Secondo Eurasiagroup, mentre le proteste per l’uccisione da parte della polizia di George Floyd infuriavano in tutto il paese, si sono verificati più di 125 casi di giornalisti, anche cittadini stranieri, colpiti da proiettili di gomma sparati dagli agenti, arrestati o, in altri casi, aggrediti dai manifestanti mentre coprivano le notizie dei disordini per conto delle loro testate.
Alcuni di essi si sono semplicemente trovati nel mezzo del fuoco incrociato durante nelle fasi più acute degli scontri di piazza, tuttavia, le prove video e fotografiche hanno rivelato casi nei quali la polizia americana ha deliberatamente preso di mira i giornalisti mentre questi stavano facendo il loro lavoro.
Purtroppo, se le limitazioni e le violenze esercitate a danno degli operatori della stampa sono ormai una consuetudine nei Paesi dove governano regimi autoritari o totalitari, in quanto non sorprende certamente sapere che i giornalisti incontrano difficoltà a svolgere la loro professione e a esercitare il diritto di informazione in Egitto o nella Repubblica Popolare cinese, o in Turkmenistan e tantomeno nella “sigillata” Corea del Nord, sorprende invece sapere che questo accade anche in alcune democrazie.
Un rapporto pubblicato lo scorso anno da Freedom House ha rilevato che negli ultimi cinque anni in sedici tra i paesi ritenuti i più liberi del mondo (tra i quali figurano India, Ungheria, Austria e Stati Uniti) è stata registrata una compressione della libertà di stampa, una tendenza che, in diversa misura, sarebbe in atto anche in altre democrazie occidentali.
Sono molte le ragioni per le quali la stampa si trova sotto pressione: il declino dell’informazione locale ha ridotto il legame un tempo stretto tra la gente e i giornalisti, mentre l’affermarsi dei social media ha rappresentato una fonte alternativa di informazioni, ma anche (causa la stessa intrinseca conformazione del medium) bacino di coltura e diffusione di pregiudizi e disinformazione tra la gente.
In particolare, la crescente polarizzazione delle notizie via cavo ha contribuito a erodere ampiamente la fiducia popolare precedentemente riposta nei mass media, al punto che nel 2019 secondo una rilevazione effettuata da Gallup soltanto il 41% degli americani si fidava dei mezzi di informazione disponibili.
Per avere una misura del fenomeno basterà riflettere sul fatto che nel 1972, quando il conduttore televisivo Walter Cronkite, l’anchor man che raccontò agli americani ogni sera dai teleschermi la guerra in atto nel Vietnam, riscuoteva un grado di fiducia pari al 68 per cento.
Ma non basta. Infatti si è verificata una perversa sinergia frutto del tentativo concertato da parte di non pochi leader definiti «populisti» (meglio sarebbe forse, almeno per alcuni di loro, definirli «antisistema») di demonizzare la stampa, in particolare alcune affermate testate, attività che hanno visto protagonisti in negativo leader come Jair Bolsonaro, Reçep Tayyip Erdoğan e Viktor Orban, oltre ovviamente al più bravo di tutti, il presidente statunitense Donald Trump, che ha ripetutamente etichettato i giornalisti come «nemici del popolo», definizione agghiacciante che evoca periodi bui della storia .
Non è sempre vero che «chiacchiere il vento se le porta via», poiché in molti casi le parole sono vere e proprie pesanti pietre con le quali lapidare una persona, sottraendole la rispettabilità o, peggio, esponendola alla emarginazione e alla violenza del suo gruppo sociale.
Si sta dunque creando una situazione assai pericolosa, resa ancora più grave dalla pesante situazione di disagio causata dalla crisi economica e sociale dovuta alla pandemia da Covid-19, laddove potenti – e meno potenti ma non per questo ininfluenti sull’opinione pubblica – leader politici creano le condizioni “culturali” ed emotive, ingenerando un senso di sostanziale impunità in coloro – ad esempio alcuni funzionari e agenti delle forze dell’ordine che condividono le loro opinioni – che poi si ritengono in possesso della licenza di abusare della loro autorità o di intervenire arbitrariamente nei confronti dei giornalisti, magari nel corso di proteste di piazza che questi ultimi stanno documentando.
Le democrazie basano sé stesse sul libero flusso delle informazioni e la libera formazione di opinioni e convincimenti e, anche se alcuni giornalisti (sono esseri umani anche loro) lasciano che i loro pregiudizi distorcano lo svolgimento della propria professione, non per questo la stampa, intesa in senso lato, per imperfetta che a volte possa essere, permane comunque di fondamentale importanza ai fini della sopravvivenza di una società civile e aperta.