La società statunitense Chesapeake era un simbolo di successo, poiché nel tempo aveva assunto le fattezze del major player nel settore delle materie prime energetiche ricorrendo alla controversa tecnica di estrazione degli idrocarburi del fracking, che comporta una trivellazione seriale di rocce.
Fondata nel 1989, negli ultimi tempi era divenuta la seconda produttrice di gas naturale degli Stati Uniti d’America, tuttavia questo non le ha risparmiato il suo inesorabile destino, il fallimento.
Tutto si è consumato in pochi mesi in questo annus horribilis per l’economia e, in modo particolare, per il petrolio.
I mercati l’hanno annichilita, gli effetti improvvisi della pandemia di coronavirus le hanno poi dato il colpo di grazia. Infatti, il prezzo al barile del greggio è sceso addirittura sotto la quota della parità, rendendo sconveniente anche soltanto concepire investimenti nel settore delle prospezioni e della produzione di petrolio e gas.
Mercati fermi quindi, e con la domanda mondiale sottozero le esposizioni debitorie di compagnie di queste dimensioni (e di quelle ancora più piccole) sono divenute sempre più insostenibili, di come i costi di esercizio, in particolar modo per il settore shale oil e shale gas – per non parlare delle trivellazioni off shore -, i cui costi di messa in produzione erano divenuti superiori ai prezzi di mercato del prodotto.
Chesapeake: una morte annunciata. Nello specifico caso della Chesapeake a contribuire al dissesto, oltre ai debiti miliardari contratti per l’esercizio, hanno rilevato anche le responsabilità di una parte dei vertici societari – il fondatore, Aubrey McClendon, nel 2013 è stato estromesso dalle cariche e tre anni dopo è stato accusato di aver malversato nelle gare d’appalto per favorire una sua nuova impresa – e un piano industriale fallace, che puntando sulla dispendiosa espansione nel settore petrolifero ( al tempo le quotazioni del gas erano basse) ha condotto al dissesto la società.
Infine è arrivato il coronavirus con le ormai note conseguenze, tuttavia, già prima che i mercati internazionali collassassero, si registrava già una situazione di eccesso di offerta e di ingigantimento degli stock, questo a fronte di una domanda sui mercati mondiali già in declino.
Infatti, era accaduto che chi aveva prodotto idrocarburi non è stato più in grado di collocarli e i prezzi sono crollati. Nel mese di dicembre del 2019 la produzione di greggio era pari a tredici milioni di barili al giorno, una quota impossibile da assorbire da parte dei mercati.
Nei mesi immediatamente successivi le scorte accumulate erano divenute addirittura ingestibili poiché era materialmente impossibile stoccarle e, in aprile, il prezzo del Wti (Western Texas Intermediate) era andato addirittura in negativo.
Il mercato era inondato di greggio, ma la domanda mondiale era crollata e, contestualmente, avevano iniziato a incidere anche gli effetti delle incertezze sulla ripartenza dell’economia (la cosiddetta attesa «fase due») e quelli delle speculazioni finanziarie sui futures.
Speculazione finanziaria. I futures sono contratti che prevedono la consegna “fisica” del petrolio alla loro scadenza, ma può essere sufficiente portare una operazione in denaro per chiudere l’operazione.
Va tenuto presente che, con riferimento alla crisi che è divenuta acuta in concomitanza con il diffondersi dei contagi da Covid-19, i contratti in scadenza il 21 marzo 2020 hanno visto i contraenti direttamente interessati, per uscire da quel contratto divenuto non più conveniente, trovarsi nella necessità di uscirne fuori o attraverso la vendita di essi e al stipulazione di nuovi, oppure di prendere in consegna il petrolio oggetto del contratto.
Ma, nel primo caso, l’operazione sarebbe stata eccessivamente onerosa, poiché in quello specifico momento, dati i flussi dei mercati, nessuno sarebbe stato disposto a subentrarvi.
Però, a quel punto, anche l’alternativa era divenuta difficilmente percorribile, in quanto che i mercati rifiutavano il petrolio (che di risulta era divenuto invendibile) e i depositi ormai pieni ne impedivano anche lo stoccaggio, a cominciare dai serbatoi dell’Oklahoma, tradizionale punto di consegna negli Usa del Wti alla scadenza dei contratti futures, che erano quasi pieni.
C’è chi afferma che, ormai, «il sistema è precipitato nelle mani dei trader», una dinamica che porta continuamente a distorsioni del mercato con effetti più o meno disastrosi. Tutto è short time, con contratti futures a trenta giorni, un gioco in Borsa che spesso porta alle conseguenze della scorsa primavera.
Già, poiché operazioni speculative del genere dovrebbero costituire soltanto una minima parte del totale delle transazioni, invece oggi ne costituiscono la quasi totalità, facendo così divenire le dinamiche incontrollabili, al punto che alla fine anche le maggiori corporation ne vengono seriamente danneggiate.
È successo che, stante gli evidenti squilibri dei mercati, i trader hanno comunque continuato ad acquistare petrolio, al cui produzione era chiaramente in eccesso, nell’auspicio che i prezzi delle materie prime energetiche, in quel momento in continuo ribasso, nel breve termine – si ricordi che i contratti futures avevano scadenza a un mese – si sarebbero ripresi. Ma questo non si è verificato.
Un perverso combinato composto. Nel frattempo, in previsione di una riduzione della produzione, i produttori dell’Arabia Saudita avevano immesso sui mercati la maggiore quantità possibile di greggio prima della data di scadenza dei termini precedentemente fissati in sede Opec Plus, fissata per il giorno 1 maggio, dopodiché avrebbero dovuto ridurre la propria produzione.
Sulla base di un lucido piano, a Riyadh vennero noleggiate con molto anticipo numerose superpetroliere, che si affiancarono ai tanker ormeggiati presso le coste degli Usa, recapitando inoltre altro greggio nella propria raffineria in America e in altri siti di stoccaggio di cui avevano la disposizione.
In effetti, prima ancora che in sede Opec Plus, i tagli erano stati decisi il 10 aprile su pressione di Trump, a fronte di un eccesso di produzione, della riduzione degli investimenti nel settore e del glut concomitante con il rallentamento dell’economia mondiale, con le raffinerie che rallentavano o, addirittura sospendevano, le produzioni.
Dal canto loro, le compagnie del settore shale oil non fermarono le attività estrattive, dato che erano fortemente indebitate – proprio come la Chesapeake – e rischiavano il temuto «Chapter 11», cioè la dichiarazione di fallimento.
Fine di un falso mito? Si trattava di un settore, quello dello shale, che non avrebbe potuto realizzare flussi di cassa positivi neppure con un prezzo al barile relativamente alto, infatti esso registra (e tuttora vede) al suo interno la presenza di un numero di imprese (la maggior parte, soprattutto quelle piccole e medie) fortemente indebitate, «junk» (spazzatura) per la maggior parte delle agenzie di rating, che se in precedenza erano prossime all’insolvenza, con il colpo di grazia della crisi sono giunte al redde rationem.
Un settore da alcuni ritenuto «cronicamente in perdita», seppure esprima anche operatori caratterizzati da maggiore solidità, ma che si fonda su un modello di produzione che presuppone “denaro facile” (frutto dell’emissione di moneta da parte delle banche centrali e prolungati tassi di interesse sotto zero) e richiede grandi innovazioni che consentano la minimizzazione dei costi ottimizzandoli, però difficilmente in grado di rendere solidi i bilanci delle società. E tutto questo senza parlare delle conseguenze ambientali del fracking.
Con la chiusura dei mercati dei capitali queste società non sono dunque più riuscite a finanziarsi, mentre un minimo aumento dei tassi di interesse renderebbe il loro gravame debitorio, accumulatosi nel tempo, insostenibile, con i rischi dell’innesco di un effetto domino.
E qui si torna alla Chesapeake, che dopo essersi dimostrata insolvente al momento di saldare i previsti 13,5 milioni di dollari di interessi all’inizio del mese di giugno, dopo i trenta giorni concessi in questi casi dalla legge statunitense per cercare di provvedere, la società “modello” ha dovuto dichiarare il fallimento.
Il resto è cronaca: a seguito dell’invocazione del «Chapter 11» ha quindi stipulato un accordo con i creditori – tra i quali figurano Franklin Resources e Fidelity – che condurrà a una ristrutturazione di sette degli oltre nove miliardi di dollari di debito.