“Da Taiwan al virus di Wuhan: non c’è bisogno di chi tace e acconsente…”, articolo di Giuseppe Morabito, generale dell’Esercito italiano in congedo attualmente a capo della Protezione civile di Roma Capitale – Quando un analista si cimenta nell’esame degli effetti del Covid-19 sulle relazioni internazionali deve sempre partire da due certezze assolute: la prima è che nella storia recente del nostro pianeta la minaccia per la salute globale, l’economia, il commercio e il turismo a causa della possibile diffusione di malattie infettive non sono mai da escludere o diminuiti nel tempo;
la seconda è che le pandemie possono diffondersi rapidamente in tutto il mondo a causa della facilità con cui oggi le moderne comunicazioni permettono gli spostamenti di cose e persone nel mondo.
Tra gli esempi maggiormente noti si rinvengono la febbre spagnola del 1918, l’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (SARS) del 2003 e l’influenza H1N1 del 2009, inoltre, seppure in maniera intermittente, anche gravi epidemie regionali quali la sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) nel 2012, l’Ebola nell’Africa occidentale nel 2014 e il virus Zika nell’America centrale e meridionale nel 2016.
Oggi, la nuova forma di polmonite i cui primi casi sono stati registrati a Wuhan, nella Repubblica Popolare cinese alla fine del 2019 – che da allora è stata classificata come malattia da coronavirus 2019, o Covid-19 -, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha generato in tutto il mondo circa quattro milioni di positività al virus e più di 260.000 decessi.
Al momento tutti si interrogano per cercare di comprendere quali siano le sue origini, tuttavia una cosa è certa: il virus ha iniziato a contagiare partendo dalla città di Wuhan, infetti verrà probabilmente ricordato come il «virus di Wuhan».
Un esempio triste: il nome del gas iprite, che venne utilizzato come aggressivo chimico per la prima volta dall’esercito imperiale tedesco nel 1917 durante della Prima guerra mondiale nel settore del fronte occidentale di Ypres, nel Belgio, città dalla quale deriva il proprio nome.
Sempre in quegli anni si ricorda l’influenza spagnola, così chiamata non perché venisse dalla Spagna, ma perché i primi a parlarne furono i giornali spagnoli. Infatti, la stampa degli altri paesi, che a quel tempo era sottoposta alla censura di guerra, negò a lungo che fosse in corso una pandemia, sostenendo che il problema fosse confinato esclusivamente alla Penisola iberica.
Negli anni passati si è parlato del contagio da virus Ebola, che a sua volta prende il nome dalla zona del Congo nel quale fu scoperto nel 1976.
Non siamo in guerra e siamo nel Terzo millennio, la Cina e i suoi sostenitori, spesso impauriti dalle possibili ritorsioni, accettino almeno il termine virus di Wuhan oppure «virus cinese» e non facciano una ostinata propaganda riferendosi al termine tecnico Covid-19.
Gli “impauriti” sono oggetto della campagna di soft power cinese, purtroppo efficace anche in Italia, che persegue obiettivi interni ed esterni, indirizzandosi alle opinioni pubbliche del resto del mondo.
In Cina, il Partito comunista vuole fare passare al suo popolo il concetto che «Pechino ha salvato il mondo dal coronavirus e la comunità internazionale ne riconosce gli sforzi nell’affrontare la pandemia».
All’estero la Repubblica Popolare cinese tenta di accreditare a livello internazionale la tesi (falsa) che la pandemia non ha avuto origine a Wuhan, trasformando così la propria immagine da “untrice” a “salvatrice” del mondo facendo ricorso alla cosiddetta «diplomazia delle mascherine», donate assieme a qualche altra strumentazione in esubero nei propri ospedali od ormai non di più di necessaria produzione, come gli esuberi di magazzino.
La pandemia attualmente in corso ha funto da ulteriore propellente al latente stato di conflitto tra gli Usa e la Cina. Dai propri alleati nella NATO, Washington si aspetta lealtà, e lo fa capire chiaramente.
Per chi si sente sotto pressione per la stagnazione economica e l’attacco “batteriologico”, infatti, l’atteggiamento attendista e impaurito di un «amico storico» e spesso debitore morale di libertà democratica (Italia in testa, basta andare al cimitero militare di Anzio o rileggere il piano Marshall), equivale esso stesso alla sconfessione dell’Alleanza atlantica e del sempre dichiarato Transatlantic Link (legame transatlantico).
In queste ore, comunque, non si discute solamente della proposta d’inchiesta sulle origini del virus, ma si rivolge, finalmente, anche un’attenzione importante al futuro.
Il 18 maggio l’OMS ha organizzato una conferenza sulle possibili modalità di contrasto del virus, un altro tema che promette di infuocare lo scontro tra Washington e Pechino, come se non bastasse quello sull’origine della stessa pandemia: la partecipazione ai lavori di Taiwan.
L’OMS, su forti pressioni esercitate dalla Cina comunista, non riconosce ufficialmente il Governo di Taipei.
Per tornare all’ipotesi sull’incidente occorso nei laboratori di Wuhan -molto sostenuta dall’intelligence americana -, tra qualche scetticismo e forti possibilità si sviluppano discussioni e vengono espressi pareri, i più disparati, a seconda degli sponsor politici ed economici di coloro i quali prendono posizione.
È però certo che se Pechino intende intestarsi parte dei destini del mondo dovrà pur confermare di avere la padronanza delle capacità di gestione e le potenzialità tecnologiche acquisite soprattutto nel settore della bio-sicurezza per controllare laboratori iper specializzati come quello di Wuhan.
A causa dello storico contrasto con Taiwan esiste uno stato di fatto per il quale Pechino, che non riconosce la sovranità di Taipei, considera l’isola una provincia da riunificare, non tenendo assolutamente in conto il fatto che, ultimamente gli Usa hanno riconfermato il loro impegno di contrasto dell’espansionismo politico, militare e territoriale della Cina comunista nel Mar Cinese.
Esso prevede anche un rinnovato sostegno alle legittime richieste taiwanesi in ambito internazionale del governo della Presidente Tsai.
La Repubblica di Cina (denominazione ufficiale di Taiwan) è considerata in tutto il mondo un modello di contenimento della pandemia.
Infatti, malgrado la prossimità geografica e le strette relazioni commerciali, turistiche e sociali con la Cina continentale (chiamata dai taiwanesi «Mainland», madre patria), attuando una strategia tempestiva ed efficace, Taipei è riuscita a limitare a soli sei decessi il bilancio del contagio e non ha dovuto neanche porre in essere misure di lockdown.
Tale positivo risultato è conseguenza del fatto che, quando le informazioni concernenti un nuovo focolaio di polmonite sono state confermate (il 31 dicembre 2019), Taiwan ha iniziato a implementare con immediatezza la quarantena a bordo dei voli diretti da Wuhan.
Il 2 gennaio 2020 ha istituito un team di risposta e attivato il Central Epidemic Command Center (CECC), cioè un comando centrale per l’epidemia, che ha integrato efficacemente le risorse disponibili presso i vari dicasteri ed enti, focalizzandosi esclusivamente sul contenimento dell’epidemia.
Nonostante la citata vicinanza alla Cina, Taiwan è il 123º Paese su 183 in termini di casi confermati per milione di persone.
Quanto precede, è la prova che gli sforzi di Taipei profusi allo scopo di controllare l’epidemia stanno avendo successo.
Per fare un esempio – senza però voler fare un negativo confronto con l’Italia -, il 12 marzo il governo di Taiwan ha adottato un’applicazione relativa alle mascherine protettive che ha consentito alle persone di ordinare i beni in commercio Online e ritirarli poi presso i minimarket.
Inoltre, se si concorda che la sicurezza sanitaria globale richiede gli sforzi di ognuno per garantire una risposta ottimale alle minacce e alle sfide della salute pubblica, si deve dunque convincere Pechino che Taiwan, sebbene non membro dell’OMS, non può però venire lasciata sola, ma va inclusa nel consesso globale che sta lottando contro il coronavirus.
In sintesi, se la missione dell’OMS è davvero quella di garantire il più alto livello di salute raggiungibile per ogni essere umano, allora essa ha bisogno di Taiwan, proprio come Taiwan ha bisogno dell’OMS.
Infine, non deve passare sotto silenzio il fatto che la scorsa settimana, durante la pausa delle dimostrazioni di piazza seguite alle restrizioni da virus, sono stati effettuati arresti di attivisti anti comunisti nel territorio ancora parzialmente autonomo di Hong Kong, avvenimento che evidenzia come il regime di Pechino stia cercando di trarre vantaggi dalla situazione di blocco sanitario delle attività per inasprire con un giro di vite la repressione minando lo stato di diritto. Una strategia che nel futuro potrebbe minacciare anche Taiwan e la sua democrazia.
Solo Washington e Londra hanno protestato, mentre l’Europa (Italia inclusa) ha utilizzato la strategia del tacere, che sa tanto di «assenso da impaurito».