intervista di Marco Omizzolo pubblicata da “L’Eurispes” il 7 maggio 2020 – L’Osservatorio agromafie, fondazione il cui comitato scientifico è presieduto da Gian Carlo Caselli, ha realizzato un progetto denominato “Lavoro stagionale – Dignità e legalità” finalizzato a contrastare il caporalato nel lavoro stagionale in agricoltura.
Il progetto, promosso da Coldiretti e Anci e aperto ad altre adesioni, vuole affrontare la situazione di grave vulnerabilità e marginalità nella quale versano molti lavoratori nell’agricoltura, in gran parte cittadini stranieri, a rischio di grave sfruttamento lavorativo.
Sfruttamento che, sostengono ancora Coldiretti e Anci, si riflette anche sulla competitività delle imprese che rispettano le regole e sulle condizioni di lavoro anche del non migrante.
Il lavoro stagionale è parte cospicua del lavoro in agricoltura ma l’impossibilità di realizzare l’incontro concreto e reale tra domanda e offerta, secondo l’elaborazione del progetto, pur in una situazione in cui l’una e l’altra sono di notevole entità, determina situazioni favorevoli alla diffusione di transazioni illecite gestite dal caporalato e a incrementare la concentrazione di immigrati irregolari in zone spesso già degradate del Paese.
Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi, che è autore e promotore del progetto Coldiretti e Anci, con questa intervista approfondisce i contenuti dello stesso, le riflessioni che lo hanno ispirato e gli obiettivi che esso si pone, toccando tematiche fondamentali come il decreto flussi, la regolarizzazione dei migranti irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale e gli elementi centrali che caratterizzano questa proposta di intervento.
OMIZZOLO – Procuratore, lei è promotore e sostenitore di uno studio elaborato dall’Osservatorio agromafie, denominato “Lavoro stagionale – Dignità e legalità” finalizzato a contrastare il caporalato nel lavoro stagionale in agricoltura. Il tema del lavoro irregolare, dell’intermediazione illecita (caporalato) e del grave sfruttamento lavorativo continua ad essere centrale nella riflessione politica, culturale e sociale del Paese. Secondo il sesto “Rapporto agromafie” realizzato da Eurispes e Coldiretti, ad esempio, il volume d’affari complessivo annuale delle agromafie è arrivato a 24,5 miliardi di euro con una crescita che sembra non risentire della stagnazione dell’economia italiana e internazionale, immune alle tensioni sul commercio mondiale e alle barriere poste alla circolazione delle merci e dei capitali. Nel contempo e prima di entrare nel merito della proposta e della sua articolazione concreta, si tratta di un progetto che può avviarsi già in questa fase pandemica oppure è necessario attendere il superamento di quest’emergenza?
SALVI – La proposta che l’Osservatorio agromafie ha elaborato, insieme alla Coldiretti e all’Anci, non ha possibilità di reale applicazione nella fase pandemica nella quale ci troviamo, proprio per come essa è strutturata. Il nostro progetto, che abbiamo non a caso denominato “Lavoro stagionale – Dignità e legalità”, presuppone una situazione di normalità e ha come scopo una programmazione stabile dell’incontro tra domanda ed offerta, che non è pensabile in fase emergenziale.
Durante questa pandemia i meccanismi che abbiamo individuato e articolato sono più complessi e sofisticati rispetto alle urgenti necessità, imposte dalla pandemia. Non credo quindi che vi siano oggi le condizioni per praticare il nostro progetto.
Dalla mia esperienza maturata in oltre dieci anni di attività di ricerca sul campo con riferimento alla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici migranti, stagionali e non solo, nelle campagne del Paese, emerge, soprattutto in questa specifica fase, l’urgenza di politiche coraggiose che sappiano tenere insieme i diritti fondamentali degli uomini e delle donne residenti in Italia con l’esercizio concreto di quei diritti, anche per tutelarsi meglio dalla pandemia. Sulla base della sua lunga esperienza, del ruolo autorevole che ricopre oggi quale Procuratore Generale della Corte di Cassazione e dello studio che ha trovato espressione nel progetto avanzato con Coldiretti e Anci, che cosa ritiene urgente che il Governo faccia per affrontare il tema dei diritti dei migranti e in particolare di coloro che vivono condizioni di sfruttamento lavorativo e, nel contempo, di irregolarità per l’assenza del relativo permesso di soggiorno?
Considerando l’emergenza sanitaria e i suoi riflessi non marginali sull’economia, l’unica strada ragionevole percorribile credo sia la regolarizzazione, senza altre condizioni, degli immigrati presenti sul territorio nazionale.
Questa mia considerazione deriva da una serie di riflessioni. In primis, dal fatto che non è prevedibile almeno per un altro anno circa che si possa avviare la riapertura dei canali dei flussi migratori, anche con il re-ingresso, che è invece quello che sostanzialmente proponiamo con il nostro progetto, mediante il meccanismo di intermediazione assistita dalle grandi organizzazioni datoriali nell’incontro tra domanda e offerta individuale.
La fase pandemica attuale costituisce uno spartiacque di cui non possiamo non tenere conto e impone di capire se le trasformazioni che essa determinerà dopo il suo superamento ne consentiranno ancora l’attuazione.
Quale capacità di assorbimento di domanda avrà il mercato del lavoro e come si riarticoleranno, di conseguenza, le relazioni tra le parti?
Come inciderà sui flussi migratori?
Al momento, e cioè con la pandemia in corso, essa certamente non lo è, ma potrebbe ritornare ad esserlo come ordinaria gestione pubblica dei flussi, attualmente lasciata alle scelte del mercato e in particolare al mercato criminale dei trafficanti di persone, e alla casualità.
Nella proposta che Lei avanza, un aspetto specifico risulta particolarmente interessante, anche per un’evidenza critica che raramente viene denunciata. Tale aspetto riguarda il “sistema quote” che, dall’analisi che Lei avanza, viene considerato del tutto inefficace. Personalmente, concordo con questa tesi. Durante il mio lungo percorso di ricerca ho potuto seguire un trafficante di esseri umani indiano fino nel Punjab indiano, indagando, monitorando e riflettendo sul complesso sistema di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo che in quel caso specifico veniva messo in campo per importare manodopera straniera in Italia per poterla poi sfruttare nelle campagne in attività bracciantili di varia natura. Da quest’esperienza emergono almeno due considerazioni. In primis, il sistema di tratta vede ancora una volta il connubio criminale tra il trafficante, alcuni criminali italiani che reclutano, mediante l’attività del trafficante straniero, manodopera da impiegare nell’ambito delle loro attività imprenditoriali secondo le proprie esclusive convenienze, e infine alcuni liberi professionisti che agevolano e concorrono a nascondere queste pratiche criminali spesso nelle pieghe delle procedure formali. In secondo luogo il fatto che molti lavoratori indiani trafficati giungono in Italia mediante il sistema quote, ossia con un regolare biglietto aereo, rispettando la normativa nazionale in materia e godendo di una serie di “servizi” che il trafficante è in grado di garantire loro grazie al suo network criminale. Tuttavia quei lavoratori stranieri restano vittime di tratta, maturano col trafficante e il suo “clan” debiti che ripagano con grande difficoltà e a fronte di numerosi sacrifici e restano incastrati in un sistema che ne prevede il massimo sfruttamento. Ciò significa che il sistema quote, per come è organizzato, non garantisce trasparenza e legalità ma, in alcuni casi, può addirittura suo malgrado fungere da schermo per traffici di esseri umani dedicati allo sfruttamento nelle campagne italiane…
I decreti flussi non hanno mai funzionato quale meccanismo virtuoso per fare incontrare la domanda e l’offerta di lavoro. I decreti, peraltro, non vengono emanati ormai da molto tempo, se non nella forma della stantia ripetizione di piccole quote, prive di qualunque fondamento nella effettiva analisi della domanda e che sono per questo privi di qualunque reale contenuto.
Nel progetto che proponiamo si fa esplicito riferimento al fatto che il sistema delle quote, avviato nel Testo unico sull’immigrazione del 1998 (D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 – c.d Turco-Napolitano) e modificato in senso restrittivo dalla legge 30 luglio 2002, n.189 (Bossi-Fini), si è rivelato in realtà del tutto inadeguato.
Sin dall’origine, infatti, mancava un meccanismo che si adeguasse alla realtà dell’incontro tra domanda e offerta. A ciò si aggiunga il progressivo abbandono della stessa individuazione delle quote, tanto che la Conferenza che avrebbe dovuto, ai sensi dell’art. 21 del T.U., produrre il documento programmatico e stabilire le quote sulla base di un lavoro di analisi specifica non ha più prodotto alcun risultato.
Il decreto-flussi, di conseguenza, è privo di supporto conoscitivo e programmatico ed è stancamente ripetitivo di quello precedente e per di più viene emanato tardivamente e, dunque, senza concreti effetti. Non si deve trascurare che esso è un sistema fondato sull’azione individuale e come tale l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non poteva realizzarsi correttamente, tranne forse che per le badanti provenienti in particolare da alcuni paesi dell’Est Europa.
Per il lavoro in agricoltura e altrove, invece, l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, sotto forma di richiesta specifica da parte del datore, richiede lo svilupparsi di una condizione fondamentale che è la fiducia, ossia la conoscenza pregressa tra le parti, quindi tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il mancato funzionamento dei decreti flussi ha esposto il Paese a molte contraddizioni, consentendo lo sviluppo e la tolleranza sostanziale di un mercato parallelo e illegale.
Questo mercato illegale è quello che ha consentito ad alcuni settori dell’agricoltura e ad alcune imprese di sostenere la concorrenza internazionale, senza scegliere strade di innovazione e miglioramento produttivo.
Vi sono delle eccezioni, che si riferiscono ad alcune etnie di immigrati per le quali si sono già sviluppati rapporti pregressi di ambiente come, ad esempio, per gli indiani sikh con riferimento in particolare all’allevamento del bestiame, tanto da svolgere un lavoro fondamentale in alcune aree del Paese anche per la produzione di eccellenze tipiche del Made in Italy note in tutto il mondo.
Questa eccezione conferma la regola, perché basata sulla fiducia creata dalla rete di conoscenze, a sua volta resa effettiva dalla particolare predisposizione culturale che induce i lavoratori che provengono da quelle regioni a svolgere quel lavoro con grande professionalità; in altre parole, ha funzionato il meccanismo del “passaparola” tra le famiglie, sviluppando e rafforzando una catena migratoria internazionale a questo scopo orientata.
Per il resto dei casi il sistema immaginato e normato è risultato totalmente inefficace. Per questa ragione la nostra proposta si fonda innanzitutto sull’obiettivo di rendere il decreto flussi effettivamente funzionale, attraverso la disponibilità delle grandi organizzazioni datoriali e anche sindacali, se lo dovessero ritenere, a svolgere questa funzione di intermediazione, che peraltro è consentita dal legislatore, e di garantire quindi l’incontro fondamentale e trasparente tra domanda e offerta, basato sulla reale conoscenza del mercato del lavoro in ogni diversa situazione locale e persino imprenditoriale.
Il dato politico significativo è che la proposta non è un libro dei sogni di qualche ben intenzionata organizzazione non governativa, ma è la richiesta della più grande organizzazione di imprenditori agricoli d’Europa e insieme dell’associazione dei Comuni italiani, cioè dei rappresentanti di coloro che vivono l’immediato riflesso della illegalità nelle transazioni di lavoro.
Al tempo stesso, la proposta costituisce una reale possibilità di sanare almeno in parte la piaga delle presenze di immigrati irregolari che già si trovano in Italia e che, privi di ogni speranza di vita integrata e legale, non possono che costituire la base dello sfruttamento illegale e dunque della insicurezza collettiva. Obiettivo è il superamento di ogni possibile intermediazione illegale, quando non addirittura criminale, che sull’inefficienza del sistema attuale lucra in termini economici sulla pelle di migliaia di persone.
Questa ultima condizione è da considerare essenziale. La cosa importante è dunque regolarizzare le migliaia di lavoratori impiegati “in nero” in molte aziende agricole italiane e privi di regolare permesso di soggiorno. Non si possono in tal senso indicare cifre esatte per le caratteristiche stesse del mercato illegale che le rende incerte.
Si tratta comunque di una percentuale importante dell’occupazione complessiva, per uomini e donne che potrebbero essere, se regolarizzati e seguiti dalle organizzazioni datoriali, inseriti regolarmente nel mondo del lavoro. Sotto questo profilo, l’emersione di questo processo mediante la disponibilità innanzitutto di Coldiretti di favorire l’incontro tra domande e offerta senza che vi siano sanzioni penali o amministrative per il datore di lavoro che si impegna in tal senso è, secondo me, di fondamentale importanza.
Un secondo punto che mi pare caratterizzare la sua proposta riguarda l’impegno previsto di sottrarre al “caporale” la sua funzione di prestatore di servizi o di collettore tra le esigenze dell’imprenditore e quelle dei lavoratori, a partire dal trasporto e da una serie diffusa di servizi connessi. Quando ho lavorato come infiltrato nelle campagne pontine al seguito di numerosi “caporali” indiani e vari datori di lavoro italiani, ho potuto notare il ruolo complesso del “caporale” che offre servizi ai braccianti non solo in termini di connessione con alcune aziende agricole ma anche per i servizi che riesce a garantire mediante le sue relazioni a partire dal trasporto, la vendita del cibo e dell’acqua, ma anche servizi più sofisticati come l’intermediazione per offrire posti letto ai suoi sottoposti, raccomandazioni procedurali o servizi più avanzati per il rinnovo del permesso di soggiorno. Intervenire sul ruolo complesso del “caporale” prestatore di servizi perché si spezzi la sua relazione con il datore di lavoro e anche, credo, con parte della pubblica amministrazione locale e con alcuni liberi professionisti, è fondamentale.
Il secondo punto di fondo della nostra proposta riguarda esattamente la condizione fondamentale per realizzare questo progetto, ossia che ci si possa effettivamente sostituire al “caporale” sotto i due vantaggi ulteriori che egli è in grado di offrire, oltre a quello di favorire, l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.
Il primo riguarda l’offerta di servizi fondamentali come, ad esempio, il trasporto sul posto di lavoro dei lavoratori stranieri, la proposta di cibo che viene offerta ai lavoratori nei campi durante la loro pausa di lavoro, la garanzia di riportare i lavoratori nei loro domicili e così via.
Il secondo punto prevede l’esenzione, per il datore di lavoro, degli oneri contributivi e finanziari derivanti dalla regolarizzazione del lavoratore immigrato, precedentemente non assumibile ma impiegato in modo irregolare. La “socializzazione” di una parte di questi costi, grazie anche all’intervento di Anci e all’utilizzo dei fondi Pon, abbassa di fatto il costo di lavoro per il datore e rende conveniente il lavoro regolare.
È importante sottolineare che ciò non comporta salari più bassi per gli immigrati rispetto ai lavoratori italiani e nemmeno che si aggiri la contrattazione sindacale, che avrebbe invece un ruolo fondamentale per rendere possibile questa articolazione della retribuzione complessiva.
Si tratta di una proposta che incentiva la regolarizzazione e la rende conveniente. I due aspetti cui ho fatto cenno vanno risolti entrambi per rendere competitivo il lavoro regolare rispetto alla concorrenza di quello irregolare sia sul piano nazionale che internazionale.
Per questa ragione, con l’aiuto di Anci (e questo è il secondo grande passo politico del progetto), vengono garantiti i trasporti dedicati ai lavoratori per portarli dal luogo di loro domicilio o di reclutamento verso quello del lavoro.
Questo significa che non ci si limita, si badi bene, a prevedere semplicemente una corsa in più di qualche linea di trasporto urbana ma trasporti dedicati verso il luogo di lavoro dal luogo di raccolta del lavoratore.
L’Anci mette poi a disposizione di questo progetto la grande esperienza di utilizzo del patrimonio immobiliare esistente e delle proposte di ripopolamento di borghi. Il ruolo dell’Anci è fondamentale, soprattutto grazie ai fondi dei Pon dedicati (come Sicurezza o Legalità) coi quali organizzare e avviare un trasporto dedicato e un housing sociale specifico per i migranti regolarmente soggiornanti in Italia e regolarmente impiegati nelle varie fasi dell’attività di cui l’imprenditore agricolo ha necessità.
Alcune esperienze sono già in corso di sperimentazione in territori in cui il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento lavorativo nelle campagne è molto diffuso. Penso alla Regione Lazio che ha sperimentato un progetto analogo e che sta dando risultati altalenanti. L’organizzazione di questi progetti è fondamentale per riuscire ad intercettare le reali esigenze dei lavoratori e superare il ruolo preponderante e in alcuni casi ancora fondamentale del “caporale” e infine per spezzare il suo legame di interesse con il datore di lavoro sfruttatore o criminale. Come si prevede di finanziare, progetto che proponete, l’insieme delle iniziative che avanzate?
Il finanziamento è una parte centrale del progetto “Lavoro stagionale – Dignità e legalità”. Si prevede infatti che una parte del salario venga socializzato. È una proposta innovativa e partecipativa.
Si tratta, nello specifico, della quota per il trasporto, l’housing sociale e, nel caso, anche il cibo necessario a fronte, per quest’ultima opzione, di un accordo puntualmente previsto.
Peraltro, avendo noi discusso innanzitutto con il principale centro studi del sindacato in Italia, l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, delle cui esperienze il nostro lavoro si è molto giovato, abbiamo compreso che è possibile rinegoziare su base contrattuale locale non la parità salariale, che non può essere messa in discussione e resta in tal senso centrale nella relazione contrattuale, ma il peso nella retribuzione dei servizi offerti, così determinando la sua socializzazione quale ulteriore tratto caratteristico del progetto proposto con la Coldiretti.
Ciò è giustificato anche dall’esperienza maturata nel corso degli anni, sapendo perfettamente che in agricoltura la semplice defiscalizzazione a vantaggio del datore di lavoro che assume non porta benefici sostanziali.
Sotto questo profilo, quindi, il progetto prevede l’intermediazione di Coldiretti nella formazione del rapporto di lavoro sulla base della sua capacità di individuare localmente la possibilità di collegare più periodi di stagionalità lavorativa in maniera da garantire i nove mesi di lavoro massimi concedibili ai lavoratori stranieri regolarizzati e assunti. A questo si collega la socializzazione di una parte del salario a vantaggio sia del lavoratore sia del datore di lavoro.
Esiste infine una terza caratteristica del progetto…
La terza e ultima fondamentale caratteristica del progetto, peraltro già concordata con il ministro degli Esteri, prevede che il lavoratore straniero che svolge alcuni periodi stagionali di lavoro in agricoltura in Italia ottenga già il permesso di soggiorno di ritorno, se accetta la condizione attualmente prevista dalla legge per ottenere un nuovo visto di ingresso: il ritorno nel paese di provenienza.
L’innovazione è che il lavoratore, cessato il periodo massimo di permanenza autorizzata, accetta di ritornare per un periodo di tre mesi nel paese di provenienza, ma avendo già ottenuto il visto di reingresso, a seguito della pattuizione di successivi periodi di lavoro stagionale, garantiti dalle organizzazioni quali Coldiretti.
Per molti lavoratori stagionali questa è una condizione accettabile, in attesa che i rapporti di lavoro si trasformino in rapporti a tempo indeterminato.
La proposta che avanza sembra ritagliata per i “migranti economici” mentre non può riguardare i “migranti forzati”. Questi ultimi rischiano in questo paese, invece, di restare ai margini, ghettizzati e potenzialmente sfruttati da “caporali” e sfruttatori che offrono loro piccole opportunità di guadagno per gravi impegni lavorativi. Un recente dossier di Amnesty International (I sommersi dell’accoglienza) rileva e denuncia esattamente questo problema con riferimento in particolare agli effetti sociali determinati dall’approvazione del cosiddetto “Decreto Salvini” ossia la Legge 132/2018. Quale è la sua opinione a riguardo?
È certamente vero che la proposta progettuale di intervento elaborata non può riguardare i richiedenti asilo – i quali ovviamente non possono tornare nei loro paesi di origine ma hanno necessità di restare in quello di accoglienza per esigenze legate alla loro stessa sopravvivenza – ma solo per i “migranti economici”.
Si tratta peraltro di una proposta che trova corrispondenza nei desiderata di molti migranti economici e che risolverebbe molti altri problemi.
Quindi della possibilità di tornare nel loro paese di origine dopo aver accumulato un capitale derivante da attività lavorativa regolarmente retribuita in Italia, avendo già in possesso il visto di ingresso per il nostro paese per un periodo di lavoro stagionale regolare fino a quando non si riesce a trasformare il lavoro a tempo indeterminato. È quindi un progetto articolato e che può andare bene solo se non c’è il Covid di mezzo.
Rispetto invece alla legge 132/2018, ossia a quella norma comunemente ricordata come “Decreto Sicurezza”, è evidente che la marginalizzazione diventa essa stessa fonte di insicurezza.
Certamente la normativa espone migliaia di beneficiari della ex protezione umanitaria ad una marginalità che potrebbe rafforzare l’attività di reclutamento dei “caporali” e questo costituisce un problema rilevante.
Una parte di questa popolazione marginalizzata ed esclusa può giovarsi del progetto di cui discutiamo. Ma deve essere ben chiaro che esso non ha la pretesa di risolvere la questione migratoria.
Si tratta, invece, di un tentativo di contribuire ad alleviare le condizioni inaccettabili in cui vivono decine di migliaia di persone e persino di aiutare gli imprenditori ad uscire dalla trappola della illegalità come rimedio alla concorrenza.
Se si riuscisse a ripristinare canali legali di ingresso del migrante economico e a sanare la situazione di coloro che sono già in Italia, avremmo fatto un bel passo avanti e francamente ne sarei già contento. Va anche sottolineato che fino a quando si continua ad utilizzare la normativa per i richiedenti asilo per supplire alle politiche inesistenti di ingresso legale nel territorio dello Stato per ragioni economiche, la situazione non solo scarica sulla magistratura compiti di supplenza che non dovrebbe avere ma si determina anche un danno gravissimo per i richiedenti asilo.
Siccome, infatti, le risorse non sono inestinguibili, se le si destina non a chi ha veramente bisogno, perché fugge davvero da una situazione di reale pericolo, allora il sistema entra in crisi.
Questa è la gravissima conseguenza della mancanza di politiche efficaci e adeguate di regolamentazione dei flussi migratori e della supplenza che viene svolta dalla magistratura attraverso la forzatura degli strumenti della protezione internazionale.
Il progetto si concentra in particolare su tre territori: Latina, Saluzzo e Foggia, in rappresentanza di territori che comprendono tutto il Paese, in qualche modo superando lo stereotipo – come anche il Rapporto Agromafie dell’Eurispes ha sottolineato – il pregiudizio secondo il quale i fenomeni di grave sfruttamento e di “caporalato” sarebbero circoscritti solo ad alcune aree del Meridione ed espressione di un’agricoltura arretrata e marginale. In realtà, il fenomeno è molto articolato, complesso, diffuso lungo tutta la filiera agroalimentare con intensità e modalità ogni volta differenti. Si tratta di modalità e di interessi criminali che spesso coinvolgono o vedono la partecipazione altrettanto criminale di molte organizzazioni mafiose, sia italiane che straniere. Rispetto ai territori indicati, si tratta di aree tra loro molto diverse, che praticano agricolture differenti e impiegano manodopera diversa e con modalità variamente articolate. Voglio ricordare (per specificare la dimensione e la gravità di ciò di cui stiamo discutendo) che appena il 23 aprile scorso e per merito della Questura di Latina, nelle campagne dell’Agro pontino e precisamente nel Comune di Latina, sono stati arrestati due imprenditori e due caporali che, secondo l’accusa, sfruttavano in modo estremo oltre cento braccianti: peraltro, i braccianti erano indiani e bangladesi ma anche africani e nello specifico richiedenti asilo, e anche italiani comprese molte donne. Ciò dimostra, ancora una volta, quanto questo fenomeno sia diffuso e coinvolga non solo piccole aziende in difficoltà ma anche aziende di rilevanti dimensioni con fatturati milionari.
I territori di Latina, Saluzzo e Foggia sono stati individuati sulla base delle caratteristiche specifiche che esse hanno sviluppato e che possono essere considerate paradigmatiche.
È certamente vero che ve ne sarebbero state molte altre, altrettanto significative, come ad esempio Rosarno, alcune aree della Sicilia che pure secondo me bisognerebbe attentamente esaminare perché presentano caratteristiche ancora diverse, con riferimento, ad esempio, a una agricoltura di qualità molto differenziata.
L’area di Latina e del Sud Pontino ha il grande vantaggio che presenta più profili che consentono di comprendere la complessità del fenomeno e di poter sperimentare in modo corretto le proposte avanzate con il progetto in questione.
Soprattutto nell’area pontina si può monitorare, studiare e agire sull’intera filiera del lavoro stagionale, articolata in più fasi, dalla produzione alla distribuzione.
Affrontare in modo completo il fenomeno criminale delle agromafie e dello sfruttamento lavorativo, a mio parere, significa indagare e agire sulla dimensione dello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici stagionali ma anche sulle strutture commerciali che possono essere definite di “sistema” della filiera agroalimentare e dunque per alcuni versi anche delle agromafie. Penso ai grandi mercati ortofrutticoli e in particolare a quello del comune di Fondi, di Vittoria e di Milano, alla grande distribuzione organizzata la cui dimensione e articolazione sono senza alcun dubbio internazionali, alla logistica e a tutti i meccanismi di sofisticazione, alterazione e speculazione sul Made in Italy che compongono il sistema dell’Italian sounding.
Nel nostro progetto l’idea di intervenire sull’intera filiera, compresi i mercati ortofrutticoli, è già presente e prevista. In realtà, non è immaginabile però che anche questo meccanismo possa essere risolto se non si affronta il problema della distribuzione e prima ancora dell’avvio ai mercati dei prodotti ortofrutticoli.
L’idea di Coldiretti è quella di arrivare al cosiddetto “prodotto certificabile di legalità” che potrebbe avere una forte richiesta anche a livello europeo. L’Unione europea già chiede all’Italia di certificare il prodotto affinché non vi siano interruzioni di legalità nella catena.
Ci si può così presentare sui mercati internazionali con un prodotto certificato, dall’origine al consumatore, attraverso passaggi ben definiti.