Il comunicato ufficiale che fa rifermento all’annuncio della famiglia regnante non è privo della retorica di circostanza: «Secondo le direttive emanate dall’Emiro, il vicepremier e ministro degli esteri Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani ha annunciato il nuovo impegno dello Stato del Qatar per fornire cento milioni di dollari allo scopo di alleviare le sofferenze umane del popolo siriano».
Intervenendo alla IV Conferenza di Bruxelles per il sostegno del futuro della Siria e della regione mediorientale, alla quale ha partecipato da remoto in video conferenza, il titolare del dicastero degli esteri di Doha ha voluto sottolineare che il nuovo impegno finanziario origina dalla ferma convinzione del Qatar di partecipare alla soddisfazione dei bisogni del popolo siriano contribuendo agli sforzi profusi dalla comunità internazionale, aggiungendo che «lo Stato del Qatar si sente in obbligo verso il fraterno popolo siriano afflitto da una grave crisi umanitaria», sottolineando inoltre che con questo ultimo contributo «il Qatar nei termini dell’assistenza al fraterno popolo siriano ha superato i due miliardi di dollari»
Al-Thani ha quindi concluso ribadendo il «sostegno incrollabile» fornito da Doha agli sforzi a livello internazionali volti al raggiungimento di una soluzione politica alla crisi siriana, sulla base della Dichiarazione di Ginevra del 2012 e le pertinenti Risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in particolare la n. 2254, questo «in un modo che possa soddisfare le legittime aspirazioni del popolo siriano alla sicurezza, alla stabilità e alla conservazione della sua integrità territoriale».
Presto si saprà nello specifico quali saranno i beneficiari della donazione, è lecito pensare che si potrà trattare di coloro i quali – profughi e popolazione residente – attualmente si trovano nella provincia di Idlib, divenuta l’ultimo rifugio dei miliziani jihadisti che combatterono agli ordini di al-Baghdadi nelle file dell’esercito del sedicente Califfato.
Si tratta di un’ipotesi che sorge spontanea dalle consolidate relazioni tra Doha e Ankara, che in quel particolare settore dello scacchiere mediorientale utilizzano i loro proxi nei conflitti che combattono “per procura”.
Denaro, conflitti, profughi e opinioni pubbliche: è soltanto l’ultimo atto della «guerra degli assegni».
Emirati Arabi Uniti (EAU) e Turchia si sono impantanati in un confronto che vede quale posta il potere sulla regione, una controversia armata, finanziaria e propagandistica che ha alimentato il conflitto in Libia e potrebbe innescare nuovi combattimenti in Siria.
Una lotta che, al pari di quella tra Arabia Saudita e Iran, minaccia di accrescere il livello di instabilità in Medio Oriente e nel Nord Africa.
Se vengono prese in esame le dinamiche generate da Erdoğan da un lato e gli emiratini dall’altro ad esempio in Libia, al riguardo si registra una situazione giunta a una sorta di pericoloso stallo, sia sul piano militare che su quello politico.
Un teatro di crisi, quello nordafricano, strettamente legato a quello apparentemente quiescente della Siria nord-orientale.
Se in Libia il sostegno di Ankara al Governo di Accordo nazionale (GNA) presieduto da Fayez al-Serraj è finalizzato al controllo del Paese e delle sue acque territoriali ricche di materie prime energetiche, in Siria la strategia turca è quella di impedire alle forze curdo-siriane di stabilire una presenza permanente e significativa ai propri confini e, allo stesso tempo, mantenere sotto controllo i gruppi jihadisti concentratisi nella provincia di Idlib, ultima grande roccaforte ribelle in Siria, situata a ridosso della frontiera turca.
L’abbandono dei curdi da parte di Trump, dopo che questi ultimi si erano rivelati fondamentali nel contrasto e nella sconfitta sul campo di Islamic State, li ha spinti nella direzione praticamente obbligata della cooperazione con Damasco, nell’auspicio che il regime di al-Assad li possa proteggere dalle possenti offensive militari turche in territorio siriano.
La Turchia ospita attualmente tre milioni e mezzo di rifugiati siriani, per lei divenuti nel tempo un serio problema sui piani sia politico che dell’ordine pubblico, dunque è intenzionata a tutti i costi a ostacolare un nuovo afflusso di altri rifugiati se e quando Idlib cadrà in mano alle forze governative siriane sostenute da Mosca.
Libia e Siria sono due teatri di crisi dove trovano sfogo anche le rivalità tra Turchia ed EAU in campo politico-religioso, cioè di quella battaglia per il dominio globale sull’universo musulmano sunnita, con gli imprescindibili aspetti geopolitici.
Grazie alla fitta rete di relazioni, alleanze e trame segrete, per il momento la Turchia ha evitato che la situazione a ridosso della sua frontiera sud-orientale degenerasse a causa di una spallata delle forze di Damasco all’enclave di Idlib, ma i meriti del provvisorio congelamento del conflitto in quello specifico settore non vanno attribuiti ad Ankara bensì a Mosca.
L’attuale, sia pur relativa, stabilità del regime di al-Assad al momento non verrebbe posta in discussione, esso viene infatti sostenuto da Russia, Iran e dagli EAU.
Recentemente, il principe ereditario di questi ultimi, Muhammad bin Zayed, attraverso la promessa di un versamento nelle casse di Damasco di tre miliardi di dollari (un anticipo di 250 milioni è stato versato in primavera) ha tentato di indurre il rais a infrangere il precario cessate il fuoco in atto a Idlib.
Per il regime baathista si sarebbe trattato di una corroborante boccata di ossigeno, ma la Russia ha stoppato l’operazione concepita dagli emiratini allo scopo di porre in difficoltà la Turchia nel settore siriano onde costringerla a disimpegnarsi – almeno parzialmente – dal teatro libico per farle concentrare lo sforzo a ridosso della propria frontiera.
Questo in un momento nel quale il dispositivo militare del generale Khalifa Haftar – alleato libico di emiratini, russi e francesi contro turchi e qatarini – si trovava in difficoltà.
Il veto posto da Mosca ad al-Assad di accettare l’offerta miliardaria degli EAU ha fatto sì che i turchi potessero mantenere integra la loro capacità di concentrarsi con successo sul teatro bellico libico con i conseguenti risultati a tutti noti.
Dal canto suo, anche attraverso questa controversa «guerra degli assegni», Doha conferma il suo iperattivismo nel Medio Oriente e in Nord Africa (MENA).
Infatti, negli ultimi tempi gli al-Thani hanno finanziato diversi Stati e organizzazioni della regione, dai palestinesi di Hamas alla stessa Turchia, come quando nel 2018 intervenne erogando diversi miliardi di dollari in sostegno della moneta di Ankara, che stava crollando anche per effetto dell’azione sanzionatoria degli Usa nei confronti di Erdoğan.
Nel 2014 il Qatar, ricco emirato del Golfo Persico nel quale vige la sharia, stipulò con la Turchia un accordo strategico nel campo della sicurezza che ha consentito alle forze armate di Ankara di stabilire una propria base in territorio qatarino, dove per altro è presente anche la più grande base aerea americana in Medio Oriente, quella di Al-Udeid.
I turchi vi hanno quindi rischierato tremila militari dell’esercito, oltre ad asset dell’aeronautica e della marina e a elementi delle forze speciali.
Quando nel 2017 si consumò la frattura tra sunniti in seno al Consiglio di Cooperazione del Golfo, che vide i sauditi coalizzare attorno a loro la quasi totalità delle altre petromonarchie imponendo un blocco al Qatar, ritenuto eccessivamente vicino all’Iran, Erdoğan inviò immediatamente i propri aiuti a Doha per mezzo di navi mercantili e velivoli recanti cibo e forniture essenziali. In quel medesimo frangente Ankara incrementò anche il suo dispositivo militare nella base qatarina.
Nel 2018, in una fase nella quale la lira turca perse il 40% del proprio valore, Doha intervenne investendo quindici miliardi di dollari nelle banche e nell’acquisto di prodotti finanziari turchi. In particolare, le relazioni economico-finanziarie tra Doha e Ankara hanno conosciuto sviluppi nel settore dell’industria della difesa, con l’ingresso dei fondi di investimento qatarini nel capitale della BMC, l’impresa turca attiva nella produzione di mezzi corazzati, e anche grazie alla partnership tra la Havelsan (società pubblica turca produttrice di software) e la qatarina al-Mesned Holdings, una joint venture nel settore della cyber security.
Una stretta cooperazione che per Ankara assume i contorni di una dipendenza, visti anche i suoi squilibri economici aggravati dagli effetti catastrofici della pandemia da Covid-19, che hanno costretto la banca centrale turca a cercare disperatamente la stipula di accordi swap in giro per il mondo allo scopo di migliorare le condizioni di liquidità e fornire finanziamenti in valuta estera alle banche nazionali in un periodo di stress come quello attuale.
E anche stavolta Erdoğan ha trovato una sponda a Doha, triplicando l’ammontare della somma precedentemente concordata nel 2018, da cinque a quindici miliardi di dollari.