CULTURA, narrativa. “Il rogo nel Porto”, di Boris Pahor

Nel romanzo, attraverso gli occhi di due bimbi della minoranza slovena di Trieste viene rivissuto l’incendio del Narodni Dom, attacco che, secondo lo storico Renzo De Felice, rappresentò «il vero battesimo dello squadrismo organizzato». Di quelle violenze a breve ricorrerà il centenario

«Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere (…) gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco. Ballavano armati di accette e manganelli».

Con gli occhi di Branko ed Evka, due bambini di origine slovena che crescono nella Trieste del primo dopoguerra, Boris Pahor ripercorre con l’arte del racconto uno dei capitoli più drammatici della storia europea del novecento.

In una città uscita divisa dalla Prima guerra mondiale, in cui Italiani e slavi si guardano con diffidenza, Branko ed Evka crescono tra i giochi e le paure dei loro coetanei, immersi nelle lingue e nelle culture della Mitteleuropa.

Finché, il 13 luglio del 1920 le squadracce fasciste incendiarono la Casa della cultura slovena di Trieste, il Narodni dom.

Iniziò così la caccia allo straniero, e anche i giochi dei bambini dovettero mutare.

 

Il rogo nel porto, di Boris Pahor, casa editrice La nave di Teseo, collana Gli squali, traduzione di Mirella Urdih Merkù, pagine 36, prezzo euro 1,99

 

Al riguardo, di seguito viene riproposto un breve cenno storico relativo alla minoranza slovena in Italia. Si tratta di un capitolo tratto dal romanzo storico “Accadde al confine: storie di Giovanni Postal e Udo Grobar. Gli eventi che sconvolsero le tranquille quotidianità di uomini dai destini più grandi di loro”, di Gianluca Scagnetti; il capitolo è “Quello slavo che lavorava con i morti”.

In quel drammatico pomeriggio d’estate del 1991 il sessantottenne Udo Grobar, non avrebbe potuto immaginare che sedici anni più tardi, nel medesimo luogo, la frontiera tra Italia e Jugoslavia non sarebbe più esistita e che si sarebbe addirittura potuto attraversare quel confine non più militarizzato senza neppure esibire i documenti alle guardie.

In parallelo alla drammatica e per certi aspetti grottesca vicenda del necroforo in pensione che voleva recuperare a tutti i costi la sua vecchia autovettura, i combattimenti in Slovenia si inquadravano perfettamente nella fase storica che vide l’abbattimento delle barriere confinarie erette dagli uomini, che per anni erano parse immutabili, irrevocabilmente fissate nel tempo.

Cessata la breve “Guerra dei dieci giorni” che portò Lubiana all’indipendenza, altri disastrosi conflitti sarebbero presto esplosi nel resto della Jugoslavia.

Per molti di quelli della generazione di Udo, che a cavallo o a ridosso della frontiera erano nati e vissuti, la caduta di quest’ultima oltre che un evento epocale avrebbe costituito anche una rivoluzione di natura culturale.

Il 23 dicembre 2007, giorno seguente le solenni celebrazioni di Rabuiese per l’ingresso della Slovenia nell’Area Schengen, nell’editoriale pubblicato sul quotidiano triestino “Il Piccolo”, Sergio Baraldi notò che al mutamento storico avvenuto avrebbe dovuto seguirne uno culturale e che solo in questo modo, poi, la nuova realtà avrebbe potuto essere metabolizzata dalla gente.

Il tempo nuovo trascina con sé una nuova logica ed è con essa che Trieste e Gorizia dovranno misurarsi…» Baraldi, riferendosi ancora all’abbattimento dei confini, aggiungeva poi che: «Le diversità culturali e i conflitti di valori attraverseranno la società in modo trasversale (…) e il nuovo rapporto con «l’Altro», cioè con l’universo slavo, sarà imperniato sulla competizione-collaborazione, rafforzando così la possibilità di scongiurare gli scontri profondi del passato.

Nell’euforia collettiva fatta di discorsi ufficiali, brindisi, sorrisi e fuochi pirotecnici, sia dentro che fuori l’enorme tendone bianco allestito appositamente per la cerimonia, nessuno perse l’occasione di ricordare che si stava vivendo un evento epocale foriero di grandi mutamenti.

I protagonisti delle giornate dell’indipendenza slovena del 1991 convenuti a Rabuiese avevano ormai tutti i capelli bianchi, a cominciare dal premier sloveno Janez Janša.

Lo stesso uomo che durante la guerra aveva ricoperto la carica di ministro della difesa, presentandosi alla stampa vestito dell’uniforme mimetica e con la pistola nella fondina.

Nel tendone di Rabuiese, Janša rammentò a tutti l’importanza del sacrificio e dell’abnegazione degli uomini della Difesa territoriale e della polizia slovena nel cammino verso l’indipendenza.

Poi si rivolse diretto alle minoranze che vivevano a cavallo di quel confine che non esisteva più, affermando che era giunto il tempo per gli Sloveni in Italia e per gli Italiani in Slovenia di una vita senza più confini che li dividessero dalle rispettive nazioni madre e che adesso bisognava cogliere tutti insieme nel modo migliore le nuove opportunità che si presentavano.

Sulla riconciliazione insistette anche il ministro degli esteri di Lubiana Dimitrij Rupel, riferendosi a quella terra dove ancora aleggiavano i ricordi di una storia fatta di dolori, esodi e crimini di massa.

«Credo che ora dobbiamo parlare di riconciliazione – dichiarò infatti in quell’occasione Rupel -, anche se negli ultimi tempi avete potuto notare come ci stiamo occupando meno di quello che ci ha riservato la storia e siamo più orientati al futuro. E questo è molto significativo, soprattutto per le giovani generazioni. La mia generazione è ancora afflitta da questi ricordi e dai drammi che ne sono scaturiti e proprio per questo oggi siamo noi a essere forse più felici dei giovani, ai quali tutto questo sembra assolutamente normale».

Al netto della retorica ufficiale espressa in quella straordinaria giornata, se quella mattina Udo si fosse trovato a Rabuiese e avesse ascoltato i discorsi pronunziati dalle varie personalità si sarebbe sentito sicuramente chiamato in causa.

Egli infatti era un cittadino italiano della minoranza slovena nato e vissuto proprio a ridosso della frontiera che per anni lo aveva parzialmente diviso dalla sua nazione madre, anche se personalmente questo problema lo aveva segnato meno che ad altri, perché non aveva incontrato grosse difficoltà di inserimento quando viveva a Trieste.

Se gli capitava di divenire oggetto di pregiudizi o luoghi comuni sugli sloveni, se li faceva scivolare via di dosso. Era un uomo semplice, al quale bastava lavorare e vivere in pace con la propria famiglia.

Al contrario di altri della sua minoranza, non soffriva minimamente a causa del processo di rarefazione demografica degli Sloveni e neppure per la perdita delle radici culturali, che in quegli anni era divenuta sempre più marcata.

Fortunatamente, col passare del tempo pregiudizi e prevenzioni hanno subìto un’attenuazione, tuttavia qualche incrostazione figlia del passato permane tuttora.

Udo era giunto a Trieste nei primissimi anni Cinquanta, in quel periodo che gli Sloveni definiscono gli «anni bui», quando la comunità, profondamente divisa sul piano ideologico, si sentì definitivamente separata dalla Jugoslavia di Tito.

Quando il sogno era ormai svanito e anche i più convinti jugoslavisti avevano ben compreso che non c’erano più speranze di riunificazione con la vicina “Federativa”.

In generale, per gli Sloveni che vivevano in Italia si accentuarono le difficoltà economiche: parte di chi era in età da lavoro emigrò, mentre i contadini, maggiormente legati alla terra, si aggrapparono a essa e resistettero di più.

Quando Udo, dalla natia Gorizia si stabilì nel capoluogo giuliano, nonostante il boom economico, che però influiva solo marginalmente su una città avviata verso la depressione, le divisioni sociali avevano assunto tratti marcati anche all’interno della sua stessa minoranza.

Alle scuole superiori si iscrivevano soltanto i ragazzi delle famiglie più ricche e i giovani, al pari degli adulti, continuavano a essere catalogati all’interno della società a seconda delle presunte radici ideologiche: quelli di orientamento cattolico-liberale venivano ritenuti a favore dell’Occidente, tutti gli altri invece slavo comunisti, seguendo la falsariga nell’immaginario collettivo che tendeva alla coincidenza del cittadino italiano di lingua e cultura slovena col “titino”.

Al tempo nel quale Udo trovò stabile occupazione presso la cappella mortuaria dell’Ospedale Maggiore, in città e sull’altopiano si registrava ancora una notevole presenza della minoranza, che però in pochi anni avrebbe conosciuto una sensibile rarefazione, al punto che dagli anni Settanta a Trieste non sarebbero più esistite aree a prevalente insediamento linguistico sloveno.

Nella stessa zona popolare di Via Ponzanino, dove Udo risiedette con la sua famiglia, già negli anni Cinquanta gli Sloveni non erano più in maggioranza. Soltanto nei piccoli paesi del Carso riuscivano a conservarsi integre alcune aree popolate totalmente dalla minoranza.

La stessa Opične (Villa Opicina), che oggi di circa diecimila abitanti ne conta quattromila sloveni, con lo sviluppo della vicina città di Trieste ne è divenuta una sua appendice residenziale.

Se un secolo nelle zone della cintura urbana triestina esistevano realtà abitate prevalentemente da Sloveni (Barcola, San Giovanni, Servola, Poggi Sant’Anna/Kolonkovec e Cattinara), con la crescita urbana la compressione esercitata sull’altopiano ha imposto la ricerca di sfoghi di natura residenziale nelle direzioni di Miramare (dove vennero edificate nuove palazzine) e del Carso, dove invece si costruirono case popolari.

Tutto questo mentre il centro storico si andava gradualmente spopolando. L’impetuoso sviluppo fece sì che i vecchi borghi della cintura triestina venissero fagocitati nell’espansione urbana, con l’ulteriore risultato di alterare le preesistenti realtà locali.

A oggi, probabilmente soltanto Prosecco/Prosek, San Dorligo della Valle/Dolina, Sgonico/Zgonik, Monrupino/Repentabor e forse Bazovica/Basovizza, contano ancora una maggioranza di popolazione slovena, mentre a Santa Croce, Trebiciano e Padriciano, sul piano numerico le nazionalità praticamente si equivalgono, ma quasi certamente, nell’arco della prossima generazione in questi stessi comuni non verrà più registrata una maggioranza di Sloveni.

Dagli anni Settanta la consistenza questo gruppo linguistico sull’altopiano è diminuita anche per effetto delle politiche di italianizzazione.

Fino al 1954 si registrava ancora una relativa omogeneità, con la presenza italiana fino all’Isonzo e l’inizio di quella slovena a partire dall’estuario del fiume, dopo Monfalcone e fino a Trieste.

Questa naturalmente è una descrizione di massima, registrandosi infatti frequenti disomogeneità nell’insediamento dei gruppi nazionali, con presenze di sloveni anche sull’altra sponda del fiume Isonzo/Soča.

Da Duino, Sistiana, San Giovanni al Timavo fino a Miramare era forte la presenza slovena, poi a seguito dell’afflusso in massa di profughi italiani provenienti dalla Jugoslavia vennero costruiti i borghi carsici, dove furono insediati parte degli esuli istriani e dalmati, questo anche per evitare che essi si concentrassero tutti a Trieste, generando così possibili fenomeni di instabilità sociale.

I borghi carsici di nuova edificazione vennero aggregati ai vecchi paesi precedentemente popolati in prevalenza da Sloveni. Così, ad esempio, a Sistiana si affiancò Borgo San Mauro e a Prosecco Borgo San Nazario. I nuovi insediamenti vennero realizzati principalmente nella fascia di territorio che del ciglione digrada verso il mare, anche se altrove, come a Padriciano, i campi profughi erano adiacenti ai paesi.

Uno dei risultati di questa operazione fu la irreversibile modifica delle presenze nazionali nelle area, che rese gli sloveni in minoranza anche dove fino ad allora erano invece in maggioranza.

Ad esempio mutava irreversibilmente la situazione nel territorio del comune di Duino Aurisina, dove nel 1945 gli Sloveni erano il 90% della popolazione mentre oggi sono solo il 30%.

Dal 1953 al 1959 circa 25.000 triestini, dei quali 3.000 sloveni, lasciarono la città per emigrare all’estero.  In particolare in Canada e Australia, paesi dove in precedenza si erano stabilite numerose persone (come i cosiddetti «cerini» della Polizia civile) che avevano servito l’amministrazione alleata del Territorio Libero di Trieste.

Alla base dell’emigrazione c’erano anche i timori sulla loro sorte e quella delle proprie famiglie, ma va rilevato che, in ogni caso, le aspettative economiche sul futuro di Trieste non invogliavano certo a restare. La scelta di andar via fu allettata dalla disponibilità dei paesi del Commonwealth a ricevere presto manodopera di razza bianca che fosse in possesso dei rudimenti della lingua inglese.

Gli immigranti ricevevano immediatamente il visto di ingresso per i paesi di destinazione e firmavano con le autorità un ingaggio lavorativo annuale o biennale. Nella provincia di Trieste, che in quel periodo contava 300.000 abitanti, nonostante la partenza di 25.000 persone, il saldo fu egualmente attivo. Infatti l’esodo fu più che bilanciato dall’insediamento nel territorio di circa 80.000 profughi fuggiti da Istria e Dalmazia.

Essi si andavano ad aggiungere alla massa di emigrati giunti dalle regioni centrali e meridionali italiane tra le due guerre mondiali, persone impiegate principalmente nel settore pubblico.

Dopo il suo ritorno a Gorizia, Udo venne da alcuni indicato con malcelato disprezzo come  «lo slavo che lavorava coi morti», nel tentativo di associare il presunto squallore di un mestiere con la sua appartenenza culturale e nazionale. Ma lui, però, parlava il dialetto sloveno delle sue parti, quello dei primorci, solo con la gente della sua minoranza, oppure quando andava poco più là in Jugoslavia, oltrepassando il valico della Casa rossa per risparmiare qualche lira facendo rifornimento di carburante nelle stazioni di servizio della Petrol.

Sia in famiglia, quando viveva a Trieste, che a Gorizia quando rimase da solo, parlò sempre l’italiano. Era anche lui un assimilato come quegli Sloveni che a Trieste fino al 1848 si erano andati assimilando al pari degli altri lavoratori non italiani della città.

Al tempo dell’Austria, infatti, furono in molti a diventare italiani. Il percorso di snazionalizzazione era praticamente obbligato per tutti coloro che desideravano affermarsi in società. Questo malgrado il fatto che nella città giuliana persistesse un forte nucleo di borghesia slovena che non si faceva passare per italiana.

Se si escludevano alcuni livelli apicali della burocrazia e della finanza, storicamente appannaggio dei tedeschi, i centri di potere maggiormente influenti erano nelle mani degli italiani. Al riguardo, non fu un caso che il partito politico più forte a Trieste fosse quello liberal-nazionale.

Intorno al 1860, a seguito del tumultuoso sviluppo della città, parte degli Sloveni che precedentemente avevano lavorato nel settore agricolo, da contadini divennero operai e, poi, col tempo, si inserirono in tutti i settori della società: artigianato, servizi, commercio, ferrovie, eccetera.

All’inizio del XX secolo la comunità slovena espresse elementi della borghesia (burocrati imperiali di elevato livello, avvocati, docenti e altri professionisti), ma contemporaneamente al suo interno si ampliò notevolmente anche il divario sociale, con una conseguente emarginazione delle fasce più povere.

Nel secondo dopoguerra gli Sloveni erano ormai inseriti in tutti gli strati sociali, dalla classe operaia alla borghesia, permanendo comunque sempre una loro forte presenza in particolari settori come le ferrovie, tra i lavoratori portuali, gli edili e nella ristorazione (questa era un particolarità espressa dalla minoranza a Trieste: molti sloveni divennero osti).

Con la progressiva modernizzazione della società, molti dei mestieri tradizionalmente svolti dagli elementi della minoranza andarono scomparendo. Inoltre, per effetto della vasta scolarizzazione, già fin dai  tempi dell’Austria numerosi sloveni erano divenuti insegnanti, maestri di scuola e professori nei ginnasi tedeschi.

Questo anche perché fino al 1945 a Trieste non esistevano scuole superiori slovene, soltanto col governo alleato furono aperti il liceo e gli istituti tecnici e magistrali.

Dopo il ritorno  della città giuliana all’Italia, attraverso l’esercizio di diverse forme di pressioni, frutto non di politiche ufficiali delle amministrazioni pubbliche dello Stato, ma di attività poste in essere da personale permeato da forti sentimenti nazionalisti italiani in servizio presso di esse, questi istituti d’istruzione subirono un ostracismo che tendente al risultato ultimo della snazionalizzazione della minoranza.

Seppure in misura minore, anche Udo Grobar, lo slavo che lavorava coi morti, ricevette la sua razione di confinamento sociale e culturale.

Il necroforo in pensione ritrovò il contatto con la sua minoranza soltanto quando fece ritorno a Štandrež, nella casa che era stata di sua madre, una di quelle frazioni di Gorizia popolate da sloveni, quartieri un tempo borghi e in seguito inglobati dall’espansione della città isontina.

Una minoranza frammentata anche sul piano politico, divisa al proprio interno in due blocchi principali, quello comunista e quello filoccidentale, che a loro volta presentavano ulteriori variegate sfaccettature.

Nel drammatico clima regnante nell’immediato dopoguerra, quando l’unità ideologica dei cittadini italiani di lingua e cultura slovena non consentì loro la possibilità di manifestare marcate sfumature politiche, la prima spaccatura si registrò nel 1947, con la presa di distanze della componente borghese, che seppure a stento faceva ancora parte del fronte unitario.

Sciolti definitivamente i vincoli dell’o con noi o contro di noi, tale componente fondò il partito della Slovenska Demokratična Zveza (Unione democratica slovena), evento alla base del quale non furono estranee le attività del Governo militare alleato e dallo Stato italiano, che posero tra le loro priorità quella della frammentazione del fronte unitario antifascista e filojugoslavo nel quale si riconosceva buona parte della minoranza slovena dei territori di confine del Friuli Venezia Giulia.

Gli sforzi occidentali per la divisione del campo avverso vennero indirettamente corroborati dalla firma degli accordi di pace di Parigi, che, al di là della propaganda di circostanza, fecero comprendere in modo definitivo e senza equivoci a tutti gli attori internazionali che i confini della Repubblica federativa socialista jugoslava, allora ancora aderente al Cominform, non sarebbero giunti a Trieste.

Nel futuro dunque non si sarebbero potute più verificare le condizioni necessarie per una annessione di porzioni di territorio del Friuli Venezia Giulia a vantaggio della Jugoslavia.

Ovviamente tali sviluppi influirono sulla popolazione slovena in Italia, che nella guerra di liberazione aveva combattuto fascisti e tedeschi schierandosi a favore della Jugoslavia di Tito.

Ma questo non bastava, infatti in seguito una seconda frattura in seno alla minoranza si consumò nel 1948 con lo “strappo” di Tito da Stalin.

Si trattò di una profonda spaccatura che divise il Partito comunista, le organizzazioni della minoranza e addirittura alcune famiglie al loro interno. Per vent’anni non venne più recuperata e riflesse i suoi effetti soprattutto sugli sloveni di Trieste.

A quel tempo nella città giuliana esisteva il Partito Comunista del Territorio Libero di Trieste (Pctlt), in sloveno Komunistična partija Svobodnega tržaškega ozemlja e in croato Komunistička partija Slobodni teritorij Trsta, fondato originariamente come Partito Comunista della Regione Giulia, o Komunistična partija Julijske krajine, risultato della fusione delle locali sezioni del Partito Comunista Italiano e sloveno. Il Pctlt era favorevole all’integrazione della regione alla Jugoslavia, ma in conseguenza dello “scisma titoista” venne a trovarsi in netto contrasto con la linea del Pci di Palmiro Togliatti.

A seguito della rottura tra Tito e Stalin e della conseguente risoluzione del Cominform datata 28 giugno 1948, che stabilì l’espulsione dal suo interno della Lega dei comunisti della Jugoslavia, il Pctlt subì il   conseguente distacco della corrente titoista capeggiata da Branko Babič, mentre quella cominformista riuscì comunque a ottenere la maggioranza in seno al Comitato centrale e venne nominato segretario del partito Vittorio Vidali, un ex agente del Comintern rientrato dal Messico.

Babič e i titoisti diedero vita al Fronte Popolare Italo-Slavo (Fpis) e da quel momento il Pctlt fu presente esclusivamente nella Zona A del Territorio Libero di Trieste, mentre nella Zona B (amministrata dalla Jugoslavia) non ebbe agibilità politica, al contrario il Fpis, maggioritario nella Zona B risultò invece minoritario nella Zona A.

Nel 1957, a tre anni dalla definitiva assegnazione della Zona A all’Italia, il Pctlt cessò di esistere assumendo le forme della Federazione autonoma triestina del Partito comunista italiano.

A Trieste dal 1948 al 1955 Vidali fece assumere al Pci posizioni marcatamente anti-jugoslave, operazione che condusse a un marcato processo di assimilazione dei militanti di partito appartenenti alla minoranza slovena.

Per comprendere meglio la realtà di quei giorni può tornare utile una citazione tratta dal libro “Gli anni bui della Slavia. Attività delle organizzazioni segrete nel Friuli orientale”, scritto da Natalino Zuanella e pubblicato nel 1996 dalla Società Cooperativa Editrice Dom di Cividale del Friuli. A pagina 140 vengono illustrati i riflessi negativi sulla minoranza slovena dello strappo di Tito dall’Unione sovietica:

Questo conflitto, che avrebbe dovuto mantenere un carattere squisitamente ideologico, provocò invece un grave danno alla comunità slovena in Italia e coinvolse indirettamente anche le valli del Natisone.

Dopo la rottura con Mosca si aprì in Jugoslavia la caccia ai cosiddetti “cominformisti” (stalinisti) che riempirono per anni le carceri jugoslave e i campi di concentramento creati appositamente per “rieducare” i dissidenti.

Uno dei lager più noti e più famigerati ha funzionato sull’Isola Calva (Goli Otok) e questo nome è diventato uno dei simboli della repressione titoista.

In Italia invece ci fu una campagna di segno opposto. I comunisti italiani, schierati con Stalin, hanno subito iniziato l’epurazione dei compagni dissidenti, di quelli cioè che si erano schierati con il Pcj (Partito comunista jugoslavo) e con il revisionismo di Tito.

In questo gruppo si trovarono coinvolti soprattutto i comunisti sloveni triestini e goriziani che simpatizzavano per Tito e per la nuova “via jugoslava al comunismo”. Anche all’interno degli stessi comunisti sloveni, iscritti nel Pci/Kpi, si verificò una spaccatura: diversi tra di loro preferirono fare una scelta ideologica in favore dello stalinismo e del comunismo mondiale piuttosto che rimanere fedeli a Tito, al quale erano legati fin dal tempo della lotta partigiana.

Arrivarono al punto di esprimere la loro opposizione nei confronti del regime jugoslavo anche con un assurdo boicottaggio delle istituzioni culturali slovene in Italia, compresa la scuola, quasi fossero emanazioni del titoismo e del revisionismo jugoslavo o sloveno.

Allora, diversi comunisti di obbedienza moscovita, per protesta dirottarono i propri figli dalla scuola con lingua d’insegnamento slovena a quella con lingua d’insegnamento italiana e in molte famiglie slovene iniziò, per motivi ideologici e in nome della fratellanza internazionale, quel processo di alienazione linguistica e culturale che prima o poi conduce inevitabilmente alla perdita della propria identità etnica. Il quotidiano in lingua slovena di Trieste “Primorski dnevnik” divenne allora l’organo dei “titoisti” e il difensore del Pcj e del regime jugoslavo (…) Il dissidio ideologico è degenerato in un’opposizione non solo al regime e al partito comunista jugoslavo, ma a tutto quello che poteva avere un legame con la vicina Slovenia (cultura, tradizioni e lingua).

Dunque, nel boicottaggio della lingua e della cultura slovene, considerate anche come strumento per propagandare le idee revisioniste e per risvegliare nelle popolazioni la coscienza etnica, furono coinvolti nel 1948, non solo nazionalisti locali, i missini, gli ex fascisti, i repubblichini e frange del clero friulano, ma buona parte delle cosiddette forze progressiste, rappresentate dai comunisti “italiani” delle valli del Natisone.

La componente cominformista della minoranza slovena godeva del sostegno di buona parte della base popolare, ma non possedeva di sufficienti strumenti istituzionali per la diffusione della propaganda.

Per supplire a tale carenza venne tentata l’operazione editoriale del “Delo” (Il lavoro), una pubblicazione che nelle intenzioni avrebbe idealmente dovuto ricollegarsi all’omonima testata fondata dai comunisti della minoranza slovena nel 1921 a Trieste.

A partire dal 1955, i titini pro-jugoslavi si aggregarono intorno alla Neodvìsna Socialistična Zveza (Nsz), l’Unione socialista indipendente, ma in ogni caso la ferita provocata dalla spaccatura iniziò a rimarginarsi soltanto dopo il 1962, quando la stessa Nsz decise di sciogliersi lasciando ai propri elettori la libertà di voto.

Lo fece però con un indirizzo di massima verso il Pci, il Psi o la Slovenska Skupnost, cioè l’Unione Slovena, formazione politica che sarebbe sorta di lì a poco dalla fusione di varie organizzazioni politiche anticomuniste della minoranza attive in territorio italiano.

Le due anime fondamentali della Slovenska Skupnost provenivano dalla precedente esperienza del Sdz ed entrambe avevano collaborato a vario titolo con i militari alleati del Tlt.

Una di esse, quella “goriziana”, fece riferimento all’avvocato Avgust Sfiligoj, antifascista condannato dai tribunali speciali del regime, che nel dopoguerra diede vita all’organizzazione politica nella sua provincia.

L’altra era quella presente e attiva nell’area di Trieste, riconducibile al professor Anton Kacin, slavista, traduttore e saggista, considerato tra gli esponenti di maggiore rilievo della minoranza, personaggio che contribuì alla rinascita delle scuole slovene del Litorale che erano state soppresse nel 1923 dalla riforma Gentile.

Sia la componente di Sfiligoj che quella di Kacin fornirono sostegno agli esuli sloveni anticomunisti fuggiti dalla Jugoslavia, tra i quali figuravano anche alcuni sacerdoti della chiesa di Lubiana che durante il conflitto avevano appoggiato Roma e Berlino.

Nonostante le sue ridotte dimensioni, l’Unione Slovena giunse comunque a dividersi al suo interno in numerose correnti: cattolici integralisti, cattolici popolari, liberali, destra di Sfiligoj e indipendenti.

Questi ultimi erano soprattutto di estrazione borghese (professionisti, docenti, eccetera), che in passato avevano preso le distanze dalle strutture unitarie della minoranza e che poi però riuscirono a fatica a entrare nel nuovo partito.

La componente liberale triestina, dalle forti radici borghesi, nel dopoguerra ebbe una consistenza maggiore di quella cattolica, però a partire dagli anni Sessanta venne lo stesso assorbita da quest’ultima.

Gli sloveni in linea con questa seconda corrente trovarono spesso impiego nel settore pubblico, in particolare nel comparto dell’istruzione e alla Rai, Radiotelevisione italiana.

Nella città giuliana la Democrazia cristiana, in quegli anni partito di maggioranza relativa, ricevette il sostegno dell’Unione Slovena nel quadro dei governi di centro-sinistra alla Regione e nelle Province. La Dc optò per questo tipo di operazione in ragione del fatto che aveva bisogno di immettere sloveni non comunisti alla radio e nelle scuole superiori slovene.

Si trattava di una strategia sicuramente in linea con i principi liberali di stampo anglosassone, che venne però limitata a questi specifici settori e non estesa ad altri. La ragione fu che il governo di Roma era obbligato a farlo, in quanto non avrebbe certamente potuto eliminare le concessioni fatte alla minoranza dagli Alleati nel dopoguerra (appunto l’emittente radiofonica che trasmetteva in lingua slovena e le scuole) e poi ereditate dallo Stato italiano.

Le componenti cattoliche dell’Unione Slovena furono sempre contrarie alla collaborazione con la Repubblica Federativa socialista jugoslava Sfrj), respingendo così anche i finanziamenti erogati in suo favore da Belgrado, che erano indirizzati alle attività culturali della minoranza slovena in Italia.

Tito non poteva finanziare direttamente dei partiti politici italiani, quindi si trovò costretto a trovare altri canali nel tentativo di influenzare la minoranza slovena attraverso la leva culturale.

In questo senso esistevano delle grandi differenze dagli Sloveni della minoranza presente in Carinzia, una comunità tradizionalmente cattolica, tuttavia maggiormente incline al pragmatismo rispetto a quella italiana.

In Austria venne infatti percorsa una strada diversa: i finanziamenti di Belgrado vennero accettati allo scopo di mantenere vive le radici culturali nazionali slovene nonostante le politiche del governo di Vienna, tenendo ovviamente nel conto i possibili rischi di un condizionamento da parte jugoslava.

Nel 1975, con la formazione di un partito a livello regionale venne eliminata dalla scena la storica componente riconducibile alla Sdz di Sfiligoj.

All’interno dell’Unione Slovena si imposero i cattolico-liberali, che indirizzarono la linea politica verso una maggiore apertura e collaborazione con la Jugoslavia socialista.

Pur partecipando con regolarità alle elezioni politiche, l’Unione Slovena non ottenne però mai complessivamente più di diecimila voti, quindi non riuscì mai a eleggere dei suoi candidati al Parlamento della Repubblica.

Nel 1992 si presentò alle urne all’interno della coalizione “Federalismo”, formata da Partito Sardo d’Azione, Union Valdôtaine e da altre formazioni regionaliste, “cartello elettorale” che riuscì a eleggere soltanto un deputato e un senatore, nessuno dei quali però del partito espressione degli Sloveni.

Al contrario della scena nazionale, dove non è mai riuscita a ottenere eccessiva visibilità, a livello locale la Slovenska Skupnost è stata invece in grado di svolgere un ruolo di relativo rilievo.

Una parte non indifferente dei consensi della minoranza vennero spesso indirizzati anche a beneficio di formazioni politiche diverse dall’Unione slovena, come ad esempio il Partito socialista italiano, che a Trieste e a Gorizia riuscì a eleggere al consiglio comunale un consigliere sloveno nelle proprie liste, questo mentre il Pci portava sempre qualche sloveno sia al Comune che in Regione, e anche un parlamentare a Roma.

Se Udo Grobar fosse sopravvissuto sufficientemente a lungo, quel mattino del 24 dicembre 2007 avrebbe potuto leggere sui giornali che il presidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e il premier di Lubiana il giorno precedente si erano stretti la mano al confine di Rabuiese.

Il breve conflitto di Nova Gorica, coi suoi tormenti, i suoi morti e le sue speranze, era ormai lontano e l’ansia vissuta in quei drammatici momenti da un’intera regione restava ormai un ricordo del passato.

Oltre la vecchia frontiera che da poche ore non esisteva più, solo le associazioni dei veterani della Difesa territoriale e i parenti dei caduti in combattimento restavano a mantenere viva la memoria di quei giorni.

Il resto degli Sloveni, ottenuta l’indipendenza, aveva presto archiviato il caso pensando ai traguardi futuri, Nato e Unione europea in primo luogo, dedicando particolari attenzioni ai funzionari delle banche e delle compagnie di assicurazioni tedesche e austriache, prontamente calati in massa nella Repubblica del Tricorno allo scopo di adeguarne il sistema economico-finanziario alla nuova realtà comunitaria, impiantando così da subito le loro agenzie e i loro sportelli in vista della conquista di nuove fette di mercato.

Tutto era finito. I giorni caldi della guerra, quando si combatté a pochi minuti di macchina dalle case di goriziani e triestini erano entrati nella storia.

Quel giorno di fine giugno, mentre i goriziani si assieparono preoccupati sugli spalti del castello per assistere impotenti ai combattimenti che alcune centinaia di metri più in basso stavano incendiando Rožna dolina, la minoranza slovena della città e del circondario visse confusa il drammatico preludio alla fine della Jugoslavia.

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