SICUREZZA, terrorismo internazionale. Negoziati e concessioni

L’analisi della materia fatta da un esperto di sicurezza. Dai 55 giorni del sequestro Moro attraverso il caso del caporale israeliano Gilad Shalit fino a quello delle cooperanti Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, l’ampia casistica e i diversi approcci alle particolari delicate situazioni

di Vittorfranco Pisano (*), pubblicato su Affari Esteri nr.186, Autunno 2018 – L’anno in corso coincide con il quarantesimo anniversario del sequestro ed uccisione di Aldo Moro, influente uomo politico democristiano all’epoca presidente del consiglio nazionale del suo partito, per mano delle Brigate Rosse. Il tragico episodio, protrattosi per 55 giorni dal 16 marzo al 9 maggio 1978, è stato accompagnato da molteplici tentativi, tanto a livello interno quanto a livello internazionale, per ottenere la liberazione dell’ostaggio.([1])

Nel tentativo di uscirne incolume, lo stesso Moro, in una lettera dalla “prigione del popolo” indirizzata a Flaminio Piccoli, allora capo gruppo democristiano alla Camera dei Deputati, ricordava che «non una, ma più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente».([2])

Praticamente, il sequestrato chiedeva che nel drammatico “stato di necessità” in cui la sua persona versava – pur se in un contesto di terrorismo interno piuttosto che internazionale – il Governo italiano ricorresse a determinate procedure in precedenza espletate a livello internazionale. Tali procedure consistevano in negoziati e concessioni riconducibili al “lodo” di cui a tutt’oggi  viene attribuita a Moro la paternità.

Il cosiddetto «lodo Moro», nonostante ne facciano menzione plurime fonti mediatiche e saggistiche, non trova riscontro in documenti sottoscritti dalle parti. La sostanza dei contenuti è stata così sintetizzata: «Ma il lodo Moro cos’è? Possiamo dire un patto che sarebbe servito a lasciare libertà di passaggio ai palestinesi sul territorio nazionale, ricevendo in cambio l’impegno dei palestinesi a non compiere altri attentati in Italia, a non dirottare aerei italiani, a non colpire cittadini italiani all’estero, con l’impegno dell’Italia anche a impedire che i servizi segreti israeliani continuassero a compiere “omicidi mirati” di palestinesi sul nostro territorio».([3])

La medesima fonte afferma che «non vi è una data precisa della stipula. Anche se sicuramente aveva fatto seguito alla strage all’aeroporto di Fiumicino operata dai terroristi di Settembre Nero il 17 dicembre del ’73».([4])

Ciò rientrerebbe nel periodo in cui Aldo Moro era capo dicastero agli Affari Esteri, ossia dal 5 agosto 1969 al 23 novembre 1974.  Egli intratteneva, inoltre, contatti diretti con il colonnello Stefano Giovannone, responsabile del centro di Beirut dei servizi d’intelligence italiani ([5]) e uomo fidatissimo di Moro, del quale condivide pienamente la linea filo-palestinese.([6])

Secondo dichiarazioni attribuite al giudice Carlo Mastelloni, il predetto lodo sarebbe stato stipulato non solo con Yassir Arafaf, capo sia dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP) sia di Fatah (una scheggia della quale era appunto Settembre Nero), ma anche con George Habash, capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) di tendenze marxiste-leniniste e con legami intermittenti col l’OLP.[7] La natura plurilaterale del “lodo” sarebbe stata considerata tale altresì da Francesco Cossiga, allora presidente emerito della Repubblica, il quale nel 2008 lo definì «patto di non belligeranza segreto tra lo Stato italiano e le organizzazioni di resistenza palestinesi, comprese quelle terroristiche quali la FPLP».([8])

Pur ammettendo, salvo eventuali riserve sollevabili su particolari dettagli, che il “lodo Moro” storicamente rientri nelle misure intese – saggiamente o incautamente − a ridurre la minaccia terroristica, negoziati e concessioni non si sarebbero esauriti con il predetto accordo. Infatti, come risulta dalla seguente panoramica esemplificativa, plurimi sarebbero i casi successivi indicati da fonti non ufficiali di svariato orientamento politico.

  • Pagamento di un riscatto per un totale di nove milioni di dollari per la liberazione di Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, operatori di sicurezza privata, sequestrati dalla Falange Verde di Maometto il 13 aprile 2004 in Iraq e rilasciati l’8 giugno dello stesso anno.([9])
  • Pagamento di un riscatto di cinque milioni di dollari per la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti con “Un ponte per”, sequestrate da Ansar El Zawahiri il 7 settembre 2004 a Bagdad e rilasciate il 28 settembre dello stesso anno.([10])
  • Pagamento di un riscatto di sei milioni di dollari per la liberazione di Giuliana Sgrena, giornalista de il manifesto, sequestrata da un’aggregazione radicale islamica il 4 febbraio 2005 in Iraq e rilasciata trenta giorni dopo.([11])
  • Pagamento di un riscatto di duecentomila dollari e rilascio di una detenuta per la liberazione di Clementina Cantoni, cooperante con Care International, vittima di un sequestro anomalo il 16 maggio 2005 a Kabul e rilasciata il 28 settembre dello stesso anno.([12])
  • Pagamento di un riscatto di due milioni di dollari per la liberazione di Gabriele Torsello, fotoreporter, sequestrato da elementi radicali islamici a Lashkar Gah (Afghanistan) da elementi radicali il 12 ottobre 2006 e rilasciato il 3 novembre 2006.([13])
  • Pagamento di un riscatto di tre milioni di euro per la liberazione di Rosella Urru, cooperante con il Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli, sequestrata da elementi ritenuti appartenenti a una costola di al-Qaida nel Maghreb Islamico la notte del 22/23 ottobre 2011 nel campo per profughi saharawi di Hassi Raduni (Algeria) e rilasciata il 18 luglio 2012.([14])
  • Pagamento di un riscatto di dodici milioni di dollari per la liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, partecipi nell’autodefinitosi progetto umanitario Horryaty, sequestrate dal Fronte al Nusra nella notte del 31 luglio/1 agosto 2014 nei pressi di Aleppo e rilasciate 15 gennaio 2015.([15])

Cronache di questa natura hanno verosimilmente influito sulla retorica di chi ha commentato che «nel III millennio, si sarebbe ipotizzato che quell’accordo, quello del lodo [Moro], sarebbe stato ancora in vigore. Non a caso l’Italia sarà l’unico paese, e non solo in Europa, ad essere al riparo da attacchi di Al Qaida e di galassie islamiche radicali […]. E non sarà escluso che dopo il lodo Moro ci sarà un lodo Al Qaida, dirà [il giudice] Rosario Priore, al fine di tutelare la vita dei nostri militari impegnati all’estero».([16])

Non va, però, assolutamente sorvolato il fatto che plurime fonti − seppure anch’esse praticamente in tutti i casi prive di ufficialità − riportano il ricorso di numerosi Paesi di cultura occidentale a negoziati e concessioni nei confronti di aggregazioni terroristiche. Ne segue una sintetica cronologia esemplificativa.

  • Svizzera. Nel 1970 sarebbe stato stipulato un accordo occulto dal dicastero degli affari esteri elvetico con l’OLP per porre fine ad attacchi ai danni di interessi svizzeri.([17]) Il periodo coincide con sequestri aerei ad opera di militanti palestinesi.
  • Francia. Nel 1974 viene liberato un terrorista dell’Armata Rossa Giapponese arrestato all’aeroporto di Orly, così cedendo alla pressione generata dalla presa di ostaggi all’ambasciata di Francia a L’Aia.([18]) Nel periodo 1977-1990 vengono espulsi vari terroristi palestinesi, iraniani e armeni, arrestati e condannati in Francia, onde prevenire rappresaglie o facilitare il rilascio di ostaggi occidentali in Medioriente.([19])
  • Germania. Tre detenuti, appartenenti a Settembre Nero e coinvolti nel massacro di atleti israeliani il 5 settembre 1972 durante le Olimpiadi di Monaco, vengono rilasciati dalle autorità tedesche il giorno 29 del mese successivo per porre fine al dirottamento del volo Lufthansa 615 Damasco-Beirut-Ankara-Monaco.([20])
  • Stati Uniti d’America. Nel 1985, 508 missili TOW (tube-launched optically tracked, wire-guided) vengono venduti all’Iran in cambio di sette ostaggi statunitensi detenuti da Hezballah in Libano.([21]) Nel 2014, vengono rilasciati cinque talebani detenuti nel carcere di Guantanamo Bay in cambio del sergente dell’esercito statunitense Bowe Bergdahl da cinque anni prigioniero in Afghanistan.([22])
  • Israele. Nel 1985, il governo di Tel Aviv libera oltre 700 detenuti libanesi per ottenere come contropartita la liberazione di 39 ostaggi americani.[23] Nel 2004, in cambio della liberazione di un ufficiale superiore catturato in Libano e della restituzione dei cadaveri di tre militari di truppa, le autorità israeliane rilasciano trenta detenuti libanesi e 430 palestinesi e consegnano alle loro famiglie i resti di sessanta militanti di Hezbollah.[24] Nel 2011, a seguito di un accordo con Hamas, Israele libera 1027 detenuti palestinesi in cambio del rilascio del caporale Gilad Shalit, catturato da un “commando” palestinese cinque anni prima.([25])

Le cronache su riportate alludono al ripetitivo ricorso, in un contesto terroristico significativamente internazionale, a negoziati che nella sostanza comportano concessioni da parte di Stati sovrani nei confronti di aggregazioni non statali aventi fini politici e contemporaneamente caratterizzate da strutture e dinamiche clandestine, violente e criminali.

Pertanto risaltano, in sintesi, fattispecie quali la messa a disposizione del territorio nazionale per il transito e attività collegate di elementi appartenenti a consorterie terroristiche straniere; il pagamento di riscatti per ottenere la liberazione di propri cittadini sequestrati all’estero; lo scambio di sedicenti detenuti politici con ostaggi o i loro resti; e il rilascio e rimpatrio di terroristi allo scopo di prevenire rappresaglie.

Allo stesso tempo, nel sottolineare la contraddizione tra politica di fermezza governativa enunciata ed arrendevoli comportamenti (persino da parte di Stati, quali gli Stati Uniti ed Israele, avvezzi ad avvalersi anche di metodi forti contro il terrorismo), cronisti, editorialisti e studiosi hanno più volte rilevato che l’apparente rifiuto dei governi democratici di trattare con i terroristi non corrisponde alla realtà.([26])

Esiste, comunque, nell’analisi e nella saggistica − manuali inclusi – una diversità di pensiero sull’opportunità o meno di ricorrere ai negoziati e relative concessioni, nonché sulla metodologia di conduzione.([27])

Con apparente noncuranza del fatto che quando organi governativi negoziano con aggregazioni terroristiche([28]) è lo Stato che soccombe a pretese illegittime, la scuola di pensiero favorevole alle trattative sostiene che la politica di fermezza non pone fine al terrorismo e non previene nemmeno la presa di ostaggi, aggiungendo che la fermezza non solo peggiora la condizione detentiva degli ostaggi, ma risulta inefficace in quanto la presa di ostaggi, al di là dell’eventuale riscatto, mira a propagandare la causa, attirare attenzione, disporre di scudi umani in caso di un intervento militare, scoraggiare investimenti esteri e imbarazzare il Paese considerato nemico.

La stessa scuola di pensiero argomenta, inoltre, che grazie alla negoziazione, quindi dialogo ed esplorazione, lo Stato può trarre informazioni utili per il contrasto al terrorismo e propone che il vero deterrente consiste nell’applicazione di sanzioni penali o, in alternativa, rappresaglie che gli elementi terroristici temono di subire, ipotesi verosimilmente azzardata quantomeno ove agiscono fanatici, inclusi attentatori suicidi, di stampo politico-religioso.

Oltre alla valutazione negativa, in termini asseritamente tecnici, della politica di fermezza, detta contrarietà invoca, a seconda dei casi, principi di solidarietà basati sul valore inestimabile della vita delle vittime o la necessità di precludere nocumenti, sia economici sia materiali, di maggiore gravità rispetto a eventuali cedimenti.

Tuttavia, fautori della negoziazione convengono che prima d’incamminarsi su quel sentiero è necessario analizzare compiutamente tanto lo specifico gruppo terroristico quanto la cultura ed il contesto in cui opera.

Per contro, la scuola della fermezza equipara negoziati e concessioni alla resa e perdita di dignità dello Stato, contemporaneamente sostenendo che tale prassi legittima il gruppo terroristico contraente, incoraggia altre consorterie terroristiche e – pur apparendo efficace nell’immediato − si  dimostra disastrosa nel lungo termine.

Per quanto riguarda in particolare il versamento di riscatti, la scuola di pensiero sostenitrice della fermezza postula che esso finanzia il terrorismo, stabilisce precedenti e incoraggia ulteriori sequestri.

Una terza scuola di pensiero tende, a sua volta, a proporre una via di mezzo impostata sul tentativo, da un verso, di risolvere le questioni conflittuali in una determinata area geopolitica sfruttabili da terroristi e, dall’altro verso, di addivenire ad una soluzione pacifica senza porre in essere concessioni sostanziali favorevoli agli elementi terroristici.

È stata, infine, formulata la convinzione che sin quando si tratta di confrontarsi con casi motivati da fini venali (a rigore inquadrabili, però, nella criminalità comune piuttosto che in quella politica, che abbraccia il fenomeno terroristico) sono ipotizzabili approcci che esulano dalla fermezza, mentre se sangue è stato versato non può che prevalere il ricorso alla repressione.

A prescindere dalle contrapposte scuole di pensiero in materia di fermezza, il ricorso a trattative e concessioni da parte di Stati sovrani fin qui considerato riguarda palesemente e unicamente situazioni internazionali.

A scanso di equivoci, va quindi parenteticamente notata la dissimile circostanza in cui uno Stato deve confrontarsi, all’interno del proprio territorio, con insorti che ne controllano regioni e risorse e si avvalgono della guerriglia e del terrorismo. In questo caso, particolarmente in assenza della preponderanza dello Stato nonostante l’impiego delle forze armate nazionali, la negoziazione spesso costituisce un utile tentavo mirante alla pacificazione e può, altresì, facilitare tregue e creare  spaccature all’interno della componente insorgenziale tra irriducibili fautori della violenza ed elementi desiderosi di riforme istituzionali per il tramite di mezzi non cruenti.

Chiusa questa breve parentesi, è infine opportuno riconoscere che comportamenti statali – spesso accompagnati da false dichiarazioni o reticenze – in contrasto con la politica anti-terrorismo enunciata dalle autorità politiche producono confusione e sfiducia a livello nazionale e incidono, parimenti, sull’immagine e affidabilità dello Stato sulla scena internazionale.

Permane compito dello Stato, non di rado condizionato da personaggi privi di doveri istituzionali che si recano in pericolose aree estere e che dovrebbero assumersene il rischio, affrontare l’inevitabile dilemma se perseguire in ogni caso la politica di fermezza nell’interesse dell’intera comunità nazionale e di quella internazionale, oppure se adeguarsi agli umori dell’opinione pubblica, o settori della stessa, per non rischiare sfavorevoli risultati elettorali.

È auspicabile che, già nel breve termine, l’opera di contrasto voglia avvalersi delle trattative unicamente per logorare, senza soccombere a concessioni, chi pratica il terrorismo e valorizzare al massimo gli strumenti giuridici ordinari e straordinari nella legittima lotta contro una insensata e vile minaccia.

(*) Vittorfranco Pisano, colonnello t.IASD di Polizia Militare dello U.S. Army (Ris.), è attualmente Segretario Generale dell’Albo Nazionale Analisti Intelligence, docente nel master universitario di II livello in Scienze Informative per la Sicurezza presso l’Università E-Campus e Presidente della Commissione Contrasto al Terrorismo del Comitato Atlantico Italiano. È stato consulente della Sottocommissione sulla Sicurezza e Terrorismo del Senato degli Stati Uniti e revisore dei corsi nell’ambito de Programma di Assistenza Anti Terrorismo del Dipartimento di Stato statunitense.

Ultima pubblicazione monografica: Italia e Stati Uniti. Terrorismo e disinformazione (Nuova Cultura, Roma, 2016)

 

[1] Per una panoramica dei vari tentativi espletati, vedi Francesco Grignetti, Salvate Moro. La trattativa e la pista internazionale, Melampo, Milano, 2018.

[2] Ibidem, p.106.

[3] Antonio Cornacchia, Airone 1. Retroscena di un’epoca, Sommetti, Mantova, 2016, pp.132-133. L’autore del libro era il comandante del nucleo investigativo di Roma dei Carabinieri durante il sequestro Moro.

[4] Ibidem, p.134. Ma, se cronologicamente attendibile, un trafiletto dal titolo “Terroristi liberati nell’interesse dello Stato”, apparso il 10 ottobre 1978 su Osservatorio Politico (p.53) del noto giornalista Mino Pecorelli, elencava dandone i nominativi undici soggetti liberati già prima, ovvero dal 13 febbraio al 30 ottobre del 1973.

[5] Per approfondimenti  sul ruolo di Giovannone vedi Grignetti, op.cit.

[6] Stefano Grassi, Il caso Moro, Mondadori, Milano, 2008, p.311.

[7] Grignetti, op.cit., p.43.

[8] Citazione riportata in Grignetti, op.cit., p.120.

[9] La Repubblica, 10 aprile 2007, p. 11 e Magdi Allam, Vivere la Paura. La mia vita contro il terrorismo islamico e l’incoscienza dell’Occidente, Mondadori, Milano, 2005, p.123.

[10]  Ibidem.

[11]  Ibidem.

[12] La Repubblica 10 aprile 2007, p.11 e  Il Giornale, 10 giugno 2005, p.2.

[13] La Repubblica, 10 aprile 2007, p.11.

[14] Libero, 20 luglio 2012, p.16.

[15] Corriere della Sera, 16 gennaio 2015, pp.1-3 e il Giornale, 16 gennaio 2015, pp.1 e 9.

[16] Cornacchia, op.cit., p.150.

[17] Grignetti, op.cit., pp.22-25.

[18] Le Monde, 28/29 agosto 1994., p.8

[19] Le Figaro, 30 luglio 1990, p.9 e International Herald Tribune, 28/29 luglio 1990, p.1.

[20]  “Il massacro di Monaco”, il Post, 5 settembre 2012.

[21] L. Paul Bremer, “Seizing the Initiative: The US Role in Combating Terrorism”, Harvard International Review, estate 1995 e Rodney Hyatt, Granting Concessions and Paying Ransoms to Terrorists: A Policy Options Analysis of the U.S. Policy on Hostage Recovery, Naval Postgraduate School, Monterey, California, 2016, pp.50-51.

[22] Il Giornale, 1 giugno 2014, p.13, Corriere della Sera, 26 marzo 2015, p.15 e Time, 6 aprile 2015, p.11.

[23] The Economist, 2 marzo 1996, p.13.

[24] La Stampa, 30 gennaio 2004, p.3.

[25] La Repubblica, 10 ottobre 2011 e, in pari data, Il Messaggero.

[26] Vi, ad esempio, The Economist, 2 marzo 1996, p.13; Policy Brief N. 6, Negotiating with Terrorists: A Mediator’s Guide, International Institute for Applied Systems Analysis, Vienna, marzo 2009; Mitchell B. Reiss, Negotiating with Evil: When to Talk to Terrorists, Open Road Media, New York, 2010; e Alan Gomez, “Is It Ever Right to Negotiate with Terrorists?”, USA Today, 1 giugno 2014; .

[27] Costituiscono riferimenti esemplificativi Audry Kurth Cronin, When Should We Talk to Terrorists?, Special Report 240, United States Institute of Peace, Washington, D.C., maggio 2010; Alex B. Schmid (a cura di), The Rutledge Handbook of Terrorism Research, Rutledge, Londra, 2011; “Stanza di Mario Cervi”, Il Giornale, 29 ottobre 2014; Patrick Johnson, Countering ISIL’s Financing, RAND, Santa Monica, California, 2014; “Risponde Sergio Romano”, Corriere della Sera, 23 marzo 2012, 20 gennaio 2015 e 8  ottobre 2015; Brian Michal Jenkins, Does the U.S. No-Concessions Policy Deter Kidnappings of Americans?, RAND, Santa Monica, California, 2017; e Hyatt, op.cit.

[28]  Stando a fonti di pubblico dominio, tali mansioni sono di regola assegnate dalle autorità politiche ai servizi di intelligence ed  è  spesso rilevante l’ausilio del governo di Stati terzi o di organizzazioni non governative.

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