TERRORISMO, misteri italiani (3). Strage di Bologna. Tante anomalie, alcuni depistaggi e una pista negletta: quella palestinese

I due «arabi» allontanatisi dal piazzale della stazione poco prima dell’esplosione a bordo di una Ritmo che verrà ritrovata bruciata poco dopo a Casalmaggiore. Il cadavere scomparso dalla sala d’aspetto della stazione e i due giovani introdottisi all’obitorio che furono sconvolti alla vista di un morto che probabilmente conoscevano bene. La loro inspiegabile fuga: una era una ragazza italiana, l’altro un giovanotto dai tratti mediorientali. I terroristi tedeschi in contatto con Carlos e con il Fplp che si trovavano a Bologna il giorno della strage

La vettura bicolore crema e aragosta dell’Atc percorse veloce il centro cittadino. In quella calda mattinata d’estate i bolognesi la videro transitare, molleggiando sulle sue moderne sospensioni per la via. Notarono subito che qualcosa non andava. erano oltremodo strane quelle lenzuola bianche che gli stessi tranvieri avevano fissato ai finestrini, delle pietose tendine improvvisate che, di tanto in tanto, nella corsa svolazzavano lasciando intravedere i malcapitati passeggeri che si trovano all’interno.

Infermieri in camici bianchi sporchi di sangue e calcinacci, mentre a terra, sulla piattaforma e nel corridoio dell’autobus giacevano i morti.

Già, perché quella vettura triste non stava percorrendo il consueto itinerario della linea 37, poiché la sua successiva fermata sarebbe stata a via Irnerio, all’obitorio.

L’istituto che quel 2 agosto ricevette un numero anomalo di cadaveri, quelli delle ottantacinque persone decedute poco prima alla stazione ferroviaria.

Ottantacinque od ottantasei? Anche quella del conteggio dei cadaveri presi in carico fu un’altra anomalia emersa quella mattina all’obitorio di via Irnerio, poiché ancora oggi, a distanza di trentanove anni dalla strage, non si ha certezza sulla possibile “scomparsa” del corpo di un morto.

Ma a chi poteva appartenere quel cadavere scomparso?

L’ottantaseiesima vittima. Nella confusione di quei concitati momenti non tutte le regole vennero rispettate, inclusa quella dell’accesso ai locali dell’obitorio, conseguentemente, anche persone estranee ebbero la possibilità di entrarvi e uscirvi. Come quei due giovani mai identificati che si soffermarono alcuni minuti di fronte a un cadavere.

Poco tempo dopo l’esplosione alla stazione ferroviaria si presentarono all’obitorio una ragazza presumibilmente italiana e un giovane, descritto come «dai tratti nordafricani o mediorientali».

I due cercarono qualcuno tra i cadaveri delle vittime, li osservarono attentamente uno a uno. Poi, quando giunsero di fronte a uno degli ultimi corpi trasportati lì dalla stazione ebbero un trasalimento. Si agitarono e fuggirono nel panico.

Quella mattina, in servizio presso l’Istituto di medicina legale c’era soltanto un sottufficiale dell’Arma di Carabinieri prossimo alla pensione, quando questi si avvicinò ai due assieme a un medico necropata giunto proprio allora nella sala per comprendere le cause di forte agitazione, i due fuggirono via.

Quale cadavere avevano riconosciuto quei giovani e perché rimasero in tal modo colpiti?

Su un aspetto non si è mai voluto approfondire molto, quello relativo alle quattro persone uccise dall’esplosione, quattro donne. Un aspetto estremamente importante ai fini della ricostruzione dei fatti.

Di una di esse, l’operaia tessile Maria Fresu, tra le macerie vennero rinvenuti pochi resti, un lembo di una guancia, il suo documento dì identità, la valigia e una giacca.

Ella non comparve neppure nell’elenco dei feriti e né in quello delle persone decedute. Scomparve nel nulla, come se fosse stata disintegrata dall’esplosione.

Ma i periti incaricati dal Tribunale ritengono che l’esplosivo dell’ordigno collocato (o trasportato) all’interno della sala d’aspetto della stazione di Bologna non fosse in grado di disintegrare i corpi di due persone. Tanto è vero che della figlia della Fresu, una bimba di tre anni che rispetto alla madre si trovava più vicina al luogo dell’esplosione, il cadavere venne invece rinvenuto e fu possibile riconoscerlo.

Inoltre, la perizia medico legale effettuata dal professor Giuseppe Pappalardo dimostrò che la Fresu, assieme a sua figlia e due sue due amiche, al momento dell’esplosione si trovavano nella parte opposta della sala d’aspetto rispetto a quella dove deflagrò l’ordigno.

Si tratta dell’ipotesi caldeggiata dal giudice Rosario Priore. Egli nel libro sulla strage di Bologna (scritto assieme all’avvocato Valerio Cutonilli) sottolinea che i consulenti hanno accertato che non tutte le vittime sono decedute per gli effetti diretti della detonazione e pone conseguentemente l’ulteriore interrogativo: «Se i cadaveri delle persone che si trovavano nell’area mortale sono rimasti sostanzialmente integri, com’è possibile che a “disintegrarsi” sia stata invece una donna che era nel punto più lontano da quello dell’esplosione?».

La tesi della disintegrazione di un cadavere distante oltre cinque metri dal punto dell’esplosione non starebbe dunque in piedi.

A Maria Fresu venne comunque attribuito un lembo di pelle del viso, un tessuto nel quale fu però rilevato un gruppo sanguigno diverso da quello dell’infermiera sarda. Un’evidente anomalia che si tentò di spiegare facendo ricorso a un fenomeno rarissimo, la secrezione paradossa.

Recentemente il dottor Michele Leoni, Presidente della Corte di Assise di Bologna che attualmente sta processando l’ex Nar Gilberto Cavallini, ha disposto la riesumazione dei resti mortali della Fresu e la successiva effettuazione di una perizia dai cui risultati potrebbero emergere novità dirimenti.

Non è quindi remota la possibilità che la scena del crimine sia stata alterata da qualcuno che al fine di impedire che si risalisse ai reali responsabili della strage. Un depistaggio, il primo e forse il più importante nella difficile opera di ricostruzione della verità.

Nell’ipotesi che si sia trattato di un fatto accidentale, cioè che un ordigno trasportato da terroristi o da agenti di qualche servizio segreto fosse esploso all’interno della sala d’aspetto della stazione ferroviaria per un errore o un incidente, il primo a perdere la vita sarebbe stato colui che lo trasportava.

Dunque, chi avesse avuto interesse a farne sparire il cadavere per evitarne l’identificazione – persone che dovevano trovarsi nei paraggi in quel momento – avrebbe orchestrato suo malgrado la successiva macabra messa in scena mischiandosi tra i primi soccorritori.

A questo punto sorge il sospetto che nella tremenda confusione generatasi in mezzo a quella enorme massa di macerie e brandelli di corpi umani, chi agì per occultare la presenza in quel luogo di colui che aveva materialmente trasportato l’ordigno facendone sparire i resti mortali, abbia però accidentalmente portato via anche parti dei cadaveri di altre persone.

Una ipotesi per nulla peregrina sulla base della quale si comprenderebbero meglio anche i depistaggi a copertura di gruppi od organizzazioni implicate, che qualora rese pubbliche avrebbero messo definitivamente a repentaglio equilibri internazionali in quella fase storica del Paese già vacillanti.

Ma quali potevano essere questi gruppi? Quali le organizzazioni?

La pista mediorientale e il segreto di stato. Una delle prime segnalazioni fatte pervenire alla stampa subito dopo la strage fu quella relativa a due individui di sesso maschile, definiti come «arabi» o «nordafricani», allontanatisi dal piazzale antistante la stazione ferroviaria a bordo di una Fiat Ritmo di colore azzurro poco prima dell’esplosione nella sala di attesa. Un’autovettura della stessa marca, dello stesso tipo e dello stesso colore sarebbe stata poi ritrovata bruciata quel pomeriggio presso Casalmaggiore, vicino a Bologna.

Come potrebbero entrarci in una vicenda come questa dei terroristi mediorientali – e/o anche europei, magari tedeschi – e degli elementi di servizi segreti di Paesi esteri?

Del «lodo Moro» si è trattato ampiamente nell’articolo precedente, in questo sarà indispensabile affrontare l’argomento della sua entrata in crisi e degli effetti che questo sviluppo ha poi generato, poiché il primo e il 2 agosto 1980 capoluogo emiliano erano presenti diversi inquietanti personaggi che con ogni probabilità hanno avuto a che fare con la strage. Sarà però necessario procedere per gradi.

Nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979 a Ortona nel corso di un controllo i carabinieri fermarono un veicolo con tre persone a bordo. Si tratta di tre esponenti di spicco dell’Autonomia operaia romana, Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Luciano Nieri, che vengono trovati in possesso di armi sofisticate, lanciamissili antiaerei spalleggiabili di produzione sovietica.

Con ogni probabilità, il posto di blocco allestito quella notte dalla pattuglia automontata su un veicolo recante i colori d’Istituto non lo aveva fatto per caso, o meglio, da livelli gerarchicamente più elevati era giunta la disposizione di attuare una serie controlli in zona. I servizi segreti e i carabinieri erano al corrente che da quelle parti sarebbero stati sbarcate delle armi.

I tre militanti del Collettivo autonomo Policlinico arrestati non parlano, tuttavia ben presto gli investigatori risalgono egualmente al loro “contatto” palestinese in Italia e lo arrestano.

L’uomo vive a Bologna e si chiama Abu Azeh Saleh. Ufficialmente risulta essere uno studente universitario fuori corso, ma in realtà è un esponente di notevole levatura del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), di cui è l’emissario in Europa, un’attività che svolge per conto di George Habbash, leader dell’organizzazione guerrigliera e terroristica.

Egli è perfettamente noto all’intelligence italiana, anzi, è coperto da almeno una fazione interna ai servizi segreti italiani di allora, quella filoaraba.

infatti, Abu Saleh si relazionava direttamente con il colonnello Stefano Giovannone, capocentro CS (controspionaggio) del Sismi a Beirut, che nel 1978 lo contattò chiedendogli addirittura di interporre i suoi buoni uffici al fine di pervenire alla liberazione di Aldo Moro, allora nelle mani delle Brigate rosse.

Immediatamente il Fplp attraverso i suoi canali richiede il rilascio del proprio esponente arrestato e la restituzione dei due lanciamissili, tuttavia le aspettative nutrite dall’organizzazione terroristica palestinese vengono disattese.

Infatti, Abu Saleh restò in carcere in Italia e i missili pure. Quei missili, oltreché costosissimi, erano però anche estremamente importanti, poiché – sulla base di una ricostruzione dei fatti – sarebbero dovuti servire all’abbattimento dell’aereo di Anwar Sadat durante un suo previsto viaggio in Europa, una missione affidata al Fplp dal direttore del Kgb dell’epoca, Yurij Andropov, che era stata decisa dopo la firma da parte del presidente egiziano degli accordi di pace con Israele nel 1978 Camp David.

Si giunse così al luglio del 1980, quando le udienze del processo all’esponente giordano-palestinese del Fplp subirono un rinvio al successivo mese di ottobre (a suo carico verrà poi emessa una condanna a sette anni di reclusione).

Nel frattempo, agli organi di sicurezza italiani continuarono a pervenire minacce di ritorsione, rilanciate dalla Digos e da parte dei servizi segreti ai loro livelli superiori (di questo vi è ampia traccia nelle risultanze dei lavori della Commissione parlamentare “Mitrokhin”).

Molti anni dopo il terrorista internazionale Carlos (al secolo Ilich Ramirez Sanchez detto lo “Sciacallo”), in stretti rapporti di collaborazione con il Fplp, in un’intervista rilasciata il 23 novembre 2005 dal carcere francese dove si trovava detenuto al quotidiano “Il Corriere della Sera”, affermò che quello bloccato dai Carabinieri a Ortona era «solo un trasporto logistico» e che «gli arresti furono una provocazione degli agenti nemici all’interno dei servizi segreti  italiani».

Si trattò dunque di una palese violazione del lodo Moro da parte italiana, se si vuole anche volutamente spettacolare, i cui sviluppi seguenti, però – almeno sulla base dell’ipotesi formulata dal giudice Priore -, avrebbero portato alle reiterate e incalzanti delle minacce del Fplp, concretizzatesi alla fine nell’attentato alla stazione di Bologna.

Il terrorista internazionale Carlos (al secolo Ilich Ramirez Sanchez detto lo “Sciacallo”), in stretti rapporti di collaborazione con il Fplp, in un’intervista rilasciata il 23 novembre 2005 dal carcere francese dove si trovava detenuto al quotidiano “Il Corriere della Sera”, affermò che quello bloccato dai Carabinieri a Ortona era «solo un trasporto logistico» e che «gli arresti furono una provocazione degli agenti nemici all’interno dei servizi segreti  italiani».

L’entrata in crisi dell’accordo segreto tra l’Italia e i palestinesi andrebbe quindi posto in relazione diretta con la strage del 2 agosto 1980.

I terroristi tedeschi. Su questa medesima ipotesi se ne innestano altre tre: quella dell’attentato del gruppo terroristico facente capo al terrorista internazionale Carlos, che avrebbe agito su mandato del Fplp, quella degli attentati compiuti in Europa sempre da Carlos, ma stavolta per conto del Kgb (se ne è trattato nell’articolo precedente quando è stato ricostruito l’incontro tra Giovanni Senzani e Abu Ayad a Parigi) e, ipotesi residuale, quella dell’esplosione accidentale di un ordigno durante il suo trasporto.

Come accennato in precedenza, il primo e il 2 agosto 1980 a Bologna erano presenti diversi soggetti che potrebbero avere avuto a che fare con la strage alla stazione ferroviaria.

Due in modo particolare: i terroristi di nazionalità tedesco occidentale Christa Margot Frohlich e Thomas Kram, già indagati nel 2011 per la strage.

Vi è certezza che Christa Margot Frohlich, legata al gruppo terroristico di Carlos, tra il primo e il 2 agosto 1980 si trovasse a Bologna. Venne riconosciuta da un dipendente del Jolly Hotel del capoluogo emiliano dove quella notte alloggiò, al quale chiese di chiamarle un tassì dato che avrebbe dovuto trasportare una borsa «contenente materiali pesanti».

Fu grazie al suo arresto da parte della polizia italiana – effettuato nel giugno del 1982 nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino perché trovata in possesso di esplosivo Semtex (di produzione cecoslovacca) e di alcuni detonatori, trasportati in un’unica borsa – che il testimone bolognese fu in grado di collegarla alla strage del 2 agosto.

Infatti, Rodolfo Bulgini, il citato dipendente del Jolly Hotel, una volta riconosciutone il volto dalle foto pubblicate sui giornali si recò immediatamente nella questura della sua città per rendere una spontanea testimonianza sul fatto, dichiarando ai poliziotti cosa era successo due anni prima. La sua prima testimonianza venne resa il giorno 28 giugno 1982.

Tuttavia, né la questura di Bologna né la magistratura felsinea ritennero opportuno approfondire quella pista che gli si apriva, né ne resero edotto il giudice istruttore Rosario Priore, che in questo modo non fu messo nelle condizioni di confrontare l’esplosivo della strage del 2 agosto con quello sequestrato alla Frohlich un anno e mezzo dopo.

Della testimonianza chiave del Bulgini – nel frattempo riconosciuto invalido civile totale e permanente in quanto affetto da patologia di natura psichica (quindi ormai inattendibile come teste) – il giudice Priore ne verrà al corrente soltanto nel 2005, quando verranno resi pubblici i contenuti dell’archivio Mitrokhin.

Thomas Kram, militante del gruppo terroristico di estrema sinistra “Cellule rivoluzionario” ed esperto di esplosivi, anch’egli cittadino tedesco occidentale legato al gruppo di Carlos, soggiornò a Bologna nella notte tra del primo agosto 1980 presso l’Albergo Centrale in via della Zecca, da dove ripartì nella giornata seguente, 2 agosto.

Kram aveva studiato presso l’università di Perugia ed era noto all’Ufficio politico della questura della città umbra. Inoltre, la polizia della Repubblica federale tedesca aveva segnalato alle forze dell’ordine italiane la presenza del terrorista nel Paese già a partire dall’agosto 1977, poi ancora nel novembre 1979 e infine nel maggio 1980. Inoltre, quando, proveniente dalla Svizzera e diretto a Milano, il Kram attraversò il confine a Chiasso, venne subito segnalato dalla Polizia di Frontiera.

Sulla base di alcuni documenti della Stasi (Staatssicherheit, il servizio segreto della DDR) dei quali si troverà in seguito traccia nel «dossier Mitrokhin», emerse che il Kram e la Frohlich erano in rapporti di amicizia e che tre mesi dopo la strage di Bologna si incontrarono con Carlos a Budapest.

Tuttavia, malgrado tutti questi elementi neppure questa pista venne battuta. Nel 2001 l’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro, su richiesta della magistratura tedesca inviò la segnalazione della presenza di Kram a Bologna la notte tra il primo e il 2 agosto 1980.

De Gennaro dispose che l’informativa venisse contestualmente inviata anche alla Procura della Repubblica del capoluogo emiliano, che successivamente si limitò ad archiviarla.

Per altro, una delle particolarità del “caso Kram” e che negli archivi del Sismi a Forte Braschi non si rinvengono notizie riguardo al terrorista tedesco proprio a partire dalla data del 2 agosto 1980.

Infine, alla pista palestinese viene collegato anche un altro oscuro episodio, la scomparsa in Libano dei due giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo, avvenuta nel settembre del 1980.

I due erano partiti alla volta di Damasco, in Siria, il 22 agosto, per poi raggiungere in automobile la capitale libanese due giorni dopo.

Il 1º settembre si recarono negli uffici dell’ambasciata italiana a Beirut, dove misero al corrente un funzionario in servizio presso di essa del fatto che stavano per dirigersi verso una postazione dell’Olp e anche che, se entro tre giorni non avessero fatto ritorno l’ambasciata avrebbe dovuto attivarsi per cercarli. Da quel momento in poi di loro non si ebbero più notizie.

I primi giorni del mese di ottobre il Ministero degli Affari Esteri aprì un fascicolo su quella misteriosa scomparsa, interessando del caso il Sismi nella persona del colonnello Giovannone, che cercò di ascrivere le responsabilità del sequestro alle milizie cristiano-maronite libanesi, questo mentre, al contrario, un dispaccio inoltrato alla Farnesina dall’ambasciatore a Beirut Stefano D’Andrea indicò nei palestinesi di al-Fatah i sequestratori.

Nel gennaio del 1982 l’inchiesta sulla scomparsa ei due giornalisti italiani (sequestro e loro probabile assassinio perpetrato pochi giorni dopo) venne affidata al giudice Armati, che accusò i miliziani del gruppo di Abu Abbas.

Armati chiese anche il rinvio a giudizio del colonnello Giovannone e del generale Santovito per il reato di favoreggiamento, tuttavia il decesso di entrambi pose fine all’inchiesta.

Una lettura degli ultimi sviluppi. Esistono dei documenti mai desecretati che poterono consultare soltanto i parlamentari membri del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica). Essi li lessero ma non furono autorizzati a farne delle copie. Si trattava dei dispacci inviati dal colonnello Stefano Giovannone.

Nelle settimane precedenti il 2 agosto 1980 al capocentro CS a Beirut erano state fatte pervenire diverse informative nelle quali si rendeva noto che il terrorista Carlos aveva ricevuto l’incarico di compiere un attentato in Italia.

A tanti anni di distanza dai fatti quale lettura si può dunque fare di questa nuova fase delle indagini giudiziarie sulla strage, caratterizzate dall’esame dei nuovi elementi venuti alla luce, la probabile staffa di sicurezza dell’interruttore ritrovata nella ex caserma San Felice ai Prati di Caprara e i dubbi ingeneratisi riguardo all’identità attribuita ai resti mortali della donna vittima dell’esplosione?

Perché la Corte d’Assise, che in tanti processi non ha mai dato credito a piste alternative a quella neofascista, adesso fa riesumare una salma per verificarne l’autentica identità tramite un esame del Dna?

Infatti queste due perizie non se le aspettava nessuno e, ovviamente, questi sviluppi animano i residui di speranza riguardo al raggiungimento della verità su fatti avvenuti quasi quarant’anni fa, pur senza eccessive illusioni al riguardo.

Resta in ogni caso un convitato di pietra. Il segreto da mantenere nascosto è il lodo Moro, quella politica “doppiogiochista” che per alcuni anni fu fondamentale alla sicurezza di questo Paese e che, evidentemente, fece comodo anche agli americani, che altrimenti non avrebbero lasciato fare a Moro e a Giovannone.

Però, e qui risiede un gigantesco problema, se questa “verità indicibile” venisse suffragata da prove e confermata da una sentenza giudiziaria per lo Stato italiano sarebbero grossi guai.

Già, perché i problemi che ne deriverebbero non sarebbero soltanto di natura politica, ma anche finanziaria, questo per via dei risarcimenti da versare alle vittime degli attentati terroristici e ai parenti di esse.

È possibile ascoltare di seguito l’audio dell’intervista con Valerio Cutonilli

A172 – MISTERI ITALIANI, 39 ANNI FA LA STRAGE DI BOLOGNA: NUOVE PERIZIE E IPOTESI MAI ESPLORATE, a insidertrend.it parla l’avvocato VALERIO CUTONILLI, autore assieme al giudice Rosario Priore del libro “I segreti di Bologna, la verità sull’atto terroristico più grave della storia italiana”.

Le perizie disposte dai giudici di Bologna nell’ultimo processo sulla strage del 2 agosto 1980 – attualmente in corso e che vede imputato il neofascista Gilberto Cavallini – potrebbero portare a risultati in grado di mettere totalmente in discussione le “verità giudiziarie” finora accettate con molti dubbi. Le piste palestinesi (Fplp) e libica verrebbero quindi riconsiderate. Nell’intervista con l’avvocato Cutonilli vengono accuratamente esaminate le incongruenze, le omissioni e i possibili depistaggi di una vicenda che vede protagonisti molti soggetti.

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