La società mineraria Pensana Rare Earths si è aggiudicata dal governo angolano una concessione della durata di trentacinque anni per lo sfruttamento per progetto estrattivo di Longonjo, nella provincia di Huambo.
Due settimane prima il Fondo sovrano del Paese africano aveva investito due miliardi di dollari nell’acquisto di una quota societaria di Pensana pari al 4,8 per cento. La concessione prevedrebbe termini fiscali molto favorevoli, incluso un periodo di esenzione dall’obbligo del pagamento delle imposte della durata di due anni.
Sulla base di uno studio di fattibilità preliminare si ritiene che il progetto di Logonjo possa produrre fino a 60.000 tonnellate di terre rare concentrate all’anno, tra le quali figurerebbero 4.600 tonnellate di neodimio e praseodimio, questo a un tasso di sfruttamento novennale.
Entrambi i minerali trovano sempre maggiore impiego in campo industriale, il primo necessità di essere separato dalle altre terre rare dopo l’estrazione, mentre il secondo viene oggi utilizzato quale componente nelle leghe terre rare/cobalto per i magneti permanenti dei motori elettrici brushless (senza spazzole).
Tecnologie «green» e costi pagati alla riduzione di CO₂. Quelli che verranno estratti nella provincia angolana di Huambo sono alcuni dei minerali alla base delle nuove tecnologie cosiddette «green» che dovrebbero trasformare le economie del pianeta riducendone il tasso di carbonio attualmente generato nel corso dei processi produttivi.
Si tratta di elementi ai quali oggi si fa intensivo ricorso nella realizzazione di motori elettrici per autotrazione (electric vehicles, EVs) e turbine eoliche in primo luogo, ma anche di strumenti industriali e sanitari, elettrodomestici e nei settori dell’automazione e della robotica, nonché nelle applicazioni militari high tech.
Essi si rendono necessari per la fabbricazione nei magneti permanenti installati nelle autovetture elettriche e nei motori che muovono le pale eoliche dei generatori di elettricità.
Apparentemente tutto bene quindi, poiché il progresso sta conducendo l’umanità in questa fase di grandi e rapidi cambiamenti, tuttavia, a un’attenta osservazione in controluce di questa entusiasmante prospettiva green si intravede la filigrana delle contraddizioni tra l’energia pulita e gli impatti di natura ambientale, economica e politica.
Minerali sempre più «critici». Con l’avvento della trazione elettrica e il boom della telefonia mobile e dei computer portatili, tutta una serie di materiali che in precedenza trovava un impiego industriale relativamente limitato adesso invece sono estremamente richiesti.
Per restare al caso principe (cioè l’auto elettrica) e a neodimio e praseodimio, si stima che nel prossimo futuro (cinque-sei anni) il gigantesco business che ruota attorno a essi ne incrementerà del 350% il volume della domanda sul mercato; analogamente, nel caso delle turbine eoliche offshore (che necessitano di due tonnellate di magneti rispetto ai due chilogrammi delle autovetture elettriche) dovrebbero far registrare una impennata complessiva della domanda del 1.500% su un periodo di venti anni.
Quindi gli slogan coniati dai “guru” della comunicazione a contratto per le grandi corporation del settore minerario non dicono il falso, poiché: «Per un futuro più verde il mondo avrà sempre più bisogno di neodimio e praseodimio».
Ma non soltanto di quelli, infatti tra le materie prime necessarie alla futura green economy figurano anche rame, litio, cobalto, ferro, manganese e altro, minerali che, per forza di cose, sono destinati alla rarefazione e che per il loro approvvigionamento impongono spesso elevati impatti ambientali nei luoghi di produzione, oltre a non infrequenti forme di sfruttamento intensivo della manodopera.
L’ombra della Cina. Negli ultimi due anni a causa della crescente produzione di veicoli elettrici si è registrato un vertiginoso aumento dei prezzi di questi minerali.
Attualmente si assiste a una progressiva concentrazione del controllo delle fonti di loro produzione nelle mani di imprese della Repubblica Popolare cinese.
Pechino, infatti, nel tempo è riuscita a sottrarre agli Stati Uniti d’America il primato su di esse e oggi controlla l’80-90 della filiera produttiva delle terre rare, una concentrazione di beni quantitativamente limitati in natura, ma dei quali la richiesta sul mercato sarà sempre maggiore.
La politica globale di investimenti è stata pianificata e attuata al fine di acquisire società del settore minerario ed erogare prestiti a quei Paesi in via di sviluppo produttori che hanno ingigantito il loro già notevole debito con l’estero, legandosi però in questo modo indissolubilmente alla Cina.
Le implicazioni di questo stato di cose sono evidenti: oltre all’atteso aumento dei prezzi (che è funzione della domanda), con ogni probabilità buona parte di questa produzione verrà impiegata negli impianti industriali cinesi, quindi non andrà a soddisfare il fabbisogno espresso dal resto del mercato mondiale.
Scenari futuri. Per il 2030 si prevede che nel mondo il parco auto a trazione elettrica raggiungerà i 130 milioni di veicoli, ma gli obiettivi fissati nel quadro della totale decarbonizzazione sono nell’ordine dei 250 milioni di veicoli. Questo, unito al resto della richiesta di materie prime necessarie provenienti da altri settori dell’industria (energie rinnovabili, automazione, eccetera), farà schizzare in alto la domanda di questi «minerali critici» destinati a divenire sempre più scarse.
Se non verranno perseguite logiche diverse da quelle attuali, le modalità di reperimento di questi minerali, che si caratterizzano per l’elevato impatto ambientale, il graduale depauperamento delle risorse naturali e lo sfruttamento del lavoro umano, enfatizzeranno enormemente il contrasto tra la ricerca della salvaguardia dell’ambiente e il progresso tecnologico spinto associato esclusivamente al business declinato nel più intensivo «estrattivismo».