzeramento dell’Irap o la riduzione del cuneo fiscale-contributivo per le imprese per 20 miliardi, compensandola con una pari riduzione degli oltre 50 miliardi di fondi perduti che ogni anno, da oltre trenta anni, eroghiamo a pioggia in conto capitale e in conto corrente.
Sulla pietra d’angolo della riforma fiscale fatta con risorse proprie poggiano poi le strategie da realizzare con i fondi europei.
Da oltre trent’anni sappiano tutti quali siano i nodi che bloccano l’economia e la società italiane. Non è difficile quindi indicare subito due filiere di investimento che producono effetti in “orizzontale” su tutti i settori di attività economica (infrastrutture materiali e infrastrutture immateriali) e cinque riforme strutturali “in verticale” su specifici settori di servizi pubblici essenziali: sanità, giustizia, pubblica amministrazione, scuola, università e alta formazione.
Gli investimenti materiali vanno riferiti a strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti, dissesto idrogeologico e riconversione ambientale. Questo per fare dell’Italia intera la vera piattaforma naturale al centro del Mediterraneo, cerniera dei movimenti di merci e di uomini da Asia e Africa verso il centro e il nord dell’Europa.
Quelli immateriali devono riguardare la rete 5G, Italy WIFI, ricerca e innovazione tecnologica e industria 5.0.
Le riforme “verticali” devono indicare con chiarezza precisi obiettivi: sanità (più medici, più infermieri, più presidi territoriali con tutti i medici di base messi in rete e meno ruberie negli acquisti e nelle forniture), giustizia civile e penale (riforma del CSM e separazione delle carriere), pubblica amministrazione (autocertificazioni e silenzio-assenso in tempi brevi e automatici), scuola (messa a norma di tutti gli edifici scolastici, assunzioni e carriere per meriti verificabili per concorsi, borse di studio per i meno abbienti per scuola media e scuola secondaria, università (borse di studio per i meno abbienti e costituzione di dieci centri di alta formazione messi a rete in tutto il territorio sullo schema Scuola Normale di Pisa).
Ciascuna linea di investimento e di riforma va articolata in cinque anni con specifica assegnazione di risorse e di tempi di realizzazione.
Tutte queste «riforme» sarebbero totalmente finanziabile con i fondi europei, senza alcun ricorso al mercato.
Il Centro Studi Economia Reale ha ipotizzato uno schema di assegnazione di risorse sulla base di quanto tutti abbiamo letto negli ultimi trenta anni e una iniziale lista di specifici progetti.
Questo potrebbe e dovrebbe essere un concreto punto di partenza del confronto politico sul «come» e «dove» usare i fondi disponibili.
Sulla base di questo schema si sono stimati gli effetti macroeconomici che si produrrebbero sull’economia italiana.
Dopo il -12% di Pil quest’anno, avremmo un rimbalzo al 7% nel 2021 e una ripresa strutturale della crescita oltre il 3% negli anni successivi. L’occupazione crescerebbe e la disoccupazione sarebbe in forte riduzione, con conti pubblici in ordine e debito sostenibile.
Nei fatti tutto dipende da noi. Un rapido e buon uso delle risorse renderebbe infatti inutile e inapplicabile qualunque “condizionalità”, sia presente (che non c’è) che futura e futuribile che possa essere.
Ora, la realtà immediata è che l’Italia va incontro a un autunno di profonda e drammatica crisi economica e sociale.
Le risorse del Recovery Fund saranno disponibili dopo la primavera 2021, mentre quelle del MES-BEI-Naru sono disponibili subito. Ecco allora che abbiamo bisogno di un ponte per l’autunno per poi avere l’anno prossimo il motore di sviluppo. Quel motore è certamente il Recovery Fund, ma MES, BEI e SURE possono e devono essere quel ponte.