Coloro i quali hanno assolto i loro obblighi di leva durante il periodo della Guerra fredda – ma anche quelli che invece lo fecero negli anni Trenta e Quaranta – ricorderanno bene cosa potesse rappresentare l’arco alpino in termini di difesa militare, dapprima nei confronti di quasi tutti i Paesi che confinavano con il Regno d’Italia, in seguito, a partir dall’immediato secondo dopoguerra, in funzione di quel ristretto segmento di territorio che, nei piani strategici del potenziale avversario della NATO, costituiva la potenziale porta di accesso alla Pianura Padana e, quindi, al triangolo industriale italiano e anche al resto della penisola.
Una serie di possenti fortificazioni in buona parte ereditate dal passato e in seguito presidiate da unità di Alpini e di Fanteria d’arresto, si snodavano dalla Liguria fino praticamente all’altopiano sovrastate Trieste.
Nell’immaginario collettivo le montagne e la frontiera erano un tutt’uno che si stagliava dalla pianura densamente militarizzata, celando sull’altro loro versante – segnato da spesso controversi limes coincidenti con «linee delle acque» – lo straniero, che quando non era nemico era comunque diverso.
Tuttavia, la storia insegna che non vi furono soltanto valli illusoriamente invalicabili come quello “Littorio” o la tanto massiccia quanto effimera Linea Maginot tra Francia e Germania, bensì opere di minori dimensioni e concezione ingegneristica, ma non per questo meno importanti, almeno per chi le realizzò.
È il caso delle cosiddette «chiuse» sui fiumi che scendevano dalle Alpi verso la pianura, in particolare di quei corsi d’acqua che erano affiancati da tratti di strade di collegamento tra la penisola e il nord germanico.
Ebbene, il merito dell’ingegner Ugo Spezia – già dirigente industriale, giornalista, saggista scientifico e, soprattutto, appassionato della materia – è proprio quello di lasciare una testimonianza, che al medesimo tempo è uno stimolo all’approfondimento, su due di queste opere minori, le chiuse di Quero e Feltre, attraverso la pubblicazione di un interessante e documentato volume di sessanta pagine che ne ripercorre dettagliatamente la storia.
La sua famiglia ha origini in quei luoghi, dunque alla capacità del ricercatore e del divulgatore si è aggiunto anche l’amore per quella terra, il Veneto.
La descrizione, corredata da un congruo e apporto di materiale iconografico, inizia dall’epoca romana repubblicana per giungere fino agli anni del Primo conflitto mondiale, questo malgrado non vi sia praticamente esplicita menzione di esse nei documenti di allora giunti fino a noi.
Infatti, sulla loro esistenza ai tempi di Roma antica oggi si dispone esclusivamente di labili indizi, anche le fonti storiche del tempo trattano soltanto episodicamente delle chiuse alpine erette a difesa dei confini della penisola.
Le chiuse alpine, affatto installazioni isolate, costituivano un vero e proprio sistema organizzato che, a differenza ad esempio del Vallo di Adriano in Britannia, non si sviluppavano su una linea difensiva fortificata continua, bensì su una serie di sbarramenti lungo le valli alpine che sfruttavano al meglio le barriere e gli ostacoli naturali, come pendii e dirupi montani, al fine di bloccare le vie di accesso alla Gallia Cisalpina.
Nella sua opera di scorrevole lettura, Spezia attraversa l’intera esistenza di quegli antichi sbarramenti, associandovi lungo la precisa cronologia quelli che furono i mutamenti più o meno radicali delle funzioni da essi svolte, che furono il portato dei progressi nelle tecniche dell’arte della guerra e nelle tecnologie degli armamenti e, ovviamente, degli sconvolgimenti nella mappa dei dominî nel corso dei secoli.
Come quando dopo l’VIII secolo l’utilizzazione delle chiuse in funzione militare divenne episodica a fronte della conquista da parte dei Franchi di estesi territori in Europa, un cambiamento radicale dovuto al nuovo assetto territoriale che non giustificò più il loro utilizzo come presidio difensivo, residuando quello di esazione dei pedaggi.
Ma, nel volume di queste solo apparentemente secondarie opere difensive, non fornisce solamente una descrizione storico-tecnica, poiché è denso di storia veneta e abbraccia l’intero periodo tra il X e il XV secolo.
Intorno all’anno Mille il territorio di Quero apparteneva al vescovo-conte di Treviso e confinava con quello dell’altro vescovo-conte, di Feltre. A guardia del confine tra le due contee vescovili, su entrambi i lati, vi erano appunto i citati sistemi fortificati, la Chiusa di Quero presidiata dai Trevisani e quella di san Vittore dai Feltrini.
La prima era la più antica delle bastie poste a guardia dell’accesso del Canal del Piave, eretta nel punto in cui era possibile controllare meglio il transito sulla strada che collegava Treviso a Feltre. La Chiusa di San Vittore, che sorgeva ad Anzù, alle porte di Feltre, si articolava invece su tre diverse fortificazioni.
Ripercorsi, sinteticamente ma in modo esauriente, secoli di vita e di conflitti su quel fazzoletto di terra: dalla guerra tra Belluno e Treviso alle mire su di esse di Cangrande della Scala, signore di Verona; dalla calata dei duchi d’Austria alle manovre della Serenissima, che alla fine si sarebbe affermata sulle altre signorie venete.
Di volta in volta le Chiuse di Quero e Feltre verranno interessate da queste drammatiche dinamiche, o in quanto teatro di aspri combattimenti, oppure palcoscenico di tradimenti e successive crudeli vendette, ovvero ancora perché punto di passaggio di possenti eserciti calati dal Nord.
Di particolare interesse – soprattutto per gli appassionati di armi da fuoco – la descrizione dell’impiego sulla terraferma di una bombarda tratta da una galera da battaglia, fatta nel capitolo relativo ai combattimenti tra la Serenissima e l’esercito del duca d’Austria Leopoldo III, indotto rapidamente alla resa dallo scompiglio nel cui piombò il suo dispositivo militare a causa del terrore ingenerato nei soldati dai colpi tirati dagli artiglieri veneti.
Sarà proprio la graduale capillare diffusione delle armi da fuoco a segnare il declino delle fortificazioni medievali- Quelle di Quero e Feltre non sfuggirono a questo destino, che venne segnato anche dall’espansione territoriale della Repubblica di Venezia sulla terraferma, condannando presidi difensivi come quelli edificati sul Canal del Piave allo svolgimento di funzioni superstiti daziarie e di controllo del transito delle merci.
Oggi di quelle opere restano soltanto poche tracce, anche perché i materiali con le quali vennero realizzate, divenuti nel tempo lapidei e macerie, sono stati riutilizzati dalla popolazione locale nel corso dei secoli. A cancellarne ulteriormente il ricordo furono anche i devastanti combattimenti che ebbero luogo nel Feltrino durante la Prima guerra mondiale, allorché le labili tracce delle antiche opere vennero stravolte dalle trincee scavate dalla fanteria, dai camminamenti, dagli osservatori militari nonché dai crateri provocati dalle esplosioni delle granate tirate da obici e cannoni.
Ugo Spezia,
Le Chiuse di Quero e Feltre: note storiche sulle fortificazioni del “canal del Piave”,
Collana Storia XXI secolo, ©2019 XXI secolo s.r.l., Milano,
pp.66, prezzo euro 10,00