TERRORISMO, misteri italiani (4). Strage di Bologna. L’ombra di Gheddafi sulla bomba alla stazione e su quella del volo Itavia a Ustica

Il «doppio avvertimento» fatto pervenire da Tripoli: l’Italia non doveva andare troppo avanti con i maltesi. La testimonianza diretta di Giuseppe Zamberletti, che la mattina del 2 agosto 1980 si trovava a La Valletta per firmare un accordo con Dom Mintoff. Il commento del prefetto Vincenzo Parisi fu: «Quando un segnale non viene percepito poi viene ripetuto»

Esiste un’ulteriore ipotesi sulla strage di Bologna, quella che condurrebbe a Tripoli, ascrivendo così la paternità dell’attentato al colonnello Muhammar Gheddafi e a coloro i quali su suo mandato collocarono l’ordigno esplosivo all’interno della sala d’aspetto della stazione ferroviaria.

Attraverso quella strage Tripoli avrebbe inviato un preciso segnale al Governo italiano allora presieduto da Francesco Cossiga. Ma si sarebbe trattato di un secondo segnale, il primo era stato l’abbattimento dell’aereo dell’Itavia nei cieli di Ustica.

In quella fase storica l’Italia aveva un rapporto privilegiato con Malta e la stava gradualmente sottraendo all’asfissiante influenza libica. Era in via di perfezionamento un accordo bilaterale tra Roma e La Valletta che avrebbe sancito la sostanziale neutralità dell’isola mediterranea.

Correlati agli aspetti di natura strategica erano in gioco anche enormi interessi economici, a cominciare dai giacimenti di materie prime energetiche sulla piattaforma continentale sui quali era in atto una controversia tra maltesi e libici e dove l’Eni aveva già avviato dei lavori di estrazione.

Sulla base di questa ipotesi Gheddafi avrebbe dunque fatto di tutto (e la storia insegna che ne era capace) per bloccare quell’accordo politico-militare già scritto con il premier maltese Dom Mintoff.

1980, il contesto. Al pari delle altre ipotesi esplorate negli articoli di questo speciale di insidertrend.it sulla strage di Bologna, anche nel caso della «bomba libica» sarà necessario iniziare con una breve analisi del contesto nel quale si sarebbero svolti i fatti.

Il periodo è ormai noto, alla fine degli anni Settanta l’Italia si trovò nell’epicentro della transizione che in poco tempo avrebbe mutato la situazione politica internazionale, con particolare riferimento a quello che allora veniva definito il «Mediterraneo allargato» e che oggi viene chiamato «area MENA» (Middle East and North Africa).

Per tutti gli anni settanta c’era stata una forte intesa fra Roma e Tripoli, i libici ebbero accesso al capitale azionario della Fiat, vennero stipulati una serie di importanti scordi in campo commerciale e, aspetto non secondario, le imprese italiane del settore della difesa rifornirono Gheddafi di sistemi d’arma. Una pratica, quest’ultima, che cessò nel 1980 per volere del ministro della difesa socialista Lelio Lagorio, lo stesso che si impegnò affinché l’Italia concedesse la base per lo schieramento degli euromissili.

Proprio nell’area del Mediterraneo era in atto un radicale mutamento degli equilibri preesistenti. il rinnovato incremento degli interessi Usa per la regione, anche a seguito della Rivoluzione islamica di Khomeini in Iran, unitamente alle richieste europee avevano portato a una maggiore presenza attiva degli americani.

La Jamahiriyya libica non aveva mai avuto relazioni eccessivamente amichevoli con l’Occidente (a esclusione dell’ambiguo rapporto instaurato con l’Italia): Tripoli era praticamente in guerra con Israele, si trovava in pessimi rapporti con la Francia presieduta da Giscard d’Estaing, con la quale si scontrava per il controllo del Ciad, questo mentre Parigi forniva sostegno e armi all’Iraq di Saddam (che era in guerra con l’Iran, alleato dei libici), che a sua volta addestrava gli oppositori di Gheddafi nei suoi campi paramilitari e coadiuvava i servizi segreti francesi nei loro tentativi di assassinare il “colonnello” al potere in Libia.

Saddam aveva appena aggredito militarmente la neonata Repubblica islamica iraniana, scatenando un conflitto che sarebbe durato otto anni e che avrebbe provocato un milione di morti. Con l’Iraq gli italiani avevano appena firmato un contratto per la fornitura di naviglio militare, quattro fregate e due pattugliatori.

Nello scacchiere mediorientale Baghdad si trovava nel campo avverso a quello di Tripoli, era al fianco di Teheran e Damasco, fu così che i libici finanziarono gli acquisti di velivoli da combattimento siriani, che  loro volta (insieme a numerosi altri attori, su scala si regionale che mondiale) si contendevano le influenze sul mondo arabo con il regime “fratello” (entrambi erano baathisti) appoggiando le diverse e contrapposte fazioni libanesi impegnate nella sanguinosa guerra civile in atto da cinque anni nel Paese dei cedri.

Nella primavera del 1980 si registrò un incremento della tensione anche con l’Egitto, paese col quale la Libia aveva combattuto un breve ma intenso conflitto l’estate di tre anni prima, il Cairo e Tripoli giunsero ad ammassare le truppe lungo la linea di frontiera.

Gheddafi interferì anche nella politica interna della Tunisia, organizzando un attentato ai danni del presidente Bourghiba.

E poi gli americani. Nei mesi immediatamente precedenti le stragi di Ustica e Bologna a Tripoli la folla istigata dal regime assaltò le ambasciate di Usa, Francia e Regno Unito.

Senza dimenticare la questione dei missili di teatro, quegli euromissili sui quali in Europa in quel momento lo scontro si era fatto incandescente, ma che spaventavano anche Gheddafi.

Le rampe di missili americani armati con testate nucleari erano in via di installazione nella base militare siciliana di Comiso, puntati sì contro i Paesi del Patto di Varsavia, tuttavia anche terribilmente vicini alla sponda meridionale del Mediterraneo.

Una serie di dinamiche concomitanti davvero frenetica.

Perché Malta? La neutralità politico-militare di Malta rivestiva una importanza fondamentale ai fini della sicurezza italiana nel Mediterraneo, in particolare dei territori meridionali del Paese.

Malta, infatti, insieme a Pantelleria, Lampedusa, Lampione e Linosa costituiva il sistema insulare di sbarramento e prevenzione nel Mediterraneo centrale.

L’apertura di un varco in esso, determinata magari della forte influenza di un paese antagonista su Malta, avrebbe potuto comportare l’apertura di una pericolosa breccia nelle difese, esponendo così la Sicilia – allora oggetto delle particolari attenzioni di Gheddafi – alle minacce da sud.

Il sistema difensivo insulare siculo-pelagico non poteva quindi non comprendere anche Malta, o quantomeno la sua copertura.

Nella loro storia i governi che si sono avvicendati al potere a La Valletta, siano stati essi nazionalisti che laburisti, hanno spesso assunto un atteggiamento oscillatorio, determinato dalle pressioni che venivano esercitate dall’estero (in primo luogo dalla Jamahiriyya libica) al fine di influenzare profondamente le scelte dei decisori politici.

In questo senso, dalla fine degli anni Settanta Gheddafi era in grado di permettersi ingerenze simili, poiché disponeva di uno dei maggiori strumenti aeronavali e anfibi del bacino del Mediterraneo.

Uno strumento concepito per la proiezione di potenza che, con ogni probabilità, Gheddafi non sarebbe stato comunque capace di utilizzare proficuamente. Fatto sta, però, che le stesse caratteristiche della componente anfibia della sua marina militare la rendevano assimilabile più a una formazione d’assalto che a uno strumento da impiegare in supporto alle forze terrestri nel corso di operazioni di avvolgimento di un eventuale nemico dal fianco marino.

Una forza quindi certamente più adatta a un attacco al sistema insulare del Mediterraneo centro-meridionale, che tra i potenziali obiettivi avrebbe ovviamente incluso Malta. Tenuto anche conto che fino alla metà degli anni Ottanta, cioè prima dell’attacco americano nel Golfo della Sirte, si riteneva che lo strumento aeronavale libico avesse la capacità di effettuare operazioni di assalto anfibio, simultaneamente, contrastare i movimenti navali di altre flotte nel Mediterraneo centrale.

Già nel 1973 aerei militari libici avevano attaccato la corvetta De Cristofaro della Marina militare italiana mentre questa navigava nelle acque del Canale di Sicilia. Tripoli si rese inoltre responsabile di numerose azioni ai danni di pescherecci italiani, ostacolando sempre le attività di prospezione petrolifera poste in essere da società italiane nelle acque territoriali maltesi.

L’accordo bilaterale. Nel 1980 in Italia Aldo Moro era stato assassinato due anni prima, il Partito comunista era uscito dall’accordo di “solidarietà” nazionale con la Democrazia cristiana e a presiedere il nuovo esecutivo c’era l’atlantista Francesco Cossiga, una compagine governativa che invertì la tendenza della politica estera della Repubblica, con decisi spunti di “attivismo”.

Come quello che portò all’accordo con Malta, un trattato bilaterale sulla base del quale La Valletta avrebbe dichiarato la propria neutralità, interdicendo conseguentemente la presenza di forze militari di altri paesi sul suo territorio e nelle sue acque, nonché alle navi militari (anche delle superpotenze) nei suoi cantieri navali.

L’Italia avrebbe garantito la sua sicurezza sul piano militare e anche il sostegno economico del Paese.

Secondo la testimonianza raccolta da Giuseppe Zamberletti, all’epoca Sottosegretario agli Affari Esteri nel governo Cossiga, «la bomba sull’aereo dell’Itavia esploso nel cielo di Ustica sarebbe stata collocata da agenti libici nel quadro delle operazioni di contrasto alla politica estera italiana nel Mediterraneo».

Egli riferendosi alla vicenda di Ustica parlò dunque espressamente di una «bomba», al pari di quella esplosa nella stazione di Bologna circa un mese dopo.

La mattina del 2 agosto 1980 Zamberletti si trovava a La Valletta per siglare l’accordo bilaterale con il premier maltese Dom Mintoff.

Riferisce ancora Zamberletti: «Quell’accordo avrebbe garantito economicamente e militarmente la neutralità di Malta, paese in quel periodo fortemente condizionato da Gheddafi. La fine della “tutela” libica su Malta – nei fatti l’allontanamento degli agenti di Gheddafi dall’isola – provocò un innalzamento del livello della tensione tra Roma e Tripoli».

Più o meno contestualmente, si andavano inoltre verificando altri avvenimenti di importanza cruciale.

Dom Mintoff ebbe un duro scontro con Gheddafi a causa del petrolio presente nei fondali marini maltesi. La Saipem aveva già iniziato le prospezioni mediante una piattaforma off shore quando Tripoli inviò le sue motovedette a cacciò via con la forza i tecnici italiani.

Tuttavia, la bozza dell’accordo italo-maltese, seppure non ancora completamente ratificata, prevedeva l’intervento militare italiano in soccorso de La Valletta, conseguentemente, il governo Cossiga fece decollare i caccia F-104 Starfighter dalla base di Trapani Birgi e li inviò a sorvolare a bassa quota il territorio maltese, mentre nelle stesse ore dai porti italiani salparono alla volta dell’isola alcune unità della Marina militare.

Infine, ad ammorbidire l’aggressivo atteggiamento libico contribuirono anche alcune azioni portate a compimento sull’isola di Malta e nelle sue acque circostanti. Come i due attentati dinamitardi che distrussero una stazione radio libica e un giornale in lingua inglese finanziato da Tripoli, azioni attribuite ufficiosamente a squadre miste dei servizi segreti francese e britannico.

I «segnali» di Gheddafi e la ragion di Stato. Il timing dell’accordo bilaterale italo-maltese prevedeva il raggiungimento formale di una intesa preliminare il giorno 2 agosto e la stipulazione vera e propria il 15 settembre, rinviando la ratifica da parte del Parlamento all’anno seguente.

Dunque, fino al completamento del processo di ratifica quell’accordo permaneva reversibile e questo nei libici ingenerò la convinzione che, attraverso adeguate pressioni di varia natura, quel processo di perfezionamento si sarebbe potuto anche interrompere.

E siamo quindi all’invio dei famigerati «segnali» che per mesi erano stati fatti pervenire alla Farnesina attraverso missioni diplomatiche appositamente inviate a Roma da Tripoli, da una telefonata di Giulio Andreotti e dai servizi segreti, a quel tempo diretti da Santovito e Grassini e permeati fino ai livelli apicali da elementi affiliati alla loggia massonica P2 di Licio Gelli.

Tuti questi segnali erano preordinati alla messa in guardia del governo italiano riguardo a un’ulteriore strappo nelle relazioni bilaterali.

Nel 1980 il prefetto Vincenzo Parisi era il responsabile dell’Ufficio stranieri, un periodo caratterizzato anche in Italia dalle azioni dei killer inviti da Gheddafi a eliminare i suoi oppositori all’estero, anche (e soprattutto) quelli militarmente attivi in territorio libico. In seguito avrebbe ricoperto la carica di capo della Polizia e di direttore del Sisde.

Nel 1993, nel corso di un incontro con Zamberletti confidò i suoi sospetti a quest’ultimo, riferendosi alla Libia come possibile unico mandante politico delle stragi di Ustica e di Bologna.

«Ma se questa è stata la vendetta per Malta, perché non dare segnali prima? Perché solo ora?»

Era stato dunque quello (Ustica) il primo segnale? Proseguì poi Parisi affermando che «quando un segnale non viene percepito, poi viene ripetuto».

Negli anni a venire, riferì quindi ripetutamente alla Commissione parlamentare terrorismo e stragi di questa strana coincidenza di quei due eventi, ipotizzandone lo stretto collegamento in funzione degli «avvertimenti» libici inviati al governo Cossiga.

Secondo Zamberletti la polemica che dopo Ustica investì l’Aeronautica militare avrebbe «distratto dalla reale causa della tragedia».

Ma su Ustica e Bologna la pista libica non venne però seguita. Le “ragioni” alla base di questa ennesima omissione è sempre Giuseppe Zamberletti a spiegarle in un’intervista concessa al quotidiano “Il Giornale d’Italia” il 4 settembre 2003.

«Probabilmente si trattò di un depistaggio a fin di bene, suggerito dalla ragion di Stato. In tal modo non vennero messi definitivamente a repentaglio i rapporti con la Libia.

L’azione dei nostri servizi segreti, al cui interno era presente un’influente corrente filo-araba, contribuì ad allontanare da Tripoli il sospetto di una responsabilità in ordine all’attentato.

Emerse dunque la tesi del missile, che soverchiò le prime ipotesi sul cedimento strutturale del DC-9 dell’Itavia. Infatti, l’esplosione interna avrebbe acuito drammaticamente il contenzioso con la Libia, paese con il quale Roma desiderava invece riallacciare i rapporti.

Il missile celò dunque lo spettro del coinvolgimento di Gheddafi, ma un serio approfondimento sull’ipotesi “bomba” potrebbe ricondurre anche alla strage di Bologna».

Secondo Zamberletti e Parisi i fatti verificatisi nell’estate del 1980 sarebbero dunque strettamente correlati: da un lato la minaccia libica lanciata all’Italia il 27 giugno attraverso l’abbattimento del DC-9 a Ustica, dall’altro la successiva vendetta consumata con la strage di Bologna.

«In entrambi i casi – concluse Zamberletti – un ordigno esplosivo. Però, questo costringerebbe a una riapertura del processo per la strage alla stazione, ma fino a oggi tutto è stato lasciato cadere nel dimenticatoio.»

In conclusione, qualora venisse davvero acclarata, l’ipotesi che lega le due stragi alla fase di elevata tensione nella regione mediterranea allontanerebbe dunque dalle letture tradizionali del terrorismo neofascista strumento per la tessitura di trame tutte interne al Paese.

Le sentenze giudiziarie hanno portato alla condanna definitiva degli esecutori materiali della strage compiuta il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna.

Per le corti di Giustizia sono stati i neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari, ma questi ultimi continuano a negare con decisione questa loro grave colpa.

Dei mandanti della strage invece non si sa praticamente nulla. A questo punto, se alla base della strage risiedessero davvero gli avvertimenti di Gheddafi allo Stato italiano, l’impianto accusatorio dei magistrati bolognesi non si terrebbe più insieme ed emergerebbe che – come nell’ipotesi della pista palestinese – i neofascisti in tutti questi anni hanno funto da perfetti capri espiatori coprendo qualcosa di molto più grande di loro.

È possibile ascoltare di seguito l’audio dell’intervista con Valerio Cutonilli

A172 – MISTERI ITALIANI, 39 ANNI FA LA STRAGE DI BOLOGNA: NUOVE PERIZIE E IPOTESI MAI ESPLORATE, a insidertrend.it parla l’avvocato VALERIO CUTONILLI, autore assieme al giudice Rosario Priore del libro “I segreti di Bologna, la verità sull’atto terroristico più grave della storia italiana”.

Le perizie disposte dai giudici di Bologna nell’ultimo processo sulla strage del 2 agosto 1980 – attualmente in corso e che vede imputato il neofascista Gilberto Cavallini – potrebbero portare a risultati in grado di mettere totalmente in discussione le “verità giudiziarie” finora accettate con molti dubbi. Le piste palestinesi (Fplp) e libica verrebbero quindi riconsiderate. Nell’intervista con l’avvocato Cutonilli vengono accuratamente esaminate le incongruenze, le omissioni e i possibili depistaggi di una vicenda che vede protagonisti molti soggetti.

Condividi: