Nelle titolate scuole di giornalismo agli allievi si insegna che «non si inizia mai un articolo con una domanda», tuttavia, nella storia della stampa moderna più di un cronista di strada ha tradotto in quesiti sui propri dubbi negli incipit dei pezzi scritti.
Infatti, questo mondo è estremamente complicato e, al netto del relativismo attualmente in voga, risulta assai difficile comprendere alcuni fenomeni, compresi quelli apparentemente più semplici.
Come nel caso del rinnovato interesse nei confronti del metano, o meglio, delle emissioni di questo gas ritenuto tra i maggiori responsabili del cosiddetto effetto serra in quanto la sua concentrazione nell’atmosfera viene registrata in aumento, a un tasso dell’1% all’anno.
Esso assorbe efficacemente il calore dal sole, più dell’anidride carbonica, e contribuisce in modo significativo al riscaldamento dell’atmosfera, ecco dunque la ragione addotta da coloro i quali ne chiedono a gran voce il suo monitoraggio e la regolazione delle sue emissioni.
Tuttavia, esistono ambienti scientifici nei quali vengono sollevati dubbi riguardo a questa nuova urgente preoccupazione, poiché essi argomentano che, se è vero che il pianeta Terra stia perdendo massa con possibili conseguenze negative sulla sua stessa orbita, è anche vero che fino a qualche anno fa il metano era sul banco degli imputati per il buco dell’ozono a causa degli effetti generati dal suo elevato tasso di acidità – superiore addirittura a quello dei clorofluorocarburi (Cfc) -, ma adesso che da quel buco (almeno teoricamente) dovrebbe disperdersi in quantità maggiori dall’atmosfera nello spazio, essi affermano di comprendere meno l’origine di queste nuove preoccupazioni.
Il pericolo emissioni. Coloro i quali, invece, sollevano il problema, oggi come ieri ricorrono all’argomentazione che il metano rimane in ogni caso uno dei principali gas serra che fungono da “driver” del temuto riscaldamento globale (global warming), battendosi nelle sedi politiche e attraverso campagne mediatiche affinché i decisori pervengano a una soluzione di compromesso che veda la scienza allearsi con l’industria nel quadro di un approccio «responsabile» al problema, questo – affermano – se si vuole mantenere il primato del gas in questa fase, non si sa bene quanto lunga, di transizione energetica.
In questo senso – specificano – anche l’industria dovrà impegnarsi in una serie di investimenti, anche al di là del tema emissivo, al fine di sviluppare nuove tecnologie come il Power to Gas e nuovi gas come il biometano.
Si afferma che, così come nel caso dell’anidride carbonica, il prodotto delle attività umane abbia avuto tra i suoi effetti un incremento della concentrazione di metano nell’atmosfera in volumi e a velocità tali da non riuscire a essere smaltite nel corso dei processi naturali.
L’origine delle emissioni. Le emissioni di metano derivano principalmente da tre distinte fonti: l’agricoltura intensiva e parte della zootecnia, i rifiuti e l’industria delle materie prime energetiche fossili.
Quest’ultima, in particolare, è divenuta l’oggetto principale delle attenzioni dei promotori di questa nuova campagna mirante al contenimento del gas nell’atmosfera.
Essi ne rinvengono la ragione nel fatto che l’Oil & Gas è un settore industriale ormai maturo nel quale, profondendo sforzi relativi in termini di investimenti si potrebbe ottenere un rapido abbattimento dei volumi dispersi e un eventuale loro recupero, questo anche in virtù dei (per la verità scarsamente rispettati) Accordi di Parigi sul clima e dell’Agenda 2020 sull’ambiente.
Il metano è destinato a permanere nel mix energetico del prossimo futuro almeno fino al 2050, tuttavia nel quadro di un graduale decremento del ricorso a fonti fossili e di pari passo al contestuale incremento di quelle rinnovabili, incluse le fonti attualmente allo studio.
«Ogni molecola di metano andata persa è una molecola non venduta» affermano i responsabili dell’Enviromental Defense Fund (Edf), particolarmente attivi nel panorama di enti, organismi e associazioni che in questo momento stanno puntando al rinvenimento di una metodologia che, almeno, consenta una valutazione dei volumi di gas effettivamente dispersi.
Ma in che modo il metano viene liberato nell’atmosfera? E, inoltre, l’ipotesi di una sua proficua commercializzazione è concretamente esplorabile oppure si tratta di una speciosa battaglia di retroguardia?
Nel mirino l’Oil & Gas. Generalmente, al di sopra di ogni giacimento petrolifero è presente uno strato di gas, quindi, quando il giacimento viene sfruttato dalle compagnie petrolifere al momento dell’estrazione della materia prima dal sottosuolo viene liberato del metano, che in assenza di impianti di dissociazione dei cosiddetti «gas associati» viene bruciato, un’operazione che fa risparmiare le compagnie, ma che arreca danni all’ambiente.
In altri casi, quelli dei giacimenti ormai sfruttati ma non del tutto esauriti, esso viene invece re-iniettato nel sottosuolo allo scopo di mantenere elevata la pressione, onde mettere nelle condizioni di salire in superficie anche quelle giacenze di greggio che si trovano nelle nicchie meno accessibili tra le rocce.
Questo a differenza del fracking, tecnologia che presuppone invece una trivellazione «seriale» e a breve distanza l’uno dall’altro dei pozzi allo scopo di estrarre quelle giacenze di materia prima presente a limitate profondità del sottosuolo, anche a soli quaranta metri, raggiungendo nervature rocciose altrimenti difficilmente accessibili.
Ma il «serial drilling» comporta anche una notevole fuoriuscita di metano, gas che nei siti estrattivi degli Usa viene disperso nell’atmosfera, dispersione che, in assenza di realizzazioni dei costosi impianti di dissociazione per il recupero dei gas, comporta che l’unica strada percorribile per mettervi fine sarebbe quella di bloccare del tutto le trivellazioni.
Gas associato e gas libero: i fabbisogni del mercato. Negli Stati Uniti d’America il grosso del gas naturale prodotto va a rifornire gli impianti di elettrogenerazione. L’industria del settore estrae e immagazzina esclusivamente il gas libero (o «gas secco», in inglese dry gas), che però non viene prodotto nei campi del Texas, dove la materia prima è associata al petrolio, bensì nel nordest dell’Unione, per esempio nella zona dei Monti Appalachi, nel Permian Basin.
Ora, a fronte della drastica riduzione dei prezzi di mercato del greggio – che sta precipitando nella crisi il settore e la stessa materia prima come fonte energetica – le forti pressioni esercitate sulle opinioni pubbliche (e di risulta sui decisori politici) finalizzate a un ricorso sempre maggiore alle fonti energetiche alternative, darebbe un senso a questo genere di operazioni «green».
Infatti, il petrolio è una fonte fossile altamente inquinante, inoltre la riduzione dei consumi causata dalla crisi economica indotta dalla pandemia Covid-19 ne ha abbattuto oltremodo i prezzi al barile, quindi adesso oltre a una graduale conseguente riduzione dei volumi estratti, in giro ci sono enormi quantitativi di scorte da smaltire sui mercati nei prossimi mesi (in realtà si parla di almeno due anni).
Questo, però, fa sì che si verifichi un contestuale blocco degli investimenti da parte degli operatori del settore, ma allora riemergono gli interrogativi: in queste condizioni vale davvero la pena impegnarsi in una onerosa impresa di recupero del gas?
L’America spegne la luce. In effetti per gli americani potrebbe valerla, poiché oltre oceano presto il gas potrebbe iniziare a scarseggiare, senza contare che in conseguenza della riduzione delle attività gasiere e petrolifere anche gli impianti di liquefazione del Golfo del Messico (una ventina e molto costosi) sono attualmente poco utilizzati a causa della concomitante crisi del gas naturale liquefatto (Gnl).
Si paventa un effetto domino che potrebbe portare l’America a spegnere la luce: la crisi dei prezzi (quello del greggio ha trascinato giù quello del gas) mette a rischio fallimento le piccole e medie compagnie di estrazione del dry gas, che posseggono scarse risorse rispetto alle big Oil, ma qualora la mannaia del «Chapter 11» calasse su di esse, assieme alle loro attività produttive si arresterebbe anche il rifornimento della rete gasiera che rifornisce gli Usa, non tanto il gas di città quanto le centrali elettriche.
Nel breve-medio periodo si registrerà dunque un decremento delle dispersioni di gas metano conseguente alla riduzione delle attività estrattive del greggio?
Monitoraggio delle emissioni: i satelliti dell’Esa. Le attività di monitoraggio non si sono comunque arrestate, anzi, sono in molti a essersi attivati allo specifico scopo.«
L’Esa (Ente spaziale europeo) ha reso nota la sua disponibilità di un «nuovo importante strumento per combattere il cambiamento climatico mediante l’utilizzo dei dati trasmessi del satellite Copernicus Sentinel-5P», una tecnologia, si afferma, che consente di tracciare e attribuire le emissioni di metano sull’intero pianeta e che, «grazie alla fornitura accurata e in tempo reale dei rilevamenti del metano cambierà profondamente l’indirizzo della politica climatica».
Gli scienziati di Kayrros, start-up francese a elevata tecnologia, hanno sviluppato una piattaforma in grado di monitorare le emissioni di metano su scala globale sfruttando i dati forniti dal satellite europeo Copernicus Sentinel-5P, fusi in fase analitica con altre informazioni ricavate da altre fonti, quali i sensori terrestri e le informazioni assunte dai social media, ma anche dati supplementari delle missioni Copernicus Sentinel-1 e Sentinel-2.
Gli scienziati di Kayrros, start-up francese a elevata tecnologia, hanno sviluppato una piattaforma in grado di monitorare le emissioni di metano su scala globale sfruttando i dati forniti dal satellite europeo Copernicus Sentinel-5P, fusi in fase analitica con altre informazioni ricavate da altre fonti, quali i sensori terrestri e le informazioni assunte dai social media, ma anche dati supplementari delle missioni Copernicus Sentinel-1 e Sentinel-2.
Questi studi hanno dimostrato la simultanea emissione di metano da parte di circa cento siti nel mondo, per la metà derivanti da attività industriali del settore Oil & Gas, siti estrattivi di carbone e altre industrie pesanti, perdite – secondo Jean Bastin, Product Manager di Kayrros – equivalenti al volume complessivo delle emissioni annuali di anidride carbonica di Germania e Francia.
Monitoraggio delle emissioni: l’Edf. L’Enviromental Defense Fund (Edf), che nella giornata di ieri ha dedicato all’argomento un seminario sul web, si pone invece l’obiettivo di aggregare gli stakeholder (portatori di interessi) italiani fornendo loro informazioni di natura tecnico-scientifica al riguardo ricavata da un altro progetto in fase di sviluppo grazie al ricorso ai satelliti.
MethanSAT, operato per il tramite di un’affiliata di Edf, concentra il suo focus sull’Oil & Gas in funzione di prevenzione e controllo. L’auspicio di Edf è che possano incrementarsi e implementarsi i controlli da parte delle stesse imprese industriali interessate dal problema, non per portarle a un’uscita dalla produzione, bensì per condurle verso un abbattimento delle emissioni mediante il ricorso alle più recenti tecnologie attualmente disponibili.
Secondo i responsabili del progetto «la priorità europea dovrebbe essere quella di standardizzare i metodi di raccolta», ad esempio l’IPCC affermano, «che calcola le emissioni di metano in tonnellate in volumi di CO₂ equivalenti», dunque non in un’unità di misura propria. «Un lavoro impegnativo e non necessariamente legato a investimenti – sottolineano – poiché comporta l’acquisizione e l’analisi di dati».
Nel quadro dell’atteso e ancora poco chiaro New Green Deal europeo il “caso metano” forse verrà affrontato mediante una strategia dedicata, della quale potrebbe farsi carico la Direzione Generale del Clima o, più probabilmente, quella dell’Energia, in quanto a essere direttamente investiti saranno gli interessi economici del settore energetico.