Non si arresta l’esodo dei cristiani dai Paesi del Medio Oriente, un fenomeno iniziato alcuni anni fa, dopo la Seconda guerra del Golfo, e successivamente accentuatosi a seguito delle violenze perpetrate dagli jihadisti dello Stato Islamico e, più in generale, a causa della difficile situazione complessiva nella regione.
Nella Piana di Ninive si tenta in ogni caso una rinascita sulla spinta di un vescovo che durante la fase di terrore dell’autoproclamato “califfato” di al-Baghdadi, lavorò per salvarne la storia e i manoscritti anche grazie alla campagna dell’UNESCO “Revive the spirit of Mosul”, che ha beneficiato degli ingenti finanziamenti rogati dagli Emirati Arabi Uniti (EAU).
Due visite avvenute all’inizio del mese di giugno confermerebbero questa voglia di rinascita, quella effettuata del premier iracheno Mustafa al-Kadhimi e quella del vescovo Najib Mikhael Mousa.
Il primo ministro è giunto a Mosul il 10 giugno allo scopo di recare una visita particolarmente significativa, in quanto coincidente con la data del sesto anniversario della conquista della città dell’Iraq settentrionale da parte dei miliziani di al-Baghdadi.
Egli, nell’occasione affermò che: «I cristiani rappresentano una delle componenti più autentiche dell’Iraq e ci addolora vederli lasciare il Paese».
Tra le persone incontrate dal premier ci furono anche i rappresentanti delle Chiese e delle comunità cristiane locali, incluso lo stesso vescovo Moussa, recatosi sul posto assieme ai leader religiosi musulmani e ai capi tribù locali della “Città Vecchia”.
Il vescovo era stato invitato dall’UNESCO – intenta alla ricostruzione della Città Vecchia con il sostegno degli EAU – insieme ai membri del Consiglio nazionale per gli anziani delle tribù e del clan di Ninive, avendo l’opportunità di visitare alcune chiese e moschee della Città Vecchia.
Secondo il sito del Patriarcato caldeo, l’iniziativa sarebbe «un buon segno per la coesione nazionale e religiosa e la convivenza tra i residenti di questa antica città».
Il vescovo Mousa ha sottolineato l’importanza dell’educazione civica e scientifica nelle scuole per denunciare la violenza e lavorare per una vita di reciprocità e in pace, lontana dall’intolleranza, e ha rimarcato che i leader religiosi sono cruciali per raggiungere questo obiettivo.
«Il problema a Mosul, – sottolinea il religioso – più che ricostruire le case saccheggiate o le chiese è soprattutto ricostruire la fiducia, e il continuo esodo dei cristiani, divenuto persino più marcato dopo le proteste di Baghdad e l’instabile situazione nel Paese, non si fermerà se lo Stato non sarà in grado di garantire sicurezza».
Egli ha dunque incontrato al-Khadimi il 10 giugno. Tra i membri della delegazione del premier, figuravano anche la cristiana caldea Evan Faeq Yakoub Jabro, nominata recentemente ministro per rifugiati e i migranti nel governo guidato da Mustafa al-Kadhimi.
Dal 2014 al 2017 Mosul è stata la capitale de facto dello Stato Islamico. Riconquistata dopo una battaglia durata nove mesi che ha portò alla morte di migliaia di civili e all’ulteriore esodo di migliaia di sfollati dopo che già la città si era praticamente svuotata all’arrivo delle milizie jihadiste.
Secondo al-Khadimi, le responsabilità dello stato di abbandono di Mosul andrebbero ricondotte al diffuso fenomeno di corruzione risalente fin dai tempi della dittatura di Saddam,
Durante la fase di potere jihadista a Mosul sono stati devastati luoghi simbolo quali la moschea di al-Nouri e la chiesa di Al-Saa (Nostra Signora dell’Ora), entrambi siti oggetto di progetti di restauro che però non vedono la luce nonostante i fondi siano stati stanziati.
Al-Khadimi ha visitato anche la città di Bartella, situata a ventuno chilometri a est di Mosul, luogo che prima dell’occupazione dell’ISIS era abitato in maggioranza da cristiani.
Gli abitanti rimasti hanno posto in luce come i vecchi equilibri demografici per effetto dell’azione violenta degli jihadisti di al-Baghdadi siano completamente mutati, considerato il fatto che gran parte dei cristiani locali erano fuggiti, cercando poi rifugio in Kurdistan o in altri paesi che li hanno accolti, quindi non sono più tornati nei loro luoghi di origine.